Questa intervista di Chiara Casaburi a Giovanna Zoboli è stata realizzata nel corso del 2020 per la redazione di un contributo dal titolo Quando il vuoto di parole brulica di senso. Percorsi nell’universo narrativo dei silent book, che fa parte del volume collettaneo La fabbrica della Fantasia (Edizioni Santa Caterina, 2020) nato dal Master in editoria Professioni e prodotti dell’editoria, promosso dal Collegio universitario S. Caterina con l’Università di Pavia. La raccolta comprende 21 saggi sulla letteratura per ragazzi, dagli albi illustrati, ai cartonati, alla divulgazione, ai libri gioco, ai grandi autori, ai classici, fino alle Fiabe sonore, ai Piccoli brividi e ad altro ancora (qui potete trovare sia l’indice sia la prefazione di Roberto Cicala e Walter Fochesato). Rigraziamo Chiara Casaburi e Giulia Antoniotti, coordinatrice del Master, per averci permesso la sua pubblicazione (nel saggio di Casaburi non appare l’intervista integrale, ma solo alcune sue parti). Se desiderate acquistarlo, lo trovate qui.
Iniziamo con una domanda più “teorica”: è a lei che si deve, in Italia, la definizione silent book, apparsa in un suo articolo del 2005. Definizione controversa di cui tanto si è detto, ma alla fine è quella più usata nel nostro panorama letterario-editoriale. In Germania si fa invece riferimento al “brulicare”, con wimmelbucher, mentre nei Paesi anglofoni e francofoni si ha una definizione più esplicativa (con wordless picture-books e album sans texte). Alla luce degli studi che sono nati intorno a questa forma narrativa e ai suoi sviluppi (dopotutto sono passati quindici anni), e confrontandosi con le definizioni straniere, il termine silent book sarebbe ancora la sua prima scelta?
Le parole sono strane, non chiedono il permesso a nessuno di imporsi. Lo fanno se guadagnano terreno nell’uso, se i parlanti le adottano, un gran numero di parlanti, non due o tre persone. Se i parlanti non le adottano, si intristiscono e pian piano si estinguono. Io lessi la definizione silent book, anni fa, nel 2005, mentre preparavo una lezione sui libri illustrati senza parole, durante un corso che tenevo all’Accademia Drosselmeier, a Bologna. Era riportata in un sito americano, a proposito di un libro d’artista senza parole e, avventatamente, pensando che si trattasse di un uso invalso in area anglosassone, la adottai. Utilizzai poi il termine, oltre che nelle mie lezioni, non in un articolo nel 2005, ma nel catalogo Topipittori del 2006. Come è andata lo spiego in questo articolo che ho scritto nel 2016 per Doppiozero. Quindi in realtà io, a ben vedere, sono stata il mezzo di trasporto che l’espressione ha usato per arrivare in Italia e diffondersi. Adesso chi sono io per stabilire che bisogna tornare al più corretto wordless picture book? Espressione che io, per altro, in contesti di studio uso. Ma se mi rivolgo a un pubblico più largo, uso silent book, per essere capita con immediatezza, perché questa è la dizione che si è affermata (e di cui ovviamente mi sento anche un po’ responsabile…). Quanto ai wimmelbucher, non si tratta esattamente di libri senza parole (in alcuni casi le hanno, anche se poche), o meglio, si tratta di una particolare categoria di silent. Sono libri che propongono immagini ricchissime di dettagli che il lettore deve leggere con particolare attenzione, costruendo il racconto e la sua complessa, corretta sequenza, attraverso un accurato censimento visivo delle illustrazioni.
Nel 2006, con la sua casa editrice Topipittori ha pubblicato Chiuso per ferie, un silent ideato da lei e illustrato da Maja Celija. All'epoca l'albo ha attirato diverse critiche negative, non è stato davvero apprezzato – né, sicuramente, capito – mentre oggi è considerato un classico nostrano. Da allora i silent hanno fatto strada, e oggi hanno conquistato un interesse molto più ampio. Da editrice di illustrati, a quali cambiamenti ha assistito? E quali sono gli sviluppi più recenti che stanno interessando questa forma? Ci sono degli autori, in particolare, che stanno ridefinendo la produzione di albi illustrati senza parole?
In realtà i wordless book sono sul mercato da decenni, e lo erano anche in Italia, per esempio con la Emme di Rosellina Archinto, che negli anni Sessanta invitò gli autori a esplorare questa tipologia di albo, fra gli altri Iela Mari che in seguito realizzò alcuni veri e propri capolavori, oggi nel catalogo di Babalibri. Chiuso per ferie uscì quando in Italia, ormai, era molto tempo che di silent book non se ne vedevano sugli scaffali delle librerie (l’illustrato, in Italia, dopo l’esperienza della Emme, dagli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Duemila, ha conosciuto, a parte qualche eccezione, una decisa flessione rispetto a molti paesi del mondo in cui invece la sperimentazione sull’immagine nei libri per ragazzi è continuata, fertilmente): per questo suscitò una certa perplessità. L’assenza di testo fu interpretata da alcuni come una esaltazione dell’immagine a discapito della parola, secondo la classica contrapposizione immagine/emotività/intrattenimento/evasione vs testo/razionalità/apprendimento/impegno. Un tipo di visione che in seguito è stata demolita con ottime argomentazioni non solo negli studi di settore nell’ambito dei libri illustrati, ma anche dalle scienze cognitive.
Copertina e interni di Chiuso per ferie (Maja Celija, Topipittori 2006).
Come tutti i libri illustrati, anche i silent book non sono facilmente incasellabili in una tipologia, perché sono tali e tante le varabili che possono essere adottate dagli autori nel costruirli – formato, tecniche, grafica, materiali -, che, a parte la caratteristica principale, quella di non avere parole - il che fra l’altro non è del tutto vero, perché le parole ci sono in questi libri, come mostra per esempio la tetralogia sulle stagioni, di Susanne Rotraut Berner da noi pubblicata, dove le parole presenti sono quelle che abitano, insieme a uomini animali piante case, la cittadina di Wimmilingen – si può dire che ogni albo sia davvero diverso dall’altro. I silent di David Wiesner (fra i maestri mondiali del genere) sono assolutamente diversi da quelli enigmatici e spogli della francese Juliette Binet, o da quelli filosofico narrativi della coreana Suzy Lee o da quelli fotografici puramente iconici di Katy Couprie e Antonin Louchard, o da quelli fantastici di Marie Caudry e Gauthier David, o da quelli grafico didattici di Iela Mari. Quindi direi che nessuno, oggi, in particolare stia ridefinendo questo tipo di produzione che è sempre stata caratterizzata da una vena sperimentatrice molto significativa. Invece, mi pare sia stato determinante per divulgare la conoscenza di questo tipo di libri presso il pubblico dei lettori, genitori, insegnanti, educatori, ma anche gli stessi editori per ragazzi, l’impulso dato da IBBY Italia, in collaborazione con IBBY International e i Servizi educativi-Laboratorio d’arte del Palazzo delle Esposizioni di Roma, che ogni anno definisce una selezione internazionale di silent book, destinata a nutrire il fondo librario della Biblioteca dell’isola di Lampedusa e a costituire una mostra itinerante a livello internazionale.
L'uovo e la gallina e atri silent book di Iela Mari.
L'ombre d'Igor (Juliette Binet, Éditions Autrement 2009).
Prima si è parlato di diverse definizioni per riferirsi ai libri senza parole, confrontandole a livello internazionale. Anche qui le chiedo il suo punto di vista da editrice: quanto e come varia la percezione, la ricezione e la produzione dei silent nel contesto internazionale?
Come dicevo prima, la natura sperimentale di questa tipologia di albo lo rende molto frequentato in Paesi che hanno un livello di innovazione visiva più alto. Fra questi oggi c’è anche l’Italia, ma senza dubbio la Francia continua a primeggiare, anche perché in questo Paese la qualità visiva, esteticamente parlando, continua a essere un valore primario nei libri per bambini e ragazzi, non per niente è in Francia che da sempre i libri illustrati sono caratterizzati da un approfondimento grafico e iconico d’avanguardia. I wimmelbucher continuano a essere, invece, prediletti in area anglosassone, dove sono nati. Le tradizioni culturali sono decisive, perché fanno sì che il pubblico abbia strumenti disponibili da più lungo corso e quindi più adeguati alla comprensione. Faccio un esempio: anni fa i wimmelbucher della Berner in Italia non li acquistava nessuno (due della tetralogia furono pubblicati da Emme nel 2004, che infatti smise quasi subito di pubblicarli), oggi il mercato, dopo tutto il lavoro di formazione fatto nel corso degli anni sui silent book, li ha accolti trionfalmente. Sul mercato americano, invece, vanno molto forte i silent narrativamente più tradizionali, alla Wiesner, che raccontano una storia secondo vere e proprie modalità cinematografiche. È indubbio che in tutto il mondo, in ogni modo, ci sia stato un crescente interesse verso questo tipo di libri. Una delle ragioni è che si prestano molto bene a contesti connotati da forti scambi culturali e forte mobilità, da grandi flussi migratori che pongono il problema delle lingue e dei codici culturali: insomma, quelli tipici del nostro tempo. Il linguaggio delle immagini, che si basa non solo su abitudini e tradizioni culturali, ma in prima battuta soprattutto su meccanismi percettivi uguali per tutti, facilitano la lettura laddove ci sia bisogno di creare comunità condividendo narrazioni, come a scuola, e in generale nei contesti educativi di formazione o recupero. Il progetto della Biblioteca di Lampedusa di Ibby Italia si fonda proprio su questo presupposto.
La tetralogia delle stagioni di Susanne Rotraut Berner (Topipittori, 2018-2019).
Interno di Inverno (Susanne Rotraut Berner, Topipittori 2018).
Interno di Estate (Susanne Rotraut Berner, Topipittori 2019).
Ho letto sul blog Topipittori il suo articolo sulla genesi di Professione coccodrillo, e ne sono rimasta affascinata. In particolare ho trovato interessante la sua rivelazione circa “i tempi d'attesa”: la storia del Coccodrillo esisteva da un po', ma non aveva ancora trovato il suo interprete visivo, se così posso dire: «Professione coccodrillo ha atteso parecchio tempo, ma è stato tempo giusto, necessario a far sì che quella trama alla fine incontrasse la sua regista». Lavorando con Maja Celija si è creata la giusta affinità, e l'artista è riuscita a illustrare perfettamente una storia che aveva già dei contorni ben definiti. Com'è, in questo caso, il lavoro tra autore e illustratore, il rapporto tra testo e immagine?
In entrambi i casi, Chiuso per ferie e Professione coccodrillo, mi sono limitata a consegnare alle illustratrici un soggetto estremamente dettagliato, il che significa nel quale fosse presente non soltanto la trama portante della storia, ma sequenza per sequenza, tutto ciò che accade nella storia. La pura trama, per esempio, nel caso di Professione coccodrillo, sarebbe: “Un coccodrillo si sveglia, si lava, si veste, esce di casa, raggiunge il posto di lavoro che è lo zoo cittadino; il coccodrillo si sveste ed entra nella gabbia dei coccodrilli. A questo punto il lettore scopre quale sia la sua professione”. Nel mio soggetto per Professione coccodrillo, invece, tutto quello che accade nelle immagini del libro è rigorosamente presente (a dire la verità, una cosa in più, rispetto al mio soggetto, c’è, ed è il sogno che all’inizio del racconto il coccodrillo sta facendo). Mariachiara Di Giorgio ha fatto tutto il resto, che naturalmente è moltissimo: definire scenari, ambientazioni, luci, ombre, tonalità cromatiche ed emotive, caratterizzazione di personaggi, definizione di inquadrature e di partizioni della pagina che danno il ritmo della narrazione eccetera. Su questo io non ho messo becco. E così dicasi per il lavoro fatto da Maja Celija per Chiuso per ferie. L’apporto autoriale del soggettista, tuttavia, è così definito che in Professione coccodrillo, in copertina, abbiamo deciso di inserire il mio nome. In Chiuso per ferie questo non è accaduto perché i tempi non erano ancora maturi per questo tipo di riconoscimento, e il mio nome appare solo nel colophon (ci fu un critico che, fra l’altro, lo contestò, osservando che il mio avrebbe dovuto essere considerato un normale intervento da editor nel corso della lavorazione del libro).
Copertina e interno di Professione coccodrillo (Giovanna Zoboli e Mariachiara Di Giorgio, Topipittori 2017).
Disegni preparatori di Mariachiara Di Giorgio.
Leggevo nel saggio di Suzy Lee, La trilogia del limite, che la sua editor ha avuto la lucidità e la sensibilità di riportare sulla giusta strada l'autrice stessa, sconsigliandole di inserire degli elementi visivi che avrebbero snaturato l'opera. In qualità di editor, come lavora con gli autori-illustratori dei libri senza parole, in cui non è possibile intervenire sul “testo”?
Come dicevo, mi sono trovata a lavorare con illustratrici e illustratori (abbiamo anche un silent book di Massimo Caccia, in catalogo: C’è posto per tutti che, in verità, è nato su delle parole: il testo biblico che racconta la storia dell’arca Noè, che però alla fine abbiamo deciso di eliminare perché le immagini, da sole, ci sembravano acquisire un respiro più ampio) che non hanno avuto particolare bisogno di indicazioni, da parte mia, in quanto autrice, perché tutto era dettagliatamente espresso nel soggetto. Ciò che rimaneva loro da fare, pertanto, atteneva alle scelte autoriali che, in generale, io tendo a rispettare, anche perché di solito gli illustratori con cui lavoriamo sono estremamente attenti e rigorosi sulla costruzione del progetto e lo studiano a fondo, prima di arrivare a soluzioni definitive. Certamente, come avviene sempre, e non solo nel caso dei silent, c’è un continuo confronto e scambio di idee con l’editor, man mano che il libro prende forma. Mi viene da dire, quindi, che io tendo a non intervenire come autrice sulle scelte degli illustratori, ma più come editore o editor. Quindi il mio contributo è nel senso di una razionalizzazione del progetto. Cosa funziona e cosa no, e perché. Non discuto quasi mai su scelte di stile, di poetica – del resto, quando scegliamo un illustratore, lo scegliamo proprio in base a un’osservazione molto attenta delle sue caratteristiche espressive, di stile, quindi è difficile che poi io chieda cose diverse da quella per cui l’ho selezionato. Diciamo che nel caso dei due silent citati la regia del libro era già completamente presente nel soggetto e non c’è stato bisogno di molto altro, anche se poi è vero che ci si confronta su ogni singola scelta, ma questo per prassi. Inoltre va detta una cosa importante: che all’inizio di ogni progetto, che sia un silent o no, prima di qualsiasi interpretazione personale, noi definiamo sempre con molta attenzione il piano generale insieme agli illustratori, e spieghiamo in che senso ci piacerebbe lavorare, rispetto allo sviluppo del libro.
Illustrazione di Massimo Caccia per C'è posto per tutti (Topipittori, 2011).
Da autrice e da editor, secondo lei qual è – ammesso che ci sia – il segreto per un silent che piaccia tanto a piccoli lettori quanto ad adulti?
Deve raccontare una storia molto interessante o essere costruito su un’idea molto forte, il che è praticamente la stessa cosa. E poi deve essere ben costruito e realizzato. In sostanza l’uovo di Colombo. Ma la facilità della formula, come è noto, è solo apparente. Per esempio non tutti gli illustratori, anche se bravissimi, sono in grado di realizzare una sequenza narrativa che si sviluppa su 32 o più pagine. Ci vuole una padronanza narrativa del disegno specifica per fare questo lavoro, che non è affatto scontata. La stessa cosa vale per gli autori: immaginare una storia senza parole richiede una competenza narrativa solida, strutturare una trama in grado di stare in piedi, nel libro, senza il supporto delle parole a cui di solito gli scrittori non sanno o vogliono rinunciare.
Infine, una curiosità (da amante degli aneddoti): vi è mai capitato di assistere, o di venire a conoscenza, di particolari riscontri da parte dei vostri giovani lettori? Ci sono state delle reazioni, delle osservazioni o delle risposte a qualcuno dei vostri silent che vi hanno particolarmente colpito? Trovo sempre interessante notare la reazione dei bambini a storie e immagini che noi adulti tendiamo a inquadrare in certi schemi. Finita la quarantena, per esempio, sarò molto curiosa di leggere Professione coccodrillo con il mio nipotino, che adora i rettili. Chissà quali chiavi interpretative riuscirà a suggerirmi!
Direi che accade di stupirsi e di incontrare nuove narrazioni ogni volta che un bambino legge un libro senza parole (e un libro illustrato tout court). Cito un episodio per tutti: il figlio di una nostra bravissima illustratrice, Alicia Baladan, quando era piccolo, ogni sera pretendeva di raccontare al papà e alla mamma tutta la storia, secondo il suo punto di vista, di Chiuso per ferie che lui aveva intitolato ex novo Ferie per chiuso. Alicia, nel 2011, su questa lettura di suo figlio ha scritto un pezzo molto interessante per il nostro blog, che si trova qui. Lo legga perché è davvero emblematico: mostra chiaramente come la ricchezza interpretativa di un bambino in assenza di parole sia circostanziata ed ecceda di gran lunga le intenzioni degli autori. Il bambino osserva tutto e su tutto costruisce percorsi immaginativi di senso perché a tutto attribuisce una precisa spiegazione e ragione d’essere. È un procedimento immaginifico, ma nello stesso tempo anche altamente razionale: costruire un racconto che risponda alla logica e nello stesso tempo gratifichi il lettore dal punto di vista immaginativo, esaudendo desideri, esorcizzando paure, ipotizzando soluzioni. Con buona pace di chi sostiene che le immagini esercitino livelli di apprendimento e sviluppo cognitivo inferiori rispetto alla parola. Mi viene in mente, in proposito, quell’episodio che racconta Italo Calvino in Visibilità, una delle note Lezioni americane, quando scrive che una scuola fondamentale di fabulazione fu, per lui, osservare le immagini del Corriere dei Piccoli quando ancora non sapeva leggere. Riporto: «Comunque io che non sapevo leggere potevo fare benissimo a meno delle parole, perché mi bastavano le figure. Vivevo con questo giornalino che mia madre aveva cominciato a comprare e a collezionare già prima della mia nascita e di cui faceva rilegare le annate. Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle costanti in ogni serie, contaminavo una serie con l’altra, immaginavo nuove serie in cui personaggi secondari diventavano protagonisti. Quando imparai a leggere, il vantaggio che ricavai fu minimo: quei versi sempliciotti a rime baciate non fornivano informazioni illuminanti; spesso erano interpretazioni della storia fatte a lume di naso, tali e quali come le mie; era chiaro che il versificatore non aveva la minima idea di quel che poteva essere scritto nei balloons dell’originale, perché non capiva l’inglese o perché lavorava su cartoons già ridisegnati e resi muti. Comunque io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione. Questa abitudine ha portato certamente un ritardo nelle mie capacità di concentrarmi sulla parola scritta (l’attenzione necessaria per la lettura l’ho ottenuta solo più tardi e con sforzo), ma la lettura delle figure senza parole è stata certo per me una scuola di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine.»
Ombra (Suzy Lee, Corraini Edizioni 2010).