[di Cristina Bellemo]
«… l’universo è grande così grande come il valore di una persona».
[Arjuna, dieci anni, peruviano, in Ma dove sono le parole, a cura di Chandra Livia Candiani con Andrea Cirolla, Effigie, Il Primo Amore, I fiammiferi]
Come si fa a raccontare una storia piccola? Be’, in quanto piccola, è presto detta. Anzi no. Perché una storia piccola può essere anche grandissima, immensa, e può custodire in sé tanto, e tutto di noi.
Quando ho scritto Storia Piccola lavoravo ad alcuni racconti di adozione: riflettevo su che cosa significa, e che cosa provoca, l’arrivo di un bambino, in qualsiasi tempo, in qualsiasi luogo egli giunga. E riflettevo anche sulle parole per dire, sul loro coraggio e sulla loro bellezza.
Da sempre sono innamorata delle parole, sul mio biglietto da visita è scritto proprio Parole: mi incantano, mi affascinano, talvolta i loro prodigi mi disarmano e mi sconcertano. Così è germogliato un racconto che si snoda su questi due sentieri, la vita e le parole, riuniti a un crocicchio da una convinzione profonda: ciascuno di noi è una storia piccola e però piena di dignità. Una storia che merita spazi e tempi di narrazione di sé, di accoglienza e di ascolto. Perché una storia le cui parole nessuno ascolta e nessuno dice, muore. E con lei muore la persona che ne è portatrice.
Ogni storia piccola STA nell’infinito, granellino di preziosa unicità, e RESISTE e RESISTE. E dice. E dà.
Storia Piccola inizia proprio da qui: C’era una volta l’infinito.
Ricordo con un sorriso il promettente smarrimento di Alicia Baladan davanti a questo incipit: «Come si affronta una storia che incomincia così?!». Ma questa sfida, che lei sentiva grande, doveva poi guidarla a creare la meraviglia delle illustrazioni che ha disegnato per questo albo (dovete vederle: sono infinitamente capaci di significati!). È la storia di un bambino che viene alla luce, nasce. Nel corso della vita si nasce molte volte, ma qui la novità del suo essere al mondo, in quel preciso piccolissimo luogo che è dentro l’infinito, in quel preciso piccolissimo istante che è dentro l’eternità, richiede attenzione da parte del mondo. Un bambino che nasce è qualcosa che CI riguarda, pena la rinuncia alla nostra umanità. Lo afferma ad alta voce Arjuna, nei suoi versi riportati in apertura.
Beniamino nasce in un giorno, in una casa, in una famiglia, in un’aria, in un profumo, in un ordine o in un disordine di una stanza, alla presenza o in assenza di qualcuno, in una tonalità di luce che irrompe o nel mistero di una penombra.
Intorno, anche nella natura, tutto è fremito, e trepidazione, ed emozione per lui. Beniamino è un principe, il suo nome significa prediletto (e perciò atteso), e la sua mamma è una Reginamamma e il suo papà è un Repapà. È una regalità fiabesca e dunque metaforica: a significare che ciascuno ha potenzialmente diritto sovrano sulla propria esistenza, e al contempo che la potenza della gioia ci fa re.
L’onda di questa gioia autentica si propaga con un’energia e un entusiasmo istintivi e bambini: è un contagio. Non ci si trattiene dal mostrarsi anche «sfrenati» in questo festeggiare. Oggetti di uso quotidiano diventano improvvisati strumenti di musica, e si mangiano leccornie come solo nelle feste eccezionali.
Poi le tappe della crescita di Beniamino sono scandite dalle parole che egli pronuncia per dire il mondo. Sono parole piene della sua stessa sorpresa. È dare nome, consistenza percepibile e condivisibile di suono a ciò che si incontra e si conosce in un primo tempo silenziosamente con i sensi, si vede, si tocca, si ascolta, si assapora, si annusa. Nominare il mondo, per un bambino, è FARE il mondo. Far esistere ciò che è detto. E accanto a questo, la voglia irresistibile di comunicare le proprie scoperte, che mette in gioco un tu, chiama a una relazione.
Così Beniamino dice la mamma e il papà, riconoscendo i genitori come altro da sé. Dice se stesso, e l’impegnativa costruzione della sua identità. Dice la sete, che è consapevolezza dei propri bisogni primari e autonomia nell’esprimerli, ma anche desiderio pervadente di conoscenza.
Dice la paura che l’incontro col mondo inevitabilmente fa scoppiare. Dice gli amici, e la necessità di relazioni esterne ed estranee al nucleo familiare. Dice la possibilità di immaginare, e toccare con i pensieri e le parole i mondi non ancora conosciuti, ma sognati e immaginati. Le parole sanno raggiungere anche il lontano. Poi viene il momento di imboccare la sua strada, di dire la sua vita.
Tra le parole di Beniamino, ci sono i silenzi, preziosissimi: sono i tempi dell’attesa, della pazienza, della preparazione. Accanto a lui mamma e papà vivono questo suo crescere, e sbocciare alla vita, con sconfinata e sbaragliante allegria. Sicuri che tutta questa bellezza non è cosa da tenere solo per sé. È bellezza che ci permea e ci fa migliori e dunque si trasmette, e si attacca, e si appiccica, perfino indipendentemente dalla nostra cosciente volontà.
C’è un verso, in una canzone di Niccolò Fabi che si intitola Attesa e inaspettata: «chi viene alla luce, illumina». Mamma e papà desiderano subito dare il loro contributo di bene e di bello al mondo nel nome di Beniamino. Con sincera e solida concretezza, direi proprio corporea, fisica, e non nei termini di una virtuale socializzazione, di un’ostentazione autocompiaciuta, e perciò fragilissima. Piantare un albero d’olivo che regali ossigeno e ombra con la sua chioma. Far zampillare fontane in tutto il regno perché ci si possa dissetare. Accogliere. Regalare concerti fuori programma. Fare festa.
Che bello pensare che l’arrivo di un bambino possa rendere davvero migliore il mondo! I genitori sperimentano anche quella sbadataggine (ben nota agli innamorati…) che è necessario affrancamento dalla tirannia della razionalità, pausa rivitalizzante dal ragionare, e dal dover ponderare. Abbandono benefico alle emozioni.
Danzano sotto la pioggia senza ombrello. Dimenticano la guerra. Dormono con le ciabatte infilate. Lasciano volar via le tende dalle finestre. Che libertà!
Recuperano il loro sé bambino ma, al contempo, vivono anche il loro spazio di distanza e di indipendenza della relazione di coppia. E forse anche di questo si nutre la loro fiducia verso Beniamino, verso il suo percorso, fino alla partenza per un nuovo viaggio, tutto suo. Non lo hanno caricato delle loro aspettative, e hanno accolto con un senso di dono e di straordinarietà ogni suo gesto di apertura al mondo. Lasciandosi sempre sorprendere. Non permettere a una persona di sorprenderti, ingabbiandola in schemi di giudizio e di pregiudizio, è una forma di uccisione della vita, e dell’individualità. Certamente mamma e papà gli sono stati al fianco con parole belle.
Alicia Baladan, Storia Piccola in corso d'opera.
Nel periodo in cui scrivevo Storia Piccola, come dicevo, pensavo alle parole. E un giorno mi capita (non certo per caso…) di leggere nel blog di Topipittori una recensione al libro Infanzia, di Nathalie Sarraute (che ho poi subito acquistato), dalla penna di Giovanna Zoboli. Ne sono stata conquistata, forse perché parlava così direttamente a certe parti di me, alla mia personale esperienza. Scrive Giovanna: «Le parole, i racconti che accompagnano la nostra venuta al mondo hanno il potere di determinare il corso della nostra vita, almeno fino a quando la nostra lingua, in uno sforzo titanico di autodeterminazione, non comincia a conformare questa narrazione a regole sue proprie».
Sì, sono pienamente d’accordo con Giovanna quando sostiene che le parole sono questione di vita o di morte.
Alicia Baladan, Storia Piccola, tavola in corso d'opera.
Reginamamma e Repapà di sicuro hanno circondato Beniamino di parole belle, anche se la storia vi accenna soltanto senza pronunciarle, concentrandosi su quelle di Beniamino. E lui le ha ascoltate, e imparate, e le ha ripetute facendole sue.
Mi sono detta quanto è fondamentale che come adulti, e non solo genitori, regaliamo parole belle ai nostri bambini, con la genuinità di chi, prima ancora, le cerca instancabilmente per se stesso. Le parole belle non sono solo quelle che dicono le cose a modino, buone e carine. Sono le parole precise, intense, poderose, che sanno rivelare universi in poche lettere, in una manciata di note.
Alicia Baladan, Storia Piccola, schizzi preparatori.
Non dobbiamo essere sciatti nell’uso delle parole con i bambini, non dobbiamo darle per scontate, non dobbiamo sottovalutarle. Dobbiamo anzi averne cura, proteggerle, sorvegliarle, sentirle come patrimonio da trasmettere. E donarle, spargerle, sparpagliarle, proferirle, annunciarle, ripeterle, sussurrarle, farle risuonare e rimbalzare. Accudirle perché crescano forti, e si arricchiscano di significati nuovi, di inedite possibilità narrative. Giochiamo, anche, con le parole, senza mai perdere di vista il loro vigore e il loro peso.
Una parola non vale l’altra, e sceglierle è un atto di rispetto e d’amore. Diamo alle parole la dignità che chiedono, chiamiamole con il loro giusto nome. Esse possono cambiare il nostro mondo, e quindi il mondo.
Alicia Baladan, Storia Piccola, tavola in corso d'opera.
Scrive Chandra Livia Candiani in Ma dove sono le parole?, a proposito del suo lavoro sulla parola poetica con i bambini: «… ho l’intenzione di regalare strumenti. Strumenti che non ci abbandonino quando la vita è dura e non sappiamo come o a chi dirlo, strumenti che non ci lascino soli quando la gioia ci sommerge e vorremmo lasciare tracce, dire a qualcuno che si può essere felici. Strumenti per conoscere noi stessi, quando ci siamo persi, per tenerci stretti quando ci sentiamo abbandonati, per innamorarci di questo sconosciuto che ci sta sempre accanto, che siamo noi». Qui sta forse anche un pezzettino di senso del mio scrivere storie piccole. E, a questo proposito, mi piace riportare un ultimo frammento dall’articolo di Giovanna, dove risponde a chi le chiede cosa renda un testo adatto alla lettura di un bambino. «Un uso di ogni singola parola rigoroso, non casuale, appassionatamente attento, profondamente veritiero, onesto, limpido, vivo. Una disciplina delle parole “non solo inerente alla scrittura, ma a tutta la vita intellettuale (Flannery O’ Connor”)».
Vita, e parole per dirla.
Alicia Baladan, Storia Piccola, tavola in corso d'opera.