Una storia d'amore

Potrei dirvi tutto su questo libro, ma il suo mistero rimarrebbe intatto

[di Joanna Concejo e Artur Scriabin]

Artur,

ci siamo visti poco. Qualche volta di sfuggita in qualche caffè parigino. Mai soli, ci siamo scambiati poche parole. Ma molti sguardi. E non ricordo se i tuoi testi mi siano arrivati prima o dopo che ci siamo incontrati.

Me ne avevi mandati diversi, tutti molto belli, ma questo parlava d’amore. Alla prima lettura sentii che dietro l’immagine di quella neve, in un luogo così improbabile come il Senegal, ardevano le braci di un amore perduto, lontano. Un amore che ora riviveva attraverso i fiocchi bianchi e gelidi e il canto di una donna in lacrime.

Un uomo racconta la storia. Ricorda. Racconta se stesso: un ragazzino di otto anni in un paese caldo che, con l’arrivo di una nevicata inattesa, impossibile, si fa improvvisamente freddo. In quel ragazzino, testimone della commozione di sua madre, di un fiore che si schiude in mezzo alla neve, io vedevo te. Ti guardavo e mi stupivo del tuo silenzio, della tua sensibilità, del tuo amore. Perché anche lui amava molto.

Il libro iniziava a rivelarsi nel mormorio dei miei pensieri, nei bisbigli dei primi schizzi sul mio quaderno. Dovevo solo aspettare di scoprirlo. Trovare il modo per arrivare a lui. E ci sarei arrivata solo attraverso gli occhi del ragazzo. I tuoi occhi. Volevo mettermi al suo fianco, guardare dove lui mi avrebbe detto di guardare. A mia volta, avrei portato i lettori a osservare con i suoi occhi. Il suo sguardo toccava tante piccole cose semplici e ordinarie, ma anche l’immensità dei paesaggi, l’immensità delle anime quando sono fragili e quando amano. Volevo che i lettori sentissero con lui. Che avessero freddo sotto la neve. Che facessero entrare un po’ di quelle emozioni che sanno sopraffarci, spaventarci e, allo stesso tempo, regalarci gioie inattese.

Ci siamo visti e parlati poco, ma ci siamo scritti molto.

Ho iniziato a disegnare qualche immagine. Prima la donna che fuma, con lo sguardo perso nella nebbia dietro la finestra, poi la foto di una coppia che si bacia. Poi l’immensità bianca, come i disegni che il grande freddo fa sul vetro. Quante volte da bambina li guardavo, rapita, sui riquadri della finestra della mia camera. Perché anch’io vengo da un paese dagli inverni lunghi e duri. E anch’io amo la neve.

Dopo le prime immagini, non sapevo più cosa disegnare. Non mi sentivo in grado di raccontare quell’amore. Non lo conoscevo. O, forse, lo conoscevo troppo bene. Sì, credo che comprendessi bene quella donna che piange e canta sotto la neve. Anche a me vengono le lacrime agli occhi quando vedo i fiocchi bianchi cadere dal cielo grigio. Non so come spiegarlo. Non so bene cosa sia quella nostalgia che mi assale, quel rimpianto di non so cosa. Come se sentissi la mancanza di qualcuno, di qualcuno che non conosco. È un po’ così quando guardo una vecchia fotografia mai vista prima. Non so nulla di quelle persone, non conosco i luoghi. Vedo solo quel bambino che fissa una fotografia. A volte le persone sorridono. A volte si tengono per mano. A volte si baciano. E non so perché, mi fanno venire un’improvvisa tristezza.  

Non bisogna spiegare! Credo che sia questo il punto. Fare un libro senza spiegarlo. Non spiegarlo agli altri. Sentire e basta. Procedere per piccoli tocchi di immagine. Assemblarli sulle pagine, uno dopo l’altro. Mostrare un viso, una foglia che danza nel vento, un tovagliolo di carta con dei motivi appena visibili che ricordano la prima neve del mattino, senza alcuna traccia del passaggio di umani o di gatti. L’ala di una farfalla, un fiore, una città sognata, come Venezia, un riflesso nello specchio, un’ombra che se ne va, una spiaggia deserta…

Disegnare te e disegnare me. E tutto quello che non sappiamo l’uno dell’altra. Tutto ciò che piangiamo, senza sapere perché. Tutto ciò che taciamo. Come la neve che cade.  Senza spiegare. Disegnare le domande. Come i giorni che passano. Le pagine che passano. Così, ho fatto un quaderno. E ci ho disegnato tutte le cose di cui non sono sicura, ma che mi sembrano giuste. Ho disegnato tutte le domande senza aspettare le risposte. «Questa donna chi amava, lontano da qui, in quel paese sempre sotto la neve? Com’era da bambina? Amava le sue rose? Le peonie? E il ragazzo? E l’uomo che racconta? E tu, Artur?».

Sul mio quaderno c’erano molti vuoti, molti «non so», «vedrò dopo», «lasciamo fare al tempo». Ma questo non mi ha bloccato, giravo pagina e facevo altre domande. Una felce, una giostra, dei fili d’erba alti e gialli… e quella volpe in mezzo alla neve?

Sempre senza risposta.

Il quaderno si è riempito.

Il libro era già là.

Lo so, ti ho fatto aspettare tanto, Sei stato paziente.

Ci vediamo sempre poco.

Ti voglio bene.

Joanna

Studi di Joanna Concejo dal quaderno per Senegal (Topipittori, 2022).

Carissima Joanna,

ti scrivo questa lettera, anche se quello che vorrei sarebbe mandarti una cosa soltanto, ma intensamente. Come se, con uno sforzo del pensiero, io potessi costruire una parola sola o forse due. E dartele. Come un silenzio che brucia.

Ho riletto parte della nostra corrispondenza e la mia prima lettera risale a dieci anni fa, quando ti scrivevo da perfetto sconosciuto, in modo così selvaggio e disperato, come un naufrago che lancia una lettera in mare. Come sai, io credo nel caso, in quella musica della vita che ci trasforma.

Ricordo che nella tua risposta alla mia prima lettera, quando ancora non ti avevo mandato una sola parola di Senegal, mi scrivesti con gentilezza, ringraziandomi per l’interesse, ma ricordandomi che avresti accettato solo quei progetti che ti avessero fatto “cantare l’anima”. Non riesco a pensare a una filosofia di vita migliore di questa. Anzi, non ne vorrei nessun’altra.   

Poco tempo fa, un’amica mi ha chiesto cosa voglio dalle cose. Cosa cerco. Dagli amici. Da una passeggiata. Dalla donna che amo. Da una mattina di gennaio. Da lei. All’inizio, non seppi cosa rispondere. Mi sembrò una domanda troppo grande. Poi lo vidi. Chiaro e nitido. Io cerco la poesia. Voglio stare dentro la poesia. Essere la poesia. Ballare sulle braci. Stare nell’istante in cui le cose si fanno parola. Il luogo di nascita. L’arco e la corda del violino che diventano musica. La stella che cade dal cielo, si avvicina, arriva. E un campo. Una zolla di terra in silenzio, il ruggito del cielo, la luce accecante, inarrestabile. L’impatto. 

A volte mi chiedo quali siano le ragioni per cui leggiamo. Ho sempre pensato che il piacere sia il motivo principale e, se mai ne esistesse uno paragonabile al piacere, questo dovrebbe essere la trasformazione. La lettura deve “strapparci questa faccia infame”. Dev’essere “un punto dal quale non si può far ritorno”.

Il tuo modo di guardare il mondo è quel “cantare l’anima”, l’essere poesia, l’impatto della stella su un campo, è affacciarti sui tuoi abissi, sui giardini segreti della memoria e del sogno, ascoltare il battito degli animali selvatici che lo popolano, senza possibilità di far ritorno. Sai che c’è una luce piccola come un campanello che trema nell’oscurità. Senti la seduzione del silenzio e sai che quel silenzio contiene la pienezza di ciò che non si può scrivere. Non si può vivere. Il vaso irraggiungibile e la sete, la sete, la sete.

Tu lavori con le immagini, io con le parole ma, in fondo, non è molto diverso perché quello che cerchiamo non sta né nelle parole né nelle immagini, ma dall’altra parte, dietro le immagini, dietro le parole. Ciò che viene prima. Mi parli della nostalgia che ogni tanto ti assale, di quel dolore per qualcosa che non sai. Come se ti mancasse qualcuno, dici, qualcuno che non conosci. Ecco cosa intendo per “prima”.

Il nostro libro appartiene al mondo dell’istinto più che a quello della ragione. Prima di vedere i tuoi disegni, non sapevo di cosa parlasse veramente. La tua capacità di danzare con il silenzio mi colpisce come un dolore. Conosco la tristezza che t’invade quando guardi delle vecchie fotografie. È una questione tattile.

Nel libro, il narratore parla del bambino che fu, da un punto lontano nel tempo e nello spazio, e trova un punto d’incontro nella figura della madre. Tu mi hai mostrato che questa madre è “il corpo dell’amore”, che questa donna sotto la neve del Senegal, questa figura solitaria che canta con le lacrime agli occhi, è il libro. Il suo sguardo, la sua voce annunciano i frutti, la vita, la pienezza, la luce, il verde, la primavera nascosta sotto la neve. Il suo canto è una preghiera, un atto, che attraversa tutto, il manto di neve e le stagioni, e riesce ad accendere la luce d’agosto e a svelarne la bellezza. Il suo canto attraversa gli anni e raggiunge suo figlio, il corpo adulto di suo figlio che, nel ricordare, trema.

Nessun altro come te avrebbe letto il testo trasformando il Senegal in un territorio che trascende lo spazio e il tempo. Per questo ho detto “prima”. C’è qualcosa in te, nella tua percezione del mondo, che credo di aver sognato fin dall’inizio, senza esserne consapevole. Come se tu mi ricordassi quei paesaggi che sognavo da bambino e che pensavo di aver dimenticato. Come se tu mi accompagnassi da molto tempo, da moltissimo tempo, a ricordarmi che non sono solo.

Non so spiegarlo. È una questione tattile.

Per questo amore,

amore.

Artur

P.S. Scrivimi. Mandami fiori dal tuo paese. Scrivimi sempre.

Pagine tratte da Senegal (di Artur Scriabin e Joanna Concejo, Topipittori 2022).