Ovvero una riflessione sulla scuola in emergenza che si conclude con il canto del gallo
In questi mesi tante sono state le voci che abbiamo colto su blog e social a proposito di scuola e che abbiamo portate qui, per far sì che non vada disperso il valore che, a nostro avviso, hanno. Fra queste c’è, oggi, quella, limpida, di Marta Perego che insegna storia e filosofia in un liceo scientifico milanese. Il suo pensiero, che ci ha espresso in tre magnifici messaggi vocali con sfondo di rumori di vita campestre, ci ha colpito per ampiezza di raggio, articolazione e profondità. La ringraziamo per aver accolto la nostra proposta di riscriverlo per noi e per i nostri lettori. La cosa straordinaria è stata che dopo aver sentito Marta concludere il discorso, con le parole È stato quasi come ci fossimo svegliati, dopo un momento di silenzio, nell'audio è risuonato chiaro e forte il canto di un gallo. Di buon auspicio.
[di Marta Perego]
I pensieri che raccolgo in queste pagine rappresentano un tentativo: quello cioè di provare a ordinare un poco le impressioni che ho progressivamente messo a fuoco nel corso di un anno complesso in merito all’attività di insegnamento a distanza. Queste considerazioni non desiderano rendere conto di una teoria, o di un modello, ma vorrebbero assumere i toni più umili della testimonianza. Parlare di testimonianza significa sempre avere a che fare con un’esperienza peculiare e connessa a tipicità che se, da un lato, ha il pregio di rendere la narrazione ricca e coinvolgente, dall’altro può indebolirne la generalizzabilità. La didattica on line, concepita in un senso così capillare e radicale, è stata tuttavia una sperimentazione emergenziale nuova per la scuola e sono dell’idea che, in questo momento, l’esemplificazione sia ancora l’unica strada sensata per provare a svolgere riflessioni a riguardo. Alcuni aspetti, quindi, presenteranno come irrimediabilmente “mia” l’esperienza che vorrei raccontare (con i suoi limiti, con i suoi punti di forza) e, per evitare confusioni, potrei esplicitarli così: lavoro con ragazzi grandi (terza, quarta e quinta liceo scientifico), ho insegnato sino a ora prevalentemente in Università, mi occupo di filosofia e di storia (ovvero materie che si prestano alla costruzione dialogica del contesto di apprendimento) e sono relativamente giovane (non mi sento perciò vincolata a forti schemi didattici, a strategie d’insegnamento pregresse o radicate). Non credo che queste note mi rendano -né mi abbiano resa- un’insegnante migliore di altri, ma, forse, mi hanno concesso, per quelle tipicità peculiari che richiamavo, di sostare in una condizione di vantaggio e accogliere così la didattica on line (dad) con un certo spirito di adattamento.
La mia disposizione - per natura costruttiva - non mi ha, però, impedito di rilevare subito alcune difficoltà oggettive: la dad mi è infatti apparsa, di per sé, una modalità di interazione particolarmente critica in cui la relazione con gli studenti tendeva naturalmente ad appiattirsi, a piegarsi su sé stessa aprendo ai ragazzi luoghi di finta presenza e di disuguaglianza, ai docenti importanti perplessità sui processi specifici di insegnamento efficace, sulla valutazione, insieme a spazi ampi di grande frustrazione. Per sfuggire alle sue trappole, ho potuto stimare da subito necessarie ore aggiuntive di progettazione rispetto al normale corso del mio lavoro. Per queste (e altre) ragioni, le considerazioni che svolgerò non avranno lo scopo di legittimare, o giustificare, una soluzione didattica - quella dell’insegnamento a distanza, appunto - che mi sembra sostanzialmente inadeguata, incapace di raccogliere ed elaborare in modo efficace la complessità delle dinamiche di apprendimento e di insegnamento; esse mi si pongono, piuttosto, come spunti di riflessione - in generale - sulla didattica, costruiti a partire da una sfida che è stata difficile e delicata. La dad è stata un’emergenza, un’urgenza con cui noi docenti ci siamo dovuti confrontare e io, di fronte a questa richiesta, ho voluto provare a offrire - a me, ai miei studenti - un’occasione. Mi è sembrato necessario accogliere e costruire questa opportunità a partire da una domanda: cosa significa insegnare? Vale a dire: qual è il nucleo pulsante di questo compito e come trasformarlo per renderlo operativo entro nuove condizioni di possibilità?
Si è trattato di una domanda importante che ha messo in ombra altre e più temibili ipotesi possibili: l’eventualità, ad esempio, che la dad non volesse prevalentemente rispondere a un’emergenza, ma fosse una sorta di indicazione pericolosa rispetto al futuro della scuola italiana, un ulteriore indizio della sua progressiva distruzione e destrutturazione. L’urgenza delle questioni che ho richiamato, il modo che ho solitamente di stare nelle cose, mi ha spinta a scavalcare l’ipotesi del complotto, dei disegni volti a delegittimare e togliere dignità a insegnanti e studenti, per utilizzare le mie energie in una diversa direzione. Questo atteggiamento non ha inteso svilire eventualità gravi e, mi rendo conto, non così remote: ho tuttavia scelto di mettere a disposizione le mie energie per provare a realizzare contesti di lavoro funzionanti e funzionali, cosa che non sarei stata in capace di ideare con la stessa determinazione pensandomi e percependomi vittima di un’ingiustizia.
Ho cercato così di creare all’interno della modalità didattica d’emergenza, uno spazio critico che non ha inteso valorizzare e difendere l’insegnamento a distanza, ma ha provato a ricercare, entro i suoi limiti e le sue criticità, luoghi di libertà e di pensiero per i miei studenti (per poi rilevarne insieme punti di forza e resistenze: abbiamo osservato con sguardo critico il contesto didattico che ci siamo trovati ad abitare insieme). Si è trattato di un processo di adattamento strutturato nel tempo in modo continuo su cui mi sono affacciata senza una ricetta, o una soluzione chiara, ma soltanto con un atteggiamento, un’intenzione: creare un’occasione di crescita in questo anno difficile. Dopo alcuni incontri, durante i quali mi sono accorta dell’angoscia, della paura, delle difficoltà implicate dal nuovo ambiente relazionale, ho pensato a questo sistema: accanto a lezioni di contenuto, ho individuato spazi nei pomeriggi (dunque, fuori orario; li ho chiamati "aperitivi filosofici e storici") in cui invitare i ragazzi a costruire connessioni tra gli argomenti di storia e di filosofia affrontati insieme e la contemporaneità. Ho pensato insomma ad un luogo di dialogo in cui provare ad usare la storia e la filosofia come strumenti di comprensione attiva. Naturalmente, è stato necessario impostare le lezioni in modo adeguato e funzionale all'organizzazione per gli studenti di questi interventi, cosa che – complessivamente - ha comportato un aumento per me considerevole del carico e delle ore di lavoro. Si tratta, in generale, di una strategia con cui normalmente integro il lavoro didattico che svolgo nelle mie classi ma ha, in presenza - per ragioni organizzative -, un ruolo senz'altro marginale. In questa circostanza, mi sono sentita di ripensare il mio stare in classe per mettere capo a strumenti razionali di lettura del reale a partire dall'insegnamento delle mie discipline che consentissero ai ragazzi di tenere un poco più sotto controllo i loro interrogativi, le loro incertezze sul futuro, le loro ansie e, insieme, rendessero più efficaci i miei interventi e la mia funzione. Faccio un esempio: ho presentato il pensiero di Giambattista Vico in relazione a un concetto formulato indirettamente dal filosofo e sviluppato poi da Wundt e dalla psicologia ottocentesca: l’”eterogenesi dei fini”. L’esperienza del coronavirus, la sua analisi complessiva, può rientrare a pieno titolo all’interno della logica dell’eterogenesi dei fini. Questa presentazione è stata poi affiancata da una parte più sostanziale, gli interventi degli studenti, in cui la discussione intorno al concetto proposto da Vico e alla sua logica di significato, ha incontrato declinazioni ed espansioni nel reale attraverso esempi, riflessioni, considerazioni. Ho chiarito che le ricerche non sarebbero state valutate attraverso voti disciplinari, ma sarebbero confluite nella valutazione inerente alle competenze trasversali (partecipazione, relazione con compagni e docente, attivazione, dialogicità, rispetto, responsabilità etc.) sia per i relatori che avessero deciso liberamente di impostare il problema per la classe, sia per chi, tra gli uditori, avesse voluto intervenire e partecipare attivamente alla costruzione della questione. Questa soluzione ha mitigato l’ansia di prestazione spingendo gli studenti a impostare il lavoro, più che in funzione di un giudizio, in funzione della propria curiosità: gli studenti hanno partecipato proponendo percorsi interessanti, pertinenti, entusiasti. In tal senso, mi sembra, la didattica on line ha aperto spazi inediti di confronto e di costruzione che hanno visto una partecipazione numerosissima ed emozionata, anche da parte di chi di solito tende a sfuggire. La didattica a distanza, per i miei ragazzi grandi, ha avuto il pregio di chiamare a un'attivazione autonoma dei loro processi di riflessione e di pensiero, solitamente davvero troppo accompagnati, tutelati, indirizzati nella didattica in presenza dei docenti e dalla logica - a mio parere molto discutibile -, oggi, dell'insegnamento (che sembra talvolta volere rendere le competenze oggetto di un insegnamento dedicato a scapito delle discipline, anziché attivare queste competenze proprio attraverso una valorizzazione delle discipline stesse). La strategia insomma ha cercato di centrare la mia azione didattica sullo sviluppo della relazione (con i miei studenti, con nodi concettuali chiave nella comprensione del reale) a partire dalle discipline che insegno. Ciò quindi non significa che la dad abbia nel mio caso comportato l’eliminazione o il ridimensionamento dei programmi di storia e di filosofia per farsi invece carico delle condizioni esistenziali degli studenti: le discipline sono state piuttosto rese protagoniste di un’azione didattica in modo funzionale a una comprensione degli accadimenti, offrendone proposte di ordinamento e comprensione utili anche ad affrontarne sensatamente la problematicità. Questa direzione di lavoro ha avuto, credo, un suo senso nella misura in cui, oltre a offrire criteri di chiarezza spingendo gli studenti ad affidarsi alla logica razionale del “provare a capire”, ha aperto le discipline a un interesse e a una valorizzazione davvero inediti.
Il progetto è decollato - dopo le prime fasi di studio e adattamento - nel momento in cui abbiamo imparato a muoverci come un “organismo”, un piccolo “ecosistema”, entro cui è stato importante per me occupare una posizione secondaria: mi sono limitata a impostare cornici teoriche per la contestualizzazione di nuclei problematici, mentre prevalentemente attivi e protagonisti sono divenuti gli studenti. Si è trattato naturalmente di un protagonismo condotto, non sregolato, che mi ha portata a esercitare una certa forma coerente, consapevole e controllata d’improvvisazione (il pericolo di uscire dai concetti oggetto di riflessione e scivolare nel caos delle opinioni, c’era e doveva essere tenuto ben sotto controllo): col tempo i ragazzi si sono adattati e hanno capito molto bene le regole silenziose di questo gioco, facendolo funzionare meravigliosamente.
Questa proposta ha offerto risultati molto interessanti soprattutto in alcune contesti, quelli cioè cresciuti sulla presenza di una forte relazione di fiducia tra me e i miei studenti. Ambienti di lavoro in presenza molto ricettivi ma prevalentemente silenziosi ed in ascolto, si sono trasformati mettendo capo a condizioni che hanno facilitato l’espressione dei punti di vista: questa forma di coraggio si è autoalimentata a partire dalle dinamiche di relazione contaminando l’ecosistema in cui tutti noi ci siamo trovati come destati da una condizione di intorpidimento. Lorenzo, dopo la fine della scuola, mi ha scritto:
La proposta di didattica che ci ha offerto è una cosa in cui noi abbiamo creduto davvero. È stata un’esperienza molto utile perché “non è finita lì”: serve per il futuro e se le cose fossero andare altrimenti, probabilmente, oggi non saremmo le stesse persone. È una cosa bellissima, anche questo partecipa al nostro essere individui e la scuola ha bisogno di azioni simili: permettono di vedere in altro modo lo studio, la relazione con l’insegnante in cui avviene davvero qualcosa quando si fa luce su modi di vita. Ti rendi conto quanto sia importante: questa è la fase in cui stiamo crescendo, ci formiamo. Ci siamo trovati ad avere quello spontaneo interesse che è importante perché determina una qualità della partecipazione. È stato per me fondamentale stare in un gruppo creativo (Lorenzo Fonti, IV B)
Vi è un aspetto che emerge dalla mia esperienza su cui vorrei insistere un poco perché mi pare interessante: la dad ha relegato l’insegnante dietro le quinte, ma si è trattato di un sostare intelligente in cui la funzione direttiva è rimasta centrale. Per questa via, ho vissuto una dimensione inedita, direi integralmente “socratica” dello stare insieme a scuola in cui, tuttavia, l’opinione dell’altro non è stata condotta semplicemente da una suggestione personale, ma ha potuto essere direzionata dagli strumenti creati insieme per pensare. Vi è contenuta in nuce a tutto ciò, io credo, una bella suggestione offerta mediatamente agli studenti riguardo cosa significa essere competenti, cosa significa posizionarsi nei problemi una volta creata alle spalle una solida consapevolezza delle questioni in gioco. Irene, tra le sue righe, rende conto di cosa ha significato per la sua classe lavorare attraverso il διάλογος :
In questo periodo difficile e particolare delle nostre vite ci ha permesso di allargare i nostri orizzonti pur restando chiusi in casa, semplicemente con il dialogo. Credo che spesso per i professori, ma anche per gli studenti, sia più semplice restare nella propria zona di comfort piuttosto che cercare di capire l’altro, cosa che in primis mi risulta spesso difficile. In questi anni da studente ho notato come l’impostazione stessa del metodo d’apprendimento abbia portato spesso alla sottovalutazione del dialogo, non inteso come semplice interesse per l’altro, ma come metodo d’insegnamento. Per certi versi, in questi tre mesi, lei è riuscita ad insegnarci più cose di quanto sia riuscita a capire in tutta la mia carriera scolastica, e ovviamente non mi sto riferendo ai contenuti nozionistici delle lezioni. Volevo quindi ringraziarla perché ha creduto in noi e nelle nostre potenzialità, portandoci ad aprirci verso di lei, non sentendoci giudicati, cosa che purtroppo a volte accade con i professori, ma accolti. Spero che questo dialogo non si perda, ma che possa continuare anche in classe, e mi auguro che anche altri professori riescano ad instaurare questo rapporto con i propri studenti. (Irene Martinelli, IV B)
Emerge un’altra considerazione che sento di volere mettere a fuoco: questa esperienza è stata emotivamente molto intensa per tutti noi e il motivo credo sia importante. Lo mette a fuoco bene questa studentessa quando mi scrive:
Ha cambiato molto la sua presenza negli equilibri della nostra classe: il suo interesse nelle materie che insegna ha fatto la differenza ed anche la sensibilità con cui ci guarda, il modo limpido in cui ci parla. Finalmente sembra di avere dall’altra parte una persona. Qualcosa è cambiato anche con la quarantena: il suo modo di fare lezione senza valutarci nell’ultimo periodo, questo rapporto che siamo riusciti ad instaurare insieme grazie ad un’idea di didattica, ha scardinato qualche cosa nella mia sfera personale: ho sempre trovato molta fatica a parlare con i professori, preferisco non farlo perché è un rapporto che trovo viziato. I ruoli ci sono e sono imprescindibili ma ci vuole dell’umanità in questi rapporti e proprio questa dimensione è emersa nella didattica a distanza che siamo riusciti a costruire insieme.
Il concetto di “umanità” richiamato in queste righe si intreccia profondamente con la dimensione dialogica richiamata poco sopra, acquisendo centralità nell’articolazione e nella buona riuscita della proposta e insistendo sulla funzione e il significato autenticamente “umanista” e formativo della mia esperienza. Essa, nonostante la distanza, ha saputo legare insieme ruoli differenti e persone molto diverse tra loro in una dimensione dialogica e collaborativa in cui sento risuonare, ad esempio, lo spirito che percorre i dibattiti protagonisti dei salotti parigini settecenteschi, il progetto dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert: una certa forma di “urbanità”.
La pervasività assunta da questo concetto nel progetto ha avuto inoltre il merito di indicarmi ragioni a favore di una convinzione a cui ho già brevemente accennato e che mi sta molto a cuore. Questa tesi nasce in contrasto con una tendenza che mostra invece un certo successo nell’evoluzione della scuola pubblica italiana secondo la quale le competenze, in generale, sarebbero oggetto possibile di insegnamento attraverso simulazioni esperienziali pratiche. Questa disposizione, specialmente per ciò che concerne la scuola secondaria di secondo grado, rischia di minare alle sue basi quel senso “classico” e “umanista” della cultura che mi pare invece fondamentale nel processo educativo, a vantaggio di un’immagine funzionale della formazione superiore il cui scopo sarebbe, in ultima analisi, insegnare finalmente a vivere. L’invasività di tale atteggiamento, teso verso modelli anglosassoni del sapere, si percepisce su più livelli nelle proposte educative esibite dai PTOF (Piano triennale dell’offerta formativa). In modo quasi paradossale, mi sembra che l’esperienza dell’insegnamento a distanza abbia portato argomenti a suo sfavore mostrando la potenzialità propriamente formativa (in tal senso, umanista) delle discipline: partecipazione, relazione, giustizia, responsabilità, sono concetti (competenze) che in modo proprio ricompongono negli studenti il loro senso poliedrico attraverso riflessioni volte a problematizzarne la ricchezza di significato; esse si presentano tanto più dense di senso ed efficaci quanto più noi docenti riusciamo a rendere i ragazzi autonomi nella loro articolazione. È - questa la mia tesi - il modo in cui decliniamo creativamente la disciplina in classe a sapere e potere attivare, grazie al tempo lento della riflessione e in modo evidentemente mediato, una vera e propria educazione alle competenze, e non la simulazione più o meno artefatta di una loro esibizione diretta, presentata come pregna di vita reale. L’ipotesi di un ripensamento d’uso per le discipline (in senso strumentale per la comprensione del reale, ma senza per ciò abbandonarne rigore e specificità) mostra di potere condurre a una maturazione “urbana” e “civica" lo studente, senza che egli debba con ciò essere condotto al di fuori dalla logica educativa della scuola - come a volte accade nei percorsi di Alternanza o PCTO. Attraverso il pensiero e la riflessione, in una sua accezione evidentemente libera e, insieme, condotta ed educata, lo studente - mi sembra - viene posto autenticamente nelle condizioni per approssimarsi al concetto di “competenza" in modo profondo e critico e a partire da cui, credo, si possa cogliere la tridimensionalità concettuale e umanistica del nostro Lebenswelt (uso qui un’espressione husserliana che potrebbe essere tradotta con “mondo della vita”).
Per queste ragioni, la dad - con tutti i suoi limiti e le sue criticità - ha rappresentato per me un’occasione di riflessione sull’insegnamento, sulle potenzialità e sulle complessità del lavoro educativo in cui le discipline sono divenute opportunità di pensiero da integrare all’interno di uno sforzo innovativo e creativo; questo sforzo chiede a ognuno di noi, innanzitutto, di rimanere “tra” le persone pur senza abdicare ai propri ruoli, mettendo così capo a una relazione viva (la sua “umanità”, per usare le parole belle della mia studentessa). L’approccio descritto, non tradisce il concetto ma lo rende “ecologico”, mobile e dinamico: lo trasforma in uno strumento attivo di cittadinanza. Si tratta, come mi scrive uno studente, di un cambiamento, di una “rivoluzione” nel nostro stare a scuola (in presenza, a distanza), di una buona eterogenesi dei fini, in questi tempi difficili:
Le scrivo questo messaggio per ringraziarla di quest’anno. Lei è riuscita a portare una rivoluzione nella nostra classe […]. È riuscita per la prima volta in quattro anni di liceo a cambiare la scuola.