Nel settembre 2010, adAnghiari, siamo stati invitati dal professor DuccioDemetrio alla LiberaUniversità dell’Autobiografia, a presentare Glianni in tasca, la nostra collana diautobiografie di infanzia e adolescenza. Insieme a noi c'era LuisaMattia, non per parlare di Wla libbertà, l'autobiografia cheha pubblicato con noi, ma per presentare il libro Sonocontento che sono un bambino, edito da Rizzoli nel2009, frutto di un anno di lavoro sulla scrittura autobiografica e i diaridei bambini della scuola elementare Parco di Veio di Roma.
Lapresentazione è stata coinvolgente, esilarante, interessantissima: chiconosce Luisa sa bene con quanta sapienza sia in grado di coinvolgerel'uditorio, che si tratti di ragazzi, bambini o adulti. Nel marzodel 2011, Luisa sarà ospite di nuovo della LUA, dal 18 al 20 marzo,per tenere un seminario sull'autobiografia dei bambini, dal titolo Etu chi sei? Perché e come condividere con i bambini l’esperienza di undiario, che si rivolge a tutti coloro che si occupanodi educazione: insegnanti, bibliotecari, educatori. Il punto di vistadi Luisa su scuola, bambini, scrittura, diari, ci interessa molto. Perquesto le abbiamo chiesto di rispondere a qualche domanda. L'intervistaè un po' lunga, ma le sue risposte sono da non perdere e poi c'ètutto il fine settimana per leggerle.
InSono contento che sono un bambino, nell'introduzione,affermi che alla scuola “non si richiede il coraggio di conoscerei bambini”. Cosa intendi con questo? E cosa significa conoscereun bambino?
I bambini sono personemolto interessanti. Sono complessi, lievi e profondi al tempo stesso,seguono vie originali di comunicazione con se stessi e con il mondo,“affabulano” la vita, sono tendenzialmente anarchici. La scuola,che pure li accoglie, ha una funzione predefinita di regolarizzazionee normalizzazione. La scuola organizza prima di conoscere, stabiliscestandard di apprendimento e di modalità di conoscenza predefinite sullabase di strutture di apprendimento. Un bambino o una bambina che vannoa scuola hanno il compito di entrare in questa “scenografia”, inun ambiente di apprendimento che è pre-disposto e, conseguentemente,ben poco… disposto a sopportarne la creatività e le pulsioni apraticare una conoscenza “disobbediente”. In sintesi, faccio mioun concetto di Fernando Savater, filosofo spagnolo, che definiscela scuola come il luogo in cui si fanno domande sapendo già lerisposte. La scuola cerca ciò che sa già. I bambini cercano, sifanno domande, vanno alla ricerca di risposte non sempre prevedibiliné previste. In questo senso, ogni bambino è incompatibile con lascolarizzazione e resta, per la scuola, uno sconosciuto. Conoscere unbambino è mettersi in gioco come persone, entrare in una dinamicache non valuta, non ha obblighi di insegnamento ma dà prioritàall’incontro, alla conoscenza, alla libertà di espressione e,soprattutto, alla ricerca di un “alfabeto affettivo e comunicativo”che non può darsi a priori ma deve essere composto e riconosciutovicendevolmente, nell’ambito di una dinamica educativa contraddistintadalla reciprocità. In poche parole: si può entrare in contatto conun bambino se non si pretende di insegnargli qualcosa, ma, piuttosto,di imparare insieme il “chi siamo”.
Nel libroparli anche di “emozione del conoscere” relativamente all'uso deldiario nel lavoro
scolastico. L'idea di autobiografia spessofa pensare a una dimensione privata, egocentrica. Invece tu sembricollegare scoperta di sé e scoperta del mondo. È la parola scritta chepuò operare questo miracolo?
I bambinicon i quali ho lavorato, di fronte alla proposta di scrivere un diariosono rimasti perplessi. La cautela che hanno espresso si riferiva agliadulti. Sì, proprio quelli che mettono il becco su tutto e di tuttovogliono sapere. L’esperienza che i bambini avevano della scuola nongarantiva né discrezione né libertà espressiva. E nemmeno quel minimodi spazio ambientale che potesse garantire un po’ di quiete, di rapportocon se stessi. Abbiamo lavorato – uso il plurale perché è stato unimpegno mio e del gruppo dei docenti – per garantire questi elementibasici, dunque: discrezione, libertà espressiva, silenzio. L’obiettivoera – e resta – importante: costruire una complicità con se stessie con il resto della comunità con la quale si vive. E lo “spazio” èstato il quaderno-diario, un perimetro di carta, una successione di foglisui quali – in tempi che avevamo concordato e ci eravamo impegnati arispettare (tutti, adulti e bambini) – si scriveva. C’è stato chi hasubito scritto di sé e chi ha cominciato a raccontarsi attraverso storieinventate, piene di pappagalli parlanti e bambini che si appollaiavanosugli alberi (Calvino le avrebbe trovate…“rampanti”!). Ognuno siteneva per sé le sue pagine. Se voleva. Perché se no, se ne potevaleggere qualche riga oppure – inevitabilmente – si parlavadei diari e dello stupore – per bambini e adulti – del “tantoda scrivere” che veniva fuori. La parola scritta è doppiamenteforte, perché è capace di silenzio ma è anche in grado di fare moltorumore, sia interiormente che quando viene letta alla collettività. Laparola scritta si svela e ti svela. Molti bambini si sono stupitidi quel che avevano scritto e di come lo avevano scritto. Hannoscoperto che il pensiero che si fa parola si rivela con naturaleforza. Ed è bello lasciarlo andare.
In che modol'adulto può avviare un bambino a parlare, e a scrivere, di sé senzaorientare, anche inconsapevolmente, le scelte, le forme e i contenutidel suo lavoro? Detto in altro modo: in che modo un adulto può essereun interlocutore credibile per un bambino nel processo di scoperta disé?
Questa è una vera e propriazona a rischio. Quando avviai l’esperienza dei “diari” ci fuun’insegnante che rinunciò a partecipare “perché – mi disse -so che non resisterei alla necessità di leggere e, soprattutto, dicorreggere i diari dei bambini. Non sono adatta a questo progetto.”Trovai quella decisione rivelatrice di un “vizio” scolastico maanche – e quanto forte! – di una consapevolezza educativa notevole;di una onestà professionale e intellettuale che era – ed è stata –un nuovo punto di partenza per stabilire un rapporto educativo fortecon i bambini e i ragazzi. Un adulto che non sia un impiccione né unirridente “correttore” è l’adulto perfetto per un’esperienzacome quella dei diari. Però, l’adulto perfetto non esiste. Cisono molti educatori imperfetti che posso e debbono pretendereda se stessi una presenza creativa, allegra, non inquisitoria némoralizzatrice. Ogni osservazione/rivelazione di un bambino che scriveil suo diario (e ne parla) è un’occasione di conoscenza, di libertàdi incontro. Un modo per rovesciare il rapporto istituzionale e trasformarlo da scuola che fa domande di cui sa in anticipo lerisposte, a scuola (o famiglia) che cerca risposte e accetta diessere “interrogata” dai bambini.
Gliadulti, per ragioni anagrafiche, non attribuiscono molto pesoalla memoria dei bambini né al loro desiderio, al loro diritto dipossedere una propria storia. Quanto invece per i bambini questesono importanti?
I bambini hanno unamemoria di sé che gareggia in eternità con il big bang e i raccontibiblici. Ogni momento della loro vita è stato una “Prima volta”,ogni esperienza una sorpresa, ogni apprendimento una scoperta. Hannomoltissimo da raccontare perché la vita vissuta è fatta di uninterminabile piano-sequenza ricco di dettagli, di “minimalia” cheinvece per un adulto sono un “già vissuto”. I bambini parlano delloro passato al presente: vedo, sento, tocco, capisco, domando, scopro. Unadulto usa spesso un “futuro sapienziale”: vedrai, ti renderai conto,capirai… Considera i bambini “in transito”. La memoria dei bambiniè fatta di narrazione di sé attraverso le cose, le azioni, i saporie gli odori, gli incontri. Si compone come un flusso ininterrottodi eventi e spesso viene raccontata così. Gli adulti ascoltano e,altrettanto spesso, sentenziano: “Non si capisce niente. Confonditutto”. Invece, siamo noi che confondiamo perché ci aspettiamo unracconto lineare e consequenziale che non è quasi mai prerogativa deibambini. Anche in questa occasione, un adulto sbaglia perché pretendedi usare, nella comunicazione, solo il suo alfabeto formalizzato, le suestrutture linguistiche e concettuali codificate, evitando di prenderein considerazione altre modalità. L’incontro tra adulti e bambini èspesso un confronto tra due culture che raramente porta a un equilibrio“interculturale”.
Sulla base dellatua esperienza perché per un bambino è significativa la scrittura diun diario?
Qui la faccio breve: perchéè lui/lei, la sua memoria, il suo pensiero e la scoperta che sentimentied emozioni possono avere la dignità delle “cose” – peso, forma,funzione, estetica – grazie alle parole che li definiscono.
Cherapporto hanno i bambini con la scrittura?
Dipende dalla scrittura che non è mai una sola. Il rapporto con lanarrazione – sia di se stessi che di storie – può essere esaltante omortificante. E qui sono costretta a ripetermi: scrivere è un atto di persé liberatorio, potenzialmente sovversivo. Per assumere questa forza,questa energia dirompente, ha bisogno di assimilare regole espressivee ortografiche condivise. Una volta assimilate e usate queste regole,può – e azzarderei a dire che deve – trasgredirle. La scrittura habisogno, dunque , di spazi di libertà che la volontà di scolarizzazionemette in discussione. Se si racconta - di sé o di altro – in funzionedi una valutazione e di un apprendimento riconosciuto (e questo avvienea scuola), la scrittura corre seri rischi di essere mortificata e didiventare modesta, conformista, sciapa. Al contrario, una scritturaliberata dalla valutazione e dalla codificazione dell’apprendimento,una scrittura che narra , può essere un’occasione di gioia edi rivelazione di sé; può diventare un’allegra necessità,una forma di incontro e di dinamica con il mondo.
Grazie, Luisa.
[Le immagini che corredano questo postsono tratte da: Jutta Gadamer, Pitz, Patz, Putz undnoch mehr Bären, Verlag Heinrich Ellermann (1953)]