Quando il vento soffia, c'è questo in te

[di Silvia Vecchini]

C’è questo in me è il libro che ho scritto per la collana Gli anni in tasca (Topipittori). A sorpresa, nel luglio scorso, una libraia ne salutò l’uscita con queste parole: «[...] mi ha aiutato parecchio nella definizione di un pensiero che da un po' mi ronza in testa. L'autrice in tutti i suoi racconti cita episodi semplici, ordinari, visti però attraverso i segni che a quanto pare hanno lasciato nella sua infanzia. Capita così che ad assumere importanza siano le scoperte, i timori e le avventure del quotidiano. Ed ecco arrivare allora le lucciole, la bava della lumaca, Gesù bambino, i pulcini e il passamontagna.
 Esperienze dell'ordinario che la sua infanzia ha probabilmente catturato e registrato nel faldone “cose speciali - da ricordare”. Spesso mi interrogo su questo faldone e su come noi adulti tendiamo a fornire alle bambine e ai bambini esperienze straordinarie, memorabili appunto. Affinché possano nutrite un faldone bello ricco. Scordandoci però che l'ordinarietà stessa - per ragioni che ci paiono ignote - assurge molto spesso al grado di straordinario. Silvia Vecchini in questa sua raccolta di racconti autobiografici fa a mio parere una cosa straordinaria: rende giustizia all'ordinarietà del vivere. Trasforma l'ordinario in straordinario e così facendo accompagna noi lettori ad aprire a nostra volta il faldone dei ricordi e a renderci conto che è proprio questo ciò che anche noi abbiamo trattenuto.» [Lucia Cipriani, Farfilò]

Mi colpì molto la sua sottolineatura. La discrepanza tra ciò che pensano di offrire gli adulti e quello che poi ricordano i bambini. In realtà mi sembrava di non aver nient’altro da poter raccontare nella mia biografia se non l’ordinario. La mia infanzia era stata proprio quella. Un’infilata di piccole cose.

Una doppia pagina di C’è questo in me.

Tuttavia quello che diceva Lucia era vero e lo sapevo benissimo per l’esperienza di scrittura in gruppo. Durante i laboratori di scrittura autobiografica dedicati agli adulti, se ci capita di attraversare la misteriosa regione dell’infanzia, accade quasi sempre che si ignorino momenti scelti ed eventi monumentali per piegarsi invece sulle briciole dei giorni. Come se per un attimo si riuscisse ad afferrare qualcosa di quello che ha contato davvero. Non le occasioni apparecchiate per noi dai grandi, non le feste comandate, non i discorsi memorabili, non le scene in cui ogni cosa è al suo posto ma passaggi trascurabili, barlumi di gesti, tenerezze e parole che gli adulti si sono scordati di averci detto, oppure durezze o andature incerte che però perdonavamo o accoglievamo come un giorno di pioggia invece del sole.

Molto spesso poi, in questi racconti gli adulti nemmeno ci sono. E c’è spazio invece per gli oggetti, la natura, le piante, gli animali. Presenze fortissime e al tempo stesso discrete con le quali i bambini comunicano in modo che agli adulti è segreto. Nei laboratori leggo sempre uno straordinario passaggio della scrittrice Janet Frame sul vento contenuto nell’autobiografia Un angelo alla mia tavola. Un frammento che per me è fortissimo perché sono certa che qualcosa del genere succeda a ogni bambino. E accade in un giorno qualunque, al riparo di qualsiasi osservazione.

«Ricordo una giornata grigia in cui stavo in piedi presso il cancello e ascoltavo il vento nei fili del telegrafo. Per la prima volta ebbi la consapevolezza di una tristezza esterna a me, o che sembrava venire dall’esterno, dalla voce del vento che gemeva tra i fili. Guardavo su e giù per la lunga strada polverosa e non vedevo nessuno. Il vento soffiava di nuovo sopra di noi, io stavo lì nel mezzo ad ascoltare. Mi sentivo oppressa da una solitudine e da una tristezza come se fosse accaduto o incominciato qualcosa e io l’avessi intuito. Fino a quel momento, credo di non aver mai pensato a me stessa come a qualcuno che guardasse il mondo; io ero il mondo.»

In questi ultimi due anni ho avuto molte e belle occasioni di scrivere con gli adulti e di scrivere d’infanzia. Alla fine abbiamo sempre una foto di gruppo alle nostre parole e alle nostre fotografie. È un modo per soffermarsi ancora un attimo, guardare da fuori, guardarsi insieme ad altri, alla stessa altezza e spesso dentro la stessa solitudine.

Ca’ Colmello, Sassoleone (BO).

Libreria Spazio B**K, Milano.

Corte dei bambini + libreria Farfilò, Verona.

La conferma dei miei pensieri intrecciati a quelli di Lucia Cipriani arrivò qualche giorno dopo. Un’amica, brava illustratrice e curiosa del mondo dei bambini, Mirella Mariani, mi mandò un lungo messaggio. Subito dopo aver letto C’è questo in me, aveva preso alcuni dei titoli dei miei minuscoli racconti e si era messa di getto a scrivere i propri. Scelse di scrivere al presente come me e ne venne fuori un incredibile incontro a tu per tu.

Ecco un estratto del suo lavoro gemello e la fotografia che mi inviò Mirella in quella occasione.

IL PENTOLINO

Sono a casa da scuola, ho la febbre, non posso uscire né andare a pranzo da mia nonna, come faccio di solito. È la nonna, allora, a venire a casa mia. Mi porta il mio piatto preferito, i tortellini alla panna, dentro un pentolino; li rovescia in un piatto e li riscalda nel microonde. La panna si rapprende un po'. Per me così sono ancora più buoni.

UNA CARAMELLA

Ci sono quelle caramelle cilindriche contenute in un fischietto di plastica.

Un giorno, con mia madre e mia zia sarta, andiamo a trovare una collega di mia zia, che ha una figlia poco più grande di me. Mia zia deve prendere il modello del suo abito da Prima Comunione per farmene uno simile. Nella sua cameretta la bambina ha tantissimi giochi e cianfrusaglie, che mia madre non mi permetterebbe mai di tenere; forse provo una punta di invidia.  Fra le tante cose, ha conservato molti di quei fischietti di plastica, tutti colorati, dopo averne mangiato le caramelle. Penso che in fondo non ci sia nulla di male se mi infilo in tasca uno di quei fischietti: ne ha così tanti e non si tratta certo di una cosa di gran valore di cui sentirà la mancanza. Non so perché piuttosto non le chiedo di regalarmene uno, probabilmente mi vergogno; non so nemmeno davvero perché io ne voglia uno.

Quello che invece ricordo benissimo è la severa ramanzina di mia madre quando si accorge del furto.

LE FIABE

Io e la mia amica Elisa abbiamo le fiabe sonore: Pinocchio, Il pesciolino d’oro, La piccola guardiana d’oche. D’inverno, quando non si può uscire in giardino, giochiamo a spaventarci con la fiaba di Barbablù. Ascoltiamo il disco con la luce spenta: quando Barbablù scopre la chiave insanguinata, tratteniamo il fiato e tremiamo. 

LE LUCCIOLE

In giardino d’estate ci sono le lucciole. Nel buio, piccoli puntini di luce volano fra l’erba. Sembra una magia. Mio padre ne chiude una nel pugno, apre la mano e mi mostra la piccola luce che pulsa. In fretta la lasciamo volare via. 

LA TELEVISIONE

Il pomeriggio dopo scuola, da mia nonna, io e mio fratello guardiamo Bim Bum Bam. Uno dei mie cartoni preferiti è Georgie. Vive in una fattoria in Australia circondata da animali e ha due fratelli più grandi. In realtà non sono i suoi veri fratelli, perché Georgie è stata adottata, ma lei lo scoprirà solo da adolescente. Un giorno chiedo a mia madre se anche io sono stata adottata. Mi dice di no e come prova mi mostra una sua foto con il pancione, mentre tiene per mano mio fratello di due anni. Mi sembra sufficiente per crederle.

 

Desiderando continuare questo gioco senza attingere agli elaborati dei corsi di scrittura perché scritti senza l’intenzione di renderli pubblici, pensai di chiedere in un post ai lettori di C’è questo in me se ci fosse qualcuno che voleva inviarmi una sua immagine da bambino e scrivere di getto un breve ricordo.

Sono arrivate numerose risposte. Quanti bambini e quanto simili alle persone che conosco ora, da grandi. E le loro parole sembrano avvicinarsi a piccoli passi verso una presenza cercando di non spaventarla. Come si guarda un uccello che è venuto a posarsi sul davanzale.

Quando ho scritto C’è questo in me ho trovato tante cose, il principio forse della mia scrittura e una presenza dentro quel principio. Qualcosa che somiglia a ciò che raccontava Nella Nobili in due brevi poesie contenute nel libro Ho camminato nel mondo con l’anima aperta curato da Maria Grazia Calandrone.

Quell’altra me teneramente avvinghiata


Che a volte frena i miei passi e mi tiene per mano


E mi spinge verso di me fuori di me davanti ai sentieri


Della vita fino all’inizio


…


Fedelmente lei e io insieme


L’altra che sono e che torna


A sé lungo i sentieri dell’infanzia

Quando parlo, leggo, ragiono dell’infanzia, a guidarmi non è mai nostalgia di un tempo passato. Anche quando leggo testi come questo di Forugh Farrokhzad.

O attimo stupendo dell’inizio,

o età di sette anni!

Dopo di te,

la finestra, quel legame,

così vivo e lucente,

tra noi e gli uccelli,

tra noi e la brezza,

si è infranto,

infranto,

infranto.

Dopo di te,

da sotto il tavolo, dove si giocava,

siamo passati dietro il tavolo

e da dietro il tavolo,

siamo passati sopra il tavolo

e lì, giocando, abbiamo perso,

perso il tuo colore,

o età di sette anni.

Sento soffiare il vento,

soffiare il vento,

o età di sette anni!

Mi sono alzata, ho bevuto l’acqua

e d’improvviso mi sono ricordata

dei tuoi verdi campi

impauriti dall’assalto delle cavallette.

Non è la nostalgia che mi interessa. È un pensiero sull’infanzia. La certezza che guardare in profondità nell’infanzia ci possa guidare e spingere verso di noi fuori di noi davanti ai sentieri. E se la memoria è un setaccio, allora guardare da vicino quello che abbiamo trattenuto può essere utile da adulti per vedere in modo più autentico i bambini. Quello che resta ha che fare con il vento, con qualcosa che passa, che non si afferra proprio come l’infanzia, con qualcosa che a un certo punto ci ha detto chi siamo staccandoci dagli altri, ritagliando la nostra unicità e gettandoci nel mondo da soli. Facendoci iniziare.

Per questo ringrazio la casa editrice Topipittori che ha pensato alla collana come un piccolo tesoro a servizio dei bambini. Sono loro i lettori ideali della collana. Ma alla fin fine, se questi libri li legge un adulto, i bambini hanno ugualmente tanto da guadagnare. Dopo aver attraversato queste pagine, è probabile che un adulto li guardi diversamente. Sicuramente, più da vicino.

«Per chi sono questi libri? Per tutti. Perché una riflessione sulla verità profonda dell’infanzia e dell’adolescenza, condotta attraverso il racconto di esperienze autentiche, è più che mai necessaria, in tempi di fiction imperversanti, di vista cattiva, di memoria inesistente e di pessima immaginazione contrabbandata per realtà. È necessaria per i bambini e i ragazzi: che qualcuno racconti loro che le loro radici affondano in storie, spazi e tempi di cui non hanno consapevolezza e che pure determinano il corso della loro vita. Ed è necessaria agli adulti che sembrano aver smesso di interrogarsi davvero su questi anni misteriosi della vita, così determinanti. Vuoi per indifferenza, per distrazione, per arroganza, per stupidità, ma soprattutto per paura e per narcisismo, spesso protetti da saperi specialistici che anziché avvicinarli ai bambini, come si dichiara, non fanno che allontanarli.» [Giovanna Zoboli, Buon compleanno Anni in tasca!].

Voglio terminare con una poesia che amo molto, scritta da Daniele Piccini. Parla di un ricordo e riflette sulle vite come semi sparsi. Torna il vento, anche qui.

All’alba, prima di un viaggio

rivedo i pesci venire alla luce

sul lago Trasimeno:

una furia di bocche che affiorano

e tu che ridi, aperto

insieme a mamma.

Una sera di luglio,

forse tre anni fa

o molto tempo prima.

Le nostre vite sono semi al vento,

attecchiscono con scene da niente

sulla roccia del tempo,

le coltiva una mano senza febbre

che ti passa sugli occhi una carezza.

In questa poesia tornano anche le scene da niente. Quanta attenzione occorre mettere nelle scene da niente dell’infanzia. E per di più occorre farlo senza mai sapere quello che i bambini tratterranno. Lo sapremo solo dopo molto tempo, quando quei semi avranno fatto i loro giri nel vento e si saranno infine posati.

Ringrazio tutti quelli che hanno partecipato e metto qui una carrellata di alcune foto e racconti per salutarli. Leggervi è stato come trovarci per un attimo nello stesso cortile mentre il vento soffia e noi stiamo nel mezzo ad ascoltare.

Alessandra (Russomanno)

Giardini di Porta Venezia, il parco milanese dei bambini ai tempi della mia infanzia. Ci andiamo tutti insieme di domenica, dopo pranzo. per rientrare prendiamo la metropolitana, sempre affollata per il ritorno a casa dopo la giornata di festa e, quando non troviamo posto a sedere, papà mi prende in braccio tenendosi ai pali verticali, «gli appositi sostegni ai quali reggersi durante la manovra». Poi, puntualmente, mi chiede di afferrare il palo e di stringere forte, senza lasciare la presa. Quindi stacca la sua mano e a me si gonfia il cuore al pensiero che sto da sola sorreggendo me stessa e mio padre. Afferro il palo con tutta la mia concentrazione e il mio orgoglio, accarezzata dallo sguardo tenero di papà che si complimenta con me per la mia forza. Una bambina che sorregge suo padre. Forte e fiera. Ignara dell'altro braccio di papà stretto al sostegno, dietro la mia schiena. Il rientro a casa in metropolitana la domenica pomeriggio supera in bellezza anche il trenino dei Giardini pubblici.

Alessandra (Baschieri)

Le scarpe gialle che mi vedi ai piedi erano le mie scarpe preferite perché nel salone dell'asilo mi facevano correre fortissimo in cerchio. Questo era possibile perché la suola era di una gomma para che faceva molta aderenza ed era propulsiva! Il ricordo è vivissimo, è un ricordo fisico tanto che ora mentre ti scrivo sento nelle mie gambine il movimento della corsa che facevo nel grande salone. Viva le scarpe gialle!

Matteo (Pelliti)

Le braccia serrate, a braccia conserte si diceva una volta, rivelano tutta la paura e la tensione del momento di questo undicenne - quindi non più bambino e non ancora ragazzino - impegnato e recitare una poesia a memoria in una recita di fine anno della quinta elementare: un incubo.

Il palco molto alto, la pressione della maestra, le lunghe settimane impiegate a mandare a memoria molti versi, l'uditorio numeroso nell'ampio salone, quale effetto potevano avere su un carattere che allora e per molto tempo ancora e, in parte, ancora oggi arrossisce solo nel dover prendere la parola? E che poesia era? Di quale autore? Di che parlava? Niente. Vuoto totale. Un oblio selettivo ha fatto sì che io non ricordi una parola sola di quei versi detti nel corso di quella esibizione, meglio, diciamolo, di quella tortura.

Ilaria (Gradassi)

In un angolo della nostra piccola cucina arancione c’era il fustino del detersivo in polvere. Quando ci mettevo vicino una seggiolina di vimini, si trasformava all’istante in un tavolo, al quale mi accomodavo per incontri salottieri o riunioni di lavoro con amici immaginari.

Una volta, mentre giocavo, sentii mia mamma che parlava al telefono e consigliava a qualcuno, di là dalla cornetta, di iscriversi a Lettere. Un pensiero mi folgorò. Mi immaginai china su una grande scrivania: battevo sui tasti della Olivetti rossa, impegnata a scrivere lunghe lettere.

C’era un posto dove si faceva solo quello? Avevo trovato la mia strada.

Anna (Pisapia)

Dato che era cresciuta in una conigliera posta al buio, Matisse amava nascondersi in posti riparati e scuri. Per questo, quando la liberavo e non la trovavo più, andavo a cercarla sotto la 127 bianca in garage o nell'erba alta del prato. Quando tremava per un rumore, agitava costantemente avanti e indietro le sue lunghe orecchie scure e se la tenevo in braccio sentivo la sua paura sulla mia pelle. Ricordo ancora come fosse ieri gli spari e il suo cuore battere forte: era settembre ed era già iniziata la stagione della caccia. Da allora ho odiato per sempre i cacciatori.

Lo stesso anno, quello dei miei cinque anni, papà prese al mercato di Armeno due anatroccoli: uno giallo, per mio fratello Tomaso, e uno giallo e marrone, per me. Come ogni anatide che si rispetti il grande seguiva mio fratello, il piccolo... il giallo. Che nervoso provavo! Io che avrei desiderato essere come Konrad Lorenz (mio papà ci leggeva L'anello di re Salomone) mi ritrovavo a camminare sempre da sola senza anatroccoli. Ma quando mio fratello spariva io diventavo la regina e potevo girare con la truppa al seguito. Inoltre, mi divertivo a usare gli anatroccoli come una sorta di aspirapolvere. Li tenevo in mano e facevo loro mangiare tutti gli opilionidi, quelle specie di “ragni” dalle lunghe zampe, che colonizzavano il nostro muro grigio. Strane cose si fanno quando si è piccoli. Come lavare lo scoiattolo rosso che mia mamma acquistò anni più tardi al mercato (allora si poteva) mettendo la sua gabbia direttamente sotto la doccia. Appena tornata a casa dovette asciugarlo per bene e lo ridiede subito indietro.

Anna (Forlani)

In estate alle 16 posso uscire da sola, devo rimanere nel quartiere e rientrare alle 19. Mi raccomando. Aspetto ogni giorno davanti alla finestra che dà sulla strada già dalle 15:30. Aspetto che mi diano il via per correre fuori e ritrovarmi con tutti gli altri. Ho otto anni e lo so già che questa si chiama felicità. So che c’è già in quell'attesa. È tutta in quelle giornate fatte apposta per quello, per essere bambini felici. E il primo giorno dopo la fine della scuola, il risveglio mi dà le vertigini. Mi riempio le mani e le tasche di quel tempo fatto tutto di libertà e amicizia. La felicità se ne sta lì, nelle corse e nel sudore, nei pattini, sugli alberi, nelle storie che ci raccontiamo, nelle merende condivise negli androni freschi dei palazzi. Sta in quel «mi raccomando» da far finta di dimenticare, ogni tanto, per essere amici veri e coraggiosi. Sta nei confini da scavalcare di nascosto, insieme, per crescere.

Serenella (Martignon)

A questa età ho iniziato anch'io, come te, a preparare pozioni con foglie, petali. Lo facevo in estate in vacanza sull'Appennino Modenese, nel giardino della vecchia casa di sasso dei miei nonni, chiedendomi se sarei mai riuscita a mettere un po' di magia nell'intruglio. E scrivere poesie non è forse la stessa cosa, scegliere e mescolare sapientemente parole perché ne scaturisca magia?

Marianna (Balducci)

Disegnavo fino a poco prima che mi si chiamasse per fare la foto (la mamma mi fotografava spesso quanto intravedeva una bella luce, a volte le foto le tornavano buone per i suoi quadri). Ero felice mentre facevo quel che facevo come mi sembra di riuscire ad essere ancora oggi, almeno un po’, mentre faccio quel che faccio.

Alessandra (Raggi)

Questa sono io, ma potrebbe essere la mia Giulia se lo scatto fosse a colori oppure il mio babbo e la mia nonna se fosse ingiallito. Amo questa foto perché contiene tanti bambini, le mie radici e il mio futuro. E poi qui sorrido che è la cosa che ancora oggi pratico ogni giorno.

Sergio (Pasquandrea)

Questo sono io, credo a quattro anni o giù di lì. Quel cavallo a dondolo me lo ricordo, anche perché è rimasto a lungo in soffitta e poi chissà che fine avrà fatto. Invece non mi ricordo di quella bici-razzo nell'angolo, peccato; avrà avuto meno fortuna.
 Per il resto, è rimasto tutto uguale: la mia allegria travolgente, la mia espressione entusiasta quando mi scattano una foto, la sensazione di stare sempre lì per caso e di voler essere da qualche altra parte. Possibilmente, da qualche altra parte da solo.

Barbara (Governatori)

Anno 1956, con le amichette del cortile sono la prima a destra, la più alta e magra in quegli anni non era bello essere così alta. All' uscita di scuola in prima elementare grembiule bianco e colletto rosa io all'inizio della fila orgogliosa del mio ruolo di capo fila. Un'amabile signora dice: «Che belle bambine in fila ordinate ma cla camillauna la' davanti la stà' propri mel!» (per chi non conosce il dialetto bolognese) «Ma come sta male quella lungagnona là davanti!».

Sualzo (Antonio Vincenti)

Anno 1974 o 75, fine estate. Davanti a casa, sotto il grande cipresso che sporgeva da un greppo che per me era parco giochi e isola segreta, io e il mio amico Massi ci divertivamo a impilare delle cassette di legno (che erano servite per portare i pomodori delle conserve che sua nonna stava facendo insieme alla mia) e poi, a turno, facevamo cadere la torre con divertimento indicibile.

Al terzo o quarto turno, mentre toccava a me il ruolo di demolitore, passa di lì un fotografo che era a caccia di immagini per qualcosa, ci disse, ma non capimmo affatto di cosa si trattava. Dovevamo solo andare avanti col nostro gioco e lui ci avrebbe fatto delle foto. Così fece, poi ci ringraziò e ci salutò. Dopo alcuni giorni queste foto diventarono degli enormi manifesti della festa dell’Unità del mio quartiere.