Ultimo giorno di scuola

[di Lisa Bentini]

"Cosa farò oggi, che è il mio ultimo giorno di scuola?", pensavo a cavallo della mia bicicletta, questa mattina che avevo la prima ora. "Cosa farò oggi che è l’ultimo giorno della mia vita nella scuola media?", quella dove i ragazzi non sono né carne e né pesce, quella dove uno ha già i baffi mentre l’altro aspetta ancora che gli caschino i denti da latte, dove ai ragazzi sembra che non gli interessi nulla di quello che dicono i professori: “alla scuola media, che età terribile, ma come fai?”.

"Cosa farò oggi che è il mio ultimo giorno di scuola?", pensavo a cavallo della mia bicicletta, ma a volte i pensieri si fanno ad alta voce e un signore che mi ha incrociata ha pensato senz’altro che io sia matta… Proprio oggi che non ho pensato a niente e non è un caso: non amo i congedi preparati, ho paura delle mie emozioni in classe, di mostrarmi senza pudore o, peggio ancora, di apparire patetica ai loro occhi. Così ho pensato che avrei letto una poesia di Giusi Quarenghi, quella dove le parole hanno un corpo, non sono solo parole, e ci puoi stare dentro, che a volte calzano a pennello come una scarpa, altre volte, invece, fanno pure male.

 

Nella parola sole sto a gambe nude

A testa scoperta nella parola pioggia

A occhi bendati nella parola nebbia

Faccio bocconi della parola pane

La parola acqua mi scorre in gola

E la parola neve prenderò con i guanti.

 

Ma la parola amico non mi basterà

da sola non può fare la mano sulla spalla

risate a crepapelle, tacere più vicini

e mille segrete cose che fanno volare il cuore.

(Giusi Quarenghi, E sulle case il cielo, Topittori)

Leggo a voce alta in classe, e non voglio farmi innervosire se qualcuno nel mentre fa l’occhiolino al compagno, si pettina i capelli, si addormenta sul banco. A volte mi offendo, pure mi arrabbio: mi domando quanto narcisismo si annidi nella mia arrabbiatura, quanto mi ferisca che non mi ascoltino; a volte si arriva pure a pensare che ci stiano prendendo in giro, ma figurati se hanno il tempo di pensare a noi che giriamo per l’aula con un libro in mano a leggere una poesia a voce alta.

Ora, dico: «Pensate a sei parole, e non per forza collegate tra loro: come ci state dentro? cosa ci fate? Potete iniziare come Quarenghi: Nella parola … Alla fine, se non vi dispiace, le leggerò ad alta voce perché, se vi conosco un po’, sono certa che vi vergognereste e preferireste lasciare la parola a qualcun altro. Facciamoci un regalo, invece: io vi leggo senza dire il vostro nome; anche se la tentazione di riconoscere la vostra calligrafia sarà tanta.»

 

Nella parola morte sto a testa alta

sono felice nella parola buio

 

Nella parola solitudine sto a braccia larghe

A bocca sorridente nella parola felicità

Nella parola famiglia mi sento libero

 

Mi allargo con la parola spazio

fluttuo con la parola luna

e alla parola luce brillo

con la parola vento mi allontano

e con la parola pigrizia

svanisco

 

E dalla parola amore sono divorata

 

Nella parola divano mi rilasso

Della parola amore mi fido ciecamente

Nella parola scuola mi addormento

La parola disegno mi scorre tra le dita

Nella parola casa ci vivo

Somaroni del mio cuore, penso, che non avete fatto niente per due anni, che mi avete messo davanti alla parola fallimento ogni giorno, voi che sembravate sempre altrove, siete voi che mi avete fatto un regalo. La poesia salva la vita, diceva il titolo di un libro di Donatella Bisutti, che per un lungo periodo mio padre ha tenuto tra le mani.

Non so se salvi davvero, ma si salvi chi può da chi non riesce a leggere i vostri pensieri e a liberare le vostre parole, anche se fanno male. Anche io, a volte, sono stata tra questi.

 

Nella parola scuola scompaio

Nella parola problemi

mi ci tuffo di testa

Nella parola sfida sto a braccia

aperte

Nella parola cielo lo fisso

continuamente

Nella parola estate mi diverto

Nella parola freddo mi ci sposo.