Un posto silenzioso

[di Oana Alexandrescu]


Tutti dovremmo poter avere un luogo dove ascoltarci. Un luogo-io nascosto e in attesa, un rifugio che esista a prescindere dal nostro volere, che diventi uno spazio di conoscenza come una dimensione altra della solitudine.


Ai primi di ottobre ho portato nella mia classe un libro. 
Ho iniziato la lettura a voce alta, ho preso per mano 22 bambini, i loro occhi, i sorrisi complici e quelli che avrebbero voluto diventare risate. E siamo entrati nelle pagine. La mia voce si fermava per mostrare le immagini. Ciò che vedevo io, vedevano anche loro: colori, disegni e suoni. Quel mondo silenzioso di cui stavo leggendo era pieno di suoni. Voci che di giorno non sentiamo, ma che non sentiamo neppure di notte. Voci di cui ci accorgiamo come lontani ricordi, se qualcuno ce lo ricorda.

Le parole di Luigi Ballerini illustrate con sapiente leggerezza da Simona Mulazzani mi hanno aiutato a parlare agli alunni della mia classe del significato che (non) diamo al silenzio.


Come per il bambino protagonista del libro, l’idea del silenzio è associata al vuoto o al non poter parlare, alla paura di rimanere soli, al colore il cui significato rimanda a una sottrazione, a una mancanza. Nella lingua giapponese la parola silenzio (moku 黙) è espressa con due ideogrammi, nero e cane, e contengono l’idea di un animale che accompagni l’uomo senza parlare; allo stesso modo anche la parola quiete (shizu 静) è rappresentata da un colore, il blu, associato all’ideogramma di battaglia. Come se, tra tutte le possibilità combinatorie per creare le parole in una lingua così lontana dalla nostra, fosse necessario il colore per esprimere pienamente il significato. Il bambino che abbiamo incontrato nelle pagine iniziali del libro, accovacciato e avvolto da quegli stessi colori, è diventato un primo tòpos per esplorare il silenzio.

Perché dovremmo aver bisogno del silenzio e dei luoghi dove cercarlo?
 Tra le parole erano seminate molte domande e un invito: quello a chiudere gli occhi e pensare. Un invito che esclude l’uso della vista per vedere con la mente. In quel momento, mentre gli occhi erano chiusi, il racconto si è trasformato in un amico immaginario, portando ognuno a passeggiare nei propri ricordi per cercare un luogo - quello dimenticato - in cui il silenzio esisteva molto prima della mia voce e prima che la voce delle immagini vi arrivasse.


Dove sei stato? 
Com’è il luogo del tuo silenzio?
 Cosa riesci ad ascoltare quando ti trovi lì?


Portami con te è stato il mio invito ai bambini.
 Per prima cosa ho mostrato ai bambini il mio silenzio e, di quel silenzio, parole e colori: ciò che ho potuto ascoltare, vedere, pensare stando ai piedi di una quercia. Uno schizzo veloce rappresentante la mia narrazione parallela alla storia che stavo leggendo.
 E poi ho aspettato con pazienza.


I pensieri si sono dischiusi come fiori seguendo un mormorìo invisibile, contagioso, passante dalla punta delle dita alle voci attraverso esclamazioni e grida soffocate. Li ho ascoltati con cura e, nonostante senta parlare i bambini quasi tutti i giorni da alcuni anni, mi sono stupita per la loro bellezza e verità. Nei luoghi silenziosi dei bambini si scopre il dolore, un affetto lontano, ciò che li fa piangere e ridere, si scoprono profumi e sogni, si riscoprono, attraverso occhi infantili, luoghi che mai si penserebbero silenziosi. Prati, alberi, corridoi, giardini, famiglie, armadi, stanze, balconi: luoghi che diventano meravigliosi in poche parole. Parole scritte per essere ascoltate. Qualcuno lo fa disegnando.


Se penso agli albori dell’attività umana, quando il pensiero era un segno sulle pareti di una grotta, mi domando perché e quando abbiamo iniziato ad avere paura del silenzio, della solitudine che l’accompagna e di noi stessi.



Il professor David Hendy, storico e autore di una serie radiofonica trasmessa nel 2013 da BBC 4, ha rivelato in una ricerca sulla storia del rumore che, nelle grotte in cui disegnavano gli uomini primitivi, i luoghi in cui maggiormente si concentrano i dipinti sono immersi nel suono. Attraverso i suoi studi scopriamo che le pareti custodi di quelle memorie, silenti solo in apparenza, erano scelte con cura e con un’attenzione particolare rispetto all’eco che si produceva standovi di fronte. Invece di collocare le pitture vicino agli ingressi, dove la luce avrebbe potuto facilitare la visione, gli artisti primitivi hanno scelto di collocarle nell’oscurità, nei meandri a loro noti dove la risonanza vocale era maggiore. L’eco prodotta dalla loro primordiale lingua orale era necessaria per tradurre il pensiero parlato in segno. Racconti di mani sapienti, narratori ab origine, che accompagnavano i loro gesti con una colonna sonora fatta di vocalizzi e che, nel tempo, si è trasformata in una lingua.


Immagini da Kunster der Vorzeit, Felsbilder Aus Der Sammlung Frobenius, Prestel, 2016.

Da allora l’uomo ha continuato a cercare quella parte di sé che si può esplorare nel silenzio. Così sono stati creati luoghi specifici dove isolare i rumori del mondo, camere all’interno di camere, chiamate anecoiche perché caratterizzate dall’assenza di eco. La loro struttura è stata studiata in modo tale da avere le pareti costituite da coni o escrescenze geometriche capaci di infrangere le onde sonore per cui, al loro interno, si posso registrare livelli inferiori anche a zero decibel. Una delle ultime, inaugurata a fine maggio, si trova a Ferrara nel Dipartimento di Ingegneria dell’Università. Le diverse voci che hanno potuto raccontare dell’esperienza in queste camere hanno in comune uno stato d’animo di disagio e di paura nel percepire il proprio corpo come un corpo sonoro. Nel silenzio tangibile di quelle camere, infatti, l’unica fonte di rumore è il nostro essere vivi, pulsanti, elettrici. I pensieri, attività risultante dalle onde elettromagnetiche del nostro cervello, lì hanno un suono udibile. Per le persone il cui lavoro non è in stretta relazione con l’acustica, è insopportabile permanervi a lungo. Sottoporsi, oltre che alla scoperta di essere una fonte sonora, a un’esperienza sensoriale uditiva così assoluta è disorientante e dà come reazione istintiva quella di rifuggirne.


Interno di camera anecoica.

Se ne deduce, guardando alle nostre origini, che la ricerca umana del suono, del pensiero e della conoscenza attraverso il silenzio è circolare: nei luoghi più inaccessibili si creava un suono che oggi possiamo ottenere solo con strumenti avanzati, perduto quel silenzio primordiale (e animale) dobbiamo ricrearlo ricorrendo alla scienza.


I bambini conoscono istintivamente il riverbero che hanno le idee sul loro agire, vibrazioni impercettibili che agitano le dita e tengono impegnati i piedi in una danza malcelata sotto ai banchi. Insegnando ad accogliere il silenzio e la solitudine che ne deriva, quel che posso offrire loro, giorno dopo giorno, è un luogo dove possano imparare a tradurli, sperimentando la metamorfosi del pensiero in un segno/suono, a non averne paura o, nel caso ne abbiano, a prenderne le distanze e non identificarsi con essi.
Quel luogo è un libro.


Un pomeriggio di ottobre all’ombra di una quercia ho iniziato a scrivere queste parole.