[di Matteo Maculotti]
Il mio compagno di tavola, un bambino giapponese di otto anni, sta leggendo Tintin. È ora di pranzo, e mentre altri bambini preparano le porzioni l’aula è già diventata una mensa, con tutto l’occorrente disposto in ordine sui banchi raggruppati a isole. Il mio vicino ha invece il turno da cameriere, ma è la sua tovaglietta piena di treni a preannunciarmi il sogno che mi racconterà a breve, e che alla parola shinkansen mi richiamerà alla mente i due fratellini dello splendido I Wish (2011) di Hirokazu Koreeda, regista che in molti film ha dato voce al mondo dell’infanzia con rara sensibilità.
Anch’io sono appassionato di fumetti e di treni, e l’indomani ne prenderò uno per passeggiare sulle strade della città che vide crescere il “dio del manga” Osamu Tezuka. A onor del vero sono un maestro di 30 anni e non capisco una parola di giapponese, ma la gentilezza e l’ospitalità che mi circondano hanno il potere di farmelo dimenticare. Una bambina ha sentito che mi piace scrivere e disegnare, e mi chiede di farle un disegno. «Gli italiani sono degli artisti,» dice entusiasta, attirando l’attenzione dei compagni. I nostri stereotipi su di loro, a pensarci, non sono sempre altrettanto lusinghieri. Un altro film di Koreeda, il documentario giovanile Lessons from a Calf (1991), mi ha insegnato perlomeno a diffidare di quelli che in genere associamo alla scuola giapponese, grazie all’esperienza di una classe elementare che per tre anni, adottando una mucca, ha fatto della sua cura il perno di una programmazione didattica tutt’altro che rigida o autoritaria. Un caso particolare, certo, ma come ogni eccezione indicativo di una realtà ben più complessa dei nostri consueti schemi mentali.
In questo viaggio organizzato dalla facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano e dalla Shinwa Women’s University di Kobe, con studenti, professori e ricercatori in visita a scuole dell’infanzia e primarie della prefettura di Hyogo, poche cose ci colpiscono come l’atmosfera raccolta che si respira negli ambienti scolastici. L’aula dove stiamo mangiando si affaccia su un corridoio simile a un grande open space, ed è separata dalle altre da una singola parete divisoria, il che la dice lunga sul clima di quiete che pervade ogni spazio. La cosiddetta “gestione della classe” sembra un problema molto meno pressante, per non dire inesistente, se un solo insegnante è in grado di rivolgersi in media a 35-40 alunni senza mai alzare la voce, e richiamando l’attenzione soltanto in maniera sporadica.
Ciò che vediamo ci sollecita a considerare molti aspetti della vita scolastica da prospettive inedite, facendo tesoro soprattutto dei momenti in cui non si tratta tanto di assistere a un’esperienza, quanto di viverla in prima persona. Nell’atrio di ogni istituto siamo invitati a togliere le scarpe, e solo compiendo questo gesto mi sembra di capirne il senso: si entra a scuola come in un tempio o in una casa, attraversando una soglia. E la stessa ritualità che regola i rapporti tra insegnanti e alunni, vista da vicino, non somiglia tanto a una pratica di controllo unidirezionale, quanto a una forma di manifestazione reciproca di rispetto e fiducia. All’inizio e alla fine delle lezioni, sia gli alunni che l’insegnante si salutano con un leggero inchino che implica un rispecchiamento, e ogni volta che un alunno prende la parola, alzandosi in piedi, accentua l’impressione che lo stia facendo non per sé, né tantomeno per l’insegnante, ma in nome o a favore di una collettività rappresentata dall’intera classe.
Finito di mangiare puliamo l’aula con le scope e gli stracci assieme ai bambini, efficientissimi nel coordinarsi per sveltire le operazioni e iniziare presto l’intervallo vero e proprio (nel quale daranno prova di essere anche bambini allegri e scalmanati). Ripenso a tutte le scuole che abbiamo visitato, e mi rendo conto che una grande attenzione per la cura delle piante, degli animali e degli ambienti, in ognuna di esse, si accompagna a una precisa organizzazione degli spazi e dei tempi della giornata. Nel cortile di una scuola dell’infanzia, durante il momento di gioco libero di metà mattina, è impressionante la varietà di strumenti a disposizione dei bambini. Accanto a uno stagno, alcuni “grandi” di 5 anni mostrano ai “piccoli” come si pescano i gamberi con una lenza artigianale, insegnano loro a prenderli in mano e a rimetterli poi nell’acqua, mentre altri bambini corrono su tricicli, si assiepano attorno a gabbie di uccellini, compiono esercizi ginnici, giocano a pallone o con la sabbia.
Si intravedono appena gli educatori, e non si sentono quasi richiami verbali. «In caso di bisticci,» spiega una maestra, «cerchiamo di far sì che i bambini imparino a risolvere i problemi tra di loro, e solo in caso di pericolo interveniamo». In un altro cortile la scarsità di spazio è compensata da un intelligente allestimento, con dislivelli e tendaggi che moltiplicano gli ambienti e gli angoli da esplorare. Ovunque si vedono vasi di piante, e in ogni scuola, a riprova di un’educazione che riconosce l’importanza del corpo, si distinguono file di monocicli. Una scuola dell’infanzia ha adottato il “salto ritmico”, ovvero un programma incentrato sul movimento coordinato a tempo di musica. «E se a un bambino non va?» domanda qualcuno. «Di solito non succede, ma nel caso lo lasciamo riposare, e vedendo i compagni è molto probabile che gli ritorni presto la voglia di unirsi a loro.» Le prove per la coreografia di uno spettacolo, poco dopo, ci lasciano a bocca aperta. Un’altra scuola dell’infanzia considera invece il mercatino l’attività più significativa: per molti giorni i bambini creano da zero i loro prodotti e le bancarelle, per poi cimentarsi in pubblico nei panni di mercanti, artigiani o pizzaioli. Il giorno del suo compleanno, inoltre, ogni bambino ha la possibilità di esibire davanti a tutti qualcosa in cui si sente particolarmente bravo.
La musica, il canto e la danza sono alla base di moltissime attività, tanto che per diventare insegnanti è indispensabile saper suonare il pianoforte. Si va dai motivi tradizionali alle canzoncine reperibili in rete, ma i bambini intonano anche un inno scritto per la loro scuola dal prof. Yamamoto, il docente di musica che ci accompagna nelle visite e assieme alle sue studentesse universitarie ci ha riservato una calorosa accoglienza a base di canti e concerti. Non è certo un caso se mi viene da pensare al maestro giapponese come a un direttore d’orchestra, e in una scuola primaria mi sembra che l’ipotesi trovi conferma nell’abilità con cui un giovane insegnante, a partire da una semplice domanda sulla forma delle zampe del bruco, conduce con autorevolezza una lezione di scienze “a 360 gradi”, integrando supporti tradizionali con dispositivi tecnologici e coordinando momenti di osservazione, produzione e discussione che avvengono sia a coppie, sia in piccoli gruppi, sia in forma collettiva. Solo i migliori insegnanti, ci viene detto, riescono a superare una dura selezione e a ottenere una cattedra. Il loro impegno di lavoro non è limitato alle lezioni e supera spesso le 40 ore settimanali, a fronte di un salario dignitoso ma non sempre adeguato.
È evidente che una classe-orchestra, qui, non è qualcosa di eccezionale, bensì l’esito di un percorso che mira fin dalla più tenera età a sviluppare nei bambini la cooperazione, il senso di solidarietà e la condivisione di valori comuni. Negli ultimi decenni il Giappone ha cercato di dare maggiore risalto anche agli aspetti individualistici tipici delle moderne pedagogie occidentali, ma le fondamenta del suo sistema scolastico, che per efficacia ha pochissimi eguali al mondo, rimangono saldamente radicate in una cultura che concepisce l’apprendimento come un fatto essenzialmente sociale, e l’identità stessa in termini di legami interpersonali.
«Ho abbandonato questa inezia / chiamata “io” / e sono diventato il mondo immenso» recita una poesia del monaco buddhista Musō Soseki (1275–1351). All’uscita da scuola, come nei momenti di pausa dalle lezioni, il direttore scompare, ma il suo sguardo invisibile sembra accompagnare da lontano l’orchestra nell’esecuzione di una nuova sinfonia. I bambini di tutte le classi indossano a turno le loro giacche e si incamminano a gruppi sulla strada verso casa. Non c’è l’ombra di un adulto, e i loro ombrelli variopinti sotto la pioggia diventeranno il più bel ricordo del mio viaggio.