Vuoi vedere un miracolo?

Mentre, qualche sera fa, le immagini di Corpoceleste scorrevano davanti a me sulloschermo del cinema, mi sono venuti in mente alcuni versi di MariangelaGualtieri, nella raccolta Bestiadi gioia, dedicati alla bruttezzapatologica di certi luoghi italiani di oggi, allabellezza delle cose distrutta senza coscienza, con passiva,greve e serena imbecillità.

Vedendo le duefacce del paese
quella più anticae la nuova
mi ha stretto una morsadisperata.
Pochi minuti, è vero. Hodeglutito.
Non ci ho pensato più. Mac’era
fotografata la rovina di tuttauna specie.
Un’insipienza nuova digente massacrata
che s’è venduta glispiriti di casa
e ha tolto ai figliil bene. Così,
da sola, non perchéforzata.
Da sola ha scelto la borgatanuova.
Io sento inginocchiata dentroloro
- e dentro me -
la bellezza della terra intera.

 
Lo splendidofilm d’esordio di AliceRohrwacher, ha al proprio centro esattamente questo:la “rovina di tutta una specie ... che toglie ai figli ilbene”, l’“insipienza nuova di gente massacrata” capace dimettere in ginocchio “la bellezza della terra intera”.


Nel mondo devastato portato in scena, una ReggioCalabria di uno squallore umano e fisico atroce e senzaremissione, il compito della ricomposizione e della cura, della ricuciturae della verità, è affidato allo sguardo attento, spaventato e seriodella protagonista, Marta, una ragazzina di quasi tredici anni. Unosguardo la cui serietà abbiamo incontrato in altre pagine superbedi cinema che ha per protagonisti i bambini e i ragazzi di cui spessoinquesto blog si è parlato. Corpo celesteentra, infatti, nel novero di quei film preziosi che ci raccontanola potenza dello sguardo adolescente sulle macerie dei nostri spazie dei nostri tempi. La sua capacità di rivelare con precisione,attraverso il rimpovero muto, la silenziosa domanda di senso,l’incessante interrogazione sulle cose che lo attraversa, lo statoinquietante di degrado in cui affondano vite, abitudini, gesti, luoghi,parole, oggetti, pensieri, rapporti.

La circostanzaintorno a cui è costruita la vicenda, il percorso di preparazionealla cresima della protagonista, rende ancora più tetro lo scenarioin cui si muove questa umanità disorientata e luttuosa. Poiché inquesto contesto che dovrebbe assolvere alla guida delle anime, ogniistanza spirituale annega, paradossalmente in una demente assenzadi comprensione, compassione, devozione. In una assordante assenzadi disposizione all’ascolto, di raccoglimento e accoglimentodella trascendenza e della spiritualità, intese come dimensioniche consentono all'umano l’accesso a un ordine più ampio, alto,complesso, a una relazione con il creato e la sua intelligenza, la suagrazia, il suo mistero, la sua bellezza.

Le pie donneche si muovono in questa parrocchia sciatta e diseredata, e in unachiesa, a metà fra una morgue, l’ingresso di uncondominio e un ristorante della camorra, sono un emblema perfetto diquesta umanità allo sbaraglio. Eternamente e inutilmente vocianti,sgraziate nei loro incongrui abiti di lustrini e ricami, perse in unaripetizione di gesti e di mansioni condotti in ossequio a convenzionie norme prive di forma e sostanza, disvelano, in momenti che siaprono come accecanti squarci di verità, una natura di orchesse,capaci, dietro il pretesto dell'accudimento delle anime giovani, digesti ambigui ed efferati di violenza psicologica e fisica.
La bravura sorprendente della regista sta nel gioco dicontrappunto fra la bruttezza desolante dell'ambiente, quella che LuigiGhirri in un suo bellissimoscritto ha definito  “un disastro visivocolossale”, e la bellezza intensa della domanda disattesa diverità della ragazzina, che riesce, con la sola grazia acerbadella sua presenza e del suo sguardo a ricomporre l’orroreche la circonda. Eroica nell'impresa silenziosa di cucire conil filo del senso e del pensiero i brandelli del mondo esplosoche la circonda, Marta, interpretata da Yle Vianello, è unaprotagonista indimenticabile.

Memorabili alcunescene. Quella in cui le dita della ragazzina percorrono, fra lemacerie di una chiesa abbandonata, il volto ligneo di un Cristo di cui,dall’unico adulto in grado di verità, ha appena appreso il grido ultimodi furore: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato.” 
Quella in cui il crocifisso prelevato dall'antica chiesadistrutta, anziché finire nella nuova sede, grazie a un provvidenzialeincidente finisce in mare: vedendolo ho provato il medesimo sollievoe la medesima commozione provati ascoltando Michel Piccoli che, in Habemuspapam, in autobus, prova il discorso di investiturapontificale fra pazzi, extracomunitari e gente stanca e qualunque.
Quella in cui Marta, in fuga da una blasfema e terrorizzantecerimonia della cresima, a base di balletti televisivi eseguiti da bambinecinquenni, cresimandi vestiti come bodyguard e unpastore di anime arido e afasico dedito alla conta di voti e soldi, siavventura verso il mare, trovando il coraggio di attraversare l'acqua nerae ferma di un tunnel che la separa dalla spiaggia. Qui incontrerà unapiccola comunità di ragazzi selvatici intenti a costruire strane ed esiliarchitetture di rifiuti e oggetti dilavati dall’acqua. Uno di loro,mettendole in mano la coda di una lucertola, ancora danzante di vita e dienergia, pronuncia l'ultima frase del film: «Vuoi vedere un miracolo?»
Finalmente, si respira.