Negli ultimi anni il tema della famiglia è andato per la maggiore negli albi illustrati. Peraltro questo tema è cruciale non solo nella letteratura, per grandi e piccoli, ma nella società, e da sempre. La famiglia, è noto, è la cellula base della società. La forma della famiglia, per questo, delinea la forma delle relazioni fra consanguinei e non, e quindi delle relazioni di potere nel consesso umano. E definisce pertanto anche il rapporto che ogni società ammette fra natura e cultura. È per questo, per esempio, che l’annosa questione dell’educazione di genere ha visto in prima linea, insieme alla scuola, la famiglia, e ha suscitato proprio in ambito familiare le reazioni più acute. Non solo: sono stati proprio diversi libri per bambini sulla famiglia, “colpevoli” di disegnare nuove geografie e fisionomie familiari, a essere messi sotto accusa in quanto portatori dell’infezione “gender”.
Ma soprattutto, la famiglia è un tema importante perché questa nelle vite e nell’esperienza di tutti, nel bene e nel male, che la si ami o la si odi, ha o ha avuto un posto e conseguenze importanti. E in particolare nell’esperienza dei bambini la famiglia ha un ruolo e uno spazio centrali come riferimento fondamentale nello sviluppo dell’identità.
E tuttavia, ciò detto, non è stato il tema famiglia a farci decidere di pubblicare questo nuovissimo albo, La mia grande famiglia, da poco in libreria. A conquistarci è stato invece il modo in cui Joe Lyward lo ha osservato per poi raccontarlo. Due anni fa abbiamo incontrato Joe a Bologna, per festeggiare l’uscita del suo primo albo con noi, This is… passeggiata poetica attraverso quattro lingue: un libro delizioso, elementare nella sua idea di base, ma articolato con precisione ed eleganza, attraverso essenziali scelte grafiche, cromatiche, cartotecniche, verbali. Dove con eleganza non si intende una vuota qualità formale, ma un modo di vedere le cose, uno stile di pensiero che rispetta la misura di sé e del mondo.
Dello stile di Joe, fin dall’inizio, a interessarci è stata la propensione a fare con poco, ad arrangiarsi con il minimo necessario, costruendo narrazioni a partire da cellule base. Nel caso di La mia grande famiglia ci mostrò quelli che sarebbero stati i personaggi del libro: alcune forme (quasi) geometriche colorate, dotate dell’attrezzatura umana minima necessaria di base: gambe, testa (e qualche volta braccia). Questa piccola folla di umani gremiva via via le pagine, in un’atmosfera di comicità affettuosa e surreale, man mano che nel testo apparivano i fatidici nomi con cui nelle lingue umane si indicano i parenti: zio, zia, nonna, nonno, nipoti, prozii, nuore, cognati, generi, bisnipoti… Avete presente quelle conversazioni che si fanno a tavola, ai pranzi di famiglia, in cui a un certo punto si cade nel gorgo delle parentele, cercando di capire chi è il genero di chi e cosa significhi cugino di terzo grado o prozia del nonno? Ecco, stiamo parlando di quelle.
Chi, a un certo punto della propria infanzia, superata la beata incoscienza della famiglia come attributo personale (È MIA ed è la più bella del mondo), ascoltando i genitori e i parenti inpegnati in una simile conversazione non si è bloccato, interdetto, di fronte alla natura labirintica dei gradi di parentela?
È sempre un momento particolare, questo, in cui si intuisce, mentre viene un po’ da ridere, che alla difficoltà dei nomi corrisponde quella di capire cosa siano le persone in relazione a noi e cosa ci lega a loro. Ci lega? Sì, almeno dal punto di vista parentale. Dite poco? In questa strana esperienza c’è già uno spiraglio di quella fondamentale riflessione su cosa significhi familiare: cosa sia familiare e cosa no, cosa ci appartenga e cosa no, che peso diamo alla famiglia e alla familiarità, cosa riteniamo estraneo e straniero. Come si capisce, dalla consapevolezza e dalla comprensione di queste problematiche dipende, senza esagerare, il nostro rapporto con il mondo. Per questo l'idea di Joe, e il modo elegante, umoristico e sottile con cui l'ha sviluppata ci ha conquistati.
La trama di questo albo in cui trionfa il bianco e dove le parole hanno spazio, è costruita su un monologo: quello di un bambinetto curioso che, accompagnato dal suo paziente papà, cerca di arrampicarsi sul proprio albero genealogico, affrontando di ramo in ramo il complicarsi delle linee famigliari, felice di sentirsi parte di un universo tanto grande, vivo e affollato, ma anche un po’ sorpreso da tutta quella complicazione. Un'arrampicata condotta con libertà e leggerezza fino a un epilogo tenerissimo, che degli affetti veri mette in luce la calda semplicità.