Oggi festeggiamo i dieci anni della collana Gli Anni in Tasca con il romanzo che ha inaugurato la collana Il ragazzo è impegnato a crescere di Roberto Denti. Abbiamo scelto un brano dal quarto capitolo che ha un titolo bellissimo In cui il protagonista dichiara il suo amore per la Tata e il lettore entra nella bottega di Beniamino. Uno di quei titoli che fa pensare alla narrativa di avventure che tanto era amata da Roberto.
Chi in casa si occupava di me era la “Tata” che, di fatto, era la donna di servizio. Era già in casa quando nacqui e aveva da tempo superato i cinquant’anni, piccola di statura con una grande vitalità. Arrivava in casa nostra alle sei di mattina e se ne andava dopo le sei di sera, meno la domenica che finiva il suo lavoro dopo il pranzo di mezzogiorno. Ero già in età di capire - e se me lo ricordo avevo compiuto dieci anni - mi disse: «Il tuo papà è una brava persona: mi dà la paga al mese di venticinque lire, mentre le altre donne che lavorano come me ne prendono al massimo ventidue-ventitré». La singola lira, anche se di scarso valore, era determinante per la vita della povera gente.
La misura del compenso per i lavori umili era a livelli bassissimi, ma nessuno ci badava, tantomeno io. La Tata parlava soltanto dialetto ed era analfabeta: me ne accorsi quando, all’inizio dei miei tentativi di imparare a leggere e scrivere, le chiesi il suono di una lettera a caratteri grandi sul giornale, e mi rispose: «Mi pare una O, ma non sono sicura. Ho smesso di andare a scuola quasi subito, perché a sei anni mi hanno mandato a lavorare in filanda».
La filanda era lo stabilimento dove si produceva la seta: le bambine erano utilizzate per portare i bozzoli del baco dalle caldaie di acqua bollente ai banchetti delle filatrici. Le operaie erano addette alla trasformazione in un filo sottilissimo dell’involucro (si chiama “bozzolo” e ha la forma e la dimensione che ricorda le arachidi) che il baco produce attorno al proprio corpo. Le mani delle bambine si scottavano e questo in età più tarda provocava forme dolorosissime di artrite.
La Tata mi adottò. Non era la mia mamma o il mio papà o la mia nonna, ma mi fu vicino non soltanto con affetto, ma con amore. Mi difendeva quando la sera mio papà e mia mamma ritornavano a casa e mi punivano, picchiandomi sulle gambe con una piccola sibilante bacchetta di bambù, dopo che la nonna aveva raccontato loro tutte le malefatte che avevo compiuto in loro assenza sia in casa che fuori. Era un mistero per me come la nonna fosse sempre al corrente di cosa facevo nel cortile dei vicini o in strada. Avevo ascoltato le fiabe, nelle quali avevo creduto, e per anni ho pensato che la nonna fosse una strega, capace di conoscere i più strani segreti che mi riguardavano. Non ebbi mai una carezza o un bacio dalla mia nonna; la mia mamma e il mio papà erano affettuosi, ma con loro stavo pochissimo.
Era la Tata che parlava con me e, questo lo ricordo molto bene, mi copriva quando dicevo le bugie alla nonna e ai miei genitori. Una sera d’estate dopo cena, eravamo riuniti con tutta la famiglia e qualche persona amica sul retro della casa a respirare l’aria fresca delle piante. In cielo, la luna era piena e illuminava la notte. Dissi a voce alta: «Sulla luna si vede metà la faccia di Caino e metà la faccia di Abele».
Mio padre si inquietò per questa stupidaggine: prima mi diede uno schiaffo di rimprovero e poi mi chiese: «Chi ti ha detto una cosa simile? Non è vera. Quello che vedi sono le ombre dei crateri.».
Risposi che era stata la Tata, la quale il giorno dopo sentì una ramanzina da mio padre. Ma per lei cose di questo genere erano vere perché dovute alla sua cultura di antica origine contadina. I contadini chiamavano “lunario” il calendario perché il lavoro dei campi era scandito dai tredici mesi lunari e non dai dodici mesi solari. Grano, erba, granoturco si seminavano e si raccoglievano in base ai mesi lunari. Gli ortaggi che crescono sopra la terra (insalata, pomodori, piselli, fagioli ecc.) si seminano in fase di luna crescente, quelli che maturano sotto terra (patate, rape, aglio, cipolla ecc) si seminano in fase di luna calante. Se si sbaglia non spunta niente o ben poco.
Spesso la Tata mi faceva partecipe della sua saggezza attraverso i proverbi. Ne ricordo almeno tre poco conosciuti: “Chi lavora ha una camicia, chi non lavora ne ha due”; “Quando un povero mangia un pollo o è perché è ammalato il povero o è ammalato il pollo”; “La giustizia è uguale per tutti meno che per i ricchi”. Era un modo di farmi capire che io vivevo in una famiglia privilegiata, ma che la maggior parte della gente sopportava povertà e miseria. Quando durante l’estate passavo i giorni in città, il pomeriggio la Tata mi portava - naturalmente si andava e tornava a piedi - sulle rive del fiume Po dove io giocavo con la sabbia assieme ad altri bambini che trovavo sul posto. La striscia di sabbia non era grande ed era delimitata da alberi di medio fusto chiamati le “boschine” che erano posti meravigliosi per giocare a nascondersi.
La Tata abitava a qualche centinaio di metri da casa nostra, in periferia della città, in una vecchia casa del tipo chiamato “di cortile”, perché appunto attorno al cortile erano strutturate le abitazioni delle singole famiglie. Piano terra e due o tre piani al massimo. L’acqua era disponibile soltanto in cortile e veniva portata nei singoli appartamenti (in genere due stanze: cucina sul davanti e stanza da letto unica sul retro) con il secchio che trovava posto in cucina. Si beveva con il mestolo: i bicchieri erano fragili e costituivano un lusso che i poveri di città e i contadini di campagna non potevano permettersi. Ci si lavava con l’acqua fredda in un catino spesso appoggiato sul tavolo di cucina. Le singole abitazioni dei piani superiori si affacciavano sul cortile ed erano protette da una ringhiera di ferro. Il gabinetto era in fondo alla ringhiera ed era comune a tutte le famiglie del piano. Per fare pipì, se ce n’era bisogno di notte, si usava una grande tazza di smalto chiamata “pitale” e in dialetto l’“orinale” dal suo contenuto.
Il cortile della casa della Tata, che mi capitava spesso di frequentare (anche perché lì trovavo molti bambini con cui giocare), non aveva famiglie che la abitavano, ma attività di artigiani. Per me era una fonte sempre nuova di meraviglie, anche se ero abituato a vedere le persone che ci lavoravano. C’era un costruttore di statuine di Santi e Madonne che le fabbricava e le dipingeva di vari colori con una vernice dall’odore intenso e penetrante.
A me il suo lavoro piaceva molto e mi ricordo ancora il suo nome: Beniamino. Lo osservavo a lungo, quando metteva il gesso bagnato con l’acqua dentro gli stampi, facendo molta attenzione che l’impasto fosse ben amalgamato e senza bolle d’aria. Poi metteva gli stampi nel forno, che adesso era elettrico, mentre una volta - diceva Beniamino - funzionava a legna e allora era molto complicato, perché era difficile mantenere la temperatura costante. Se il fuoco diminuiva o era troppo forte, il gesso non cuoceva bene e le statuine si spaccavano. Il gesso, colto o malcotto, non è più utilizzabile e ogni infornata andata a male era una perdita di denaro. Con il forno elettrico la situazione era diversa: tutto era diventato automatico e anche la resina con cui si pennellava l’interno degli stampi per non fare attaccare il gesso si stendeva in modo più regolare e permetteva di lavorare meglio con il colore. Beniamino per ogni statuina aveva i suoi tipi di colore che spruzzava da scatoline vecchissime, ma colorava sempre in modo diverso. La Madonna era la Madonna con il manto azzurro e la veste bianca, ma Beniamino ogni volta riusciva a modificare l’azzurro nelle pieghe, piùù o meno scure secondo il suo umore. Le statuine del presepio, poi, le cambiava continuamente. Le figurine dei pastori, anche se uscivano uguali dallo stampo, avevano sempre colori diversi nelle giacche, nei pantaloni, nei berretti. Per i Re Magi, Beniamino non si ricordava mai quale doveva essere quello nero e confondeva ogni volta Melchiorre con Baldassarre o con Gasparre.
Dove la fantasia di Beniamino si sbizzarriva era con le figure dei Paladini di Francia. «Sino a dieci anni fa» diceva «era un genere che nelle Fiere si vendeva poco. Adesso c’è pieno di siciliani che di fronte a Orlando e Angelica non resistono. Gli faccio i mantelli rossi bordati d’oro, metto l’oro sulla spada e sulla corona. Costa di più perché la porporina è piuù cara degli altri colori, ma la vendita è assicurata». Una cosa che gli stava a cuore, era il viso di Angelica che doveva essere pallido, ma non bianco. Così aveva inventato l’uso del bianco dell’uovo che doveva spalmare con un pennellino.