Oggi, per il martedì di festeggiamento dei 10 anni degli Anni in tasca abbiamo scelto da Super 8 di Anna Castagnoli, un brano che bene illustra la curiosità inesauribile dei bambini verso le proprie origini, vivendole quasi come mitologiche. Un tema importante quello delle origini che percorre molta letteratura per l'infanzia, e che i bambini elaborano fra mille fantasticherie, rendendo leggendarie le storie di coloro che sono venuti prima di loro e da cui è dipesa la loro nascita. Buona lettura.
A Torino l’autostrada diventava una strada piena di semafori che passava vicino al fiume Po. Il viale attraversava poi un ponte su cui statue attentissime ci guardavano passare, e arrivato dall’altra parte, dal lato della collina, costeggiava magnifici castelli medioevali immersi nel verde. All’altezza del cartello Direzione San Vito (io credevo indicasse un ospedale dove era ricoverato un uomo malato del Ballo di San Vito), la strada svoltava a destra e s’inerpicava sulla collina. Un saliscendi con gobba veniva sempre preso da mio padre a massima velocità per il nostro giubilo, mentre mia madre gridava che era pericoloso. Nostro grande spasso era sentire “il vuotino”: una specie di bolla di vuoto nella pancia, quando la macchina terminata la salita si buttava a precipizio per la ripida discesa.
Dopo molti tornanti si arrivava davanti al grande cancello automatico che chiudeva la Conca d’Oro, il quartiere dove, una accanto all’altra, c’erano le case dei miei nonni e dei miei zii, cioè le ex case dei miei genitori.
Salendo i tornanti, tra bei giardini di magnolie e salici piangenti, vedevamo già le nonne sui loro terrazzi, avvertite dal citofono del cancello.
Si andava prima in casa di mia nonna materna, dove avremmo dormito; poi, in quella di mia nonna paterna, dove avremmo mangiato il pollo in gelatina; infine, in quella dei miei zii, la sorella di mio padre e suo marito, che abitavano nella terza casa attigua, dove avremmo giocato a Scarabeo. La casa di mia nonna materna era più semplice e si poteva fare lo scivolo sul parquet usando le pattine fatte all’uncinetto.
Nella casa di mia nonna paterna, invece, non si poteva fare quasi niente, ma aveva il suo fascino per altre ragioni. I grandi tappeti cinesi su cui non potevamo camminare con le scarpe; i grandi specchi, su cui non potevamo fare il vapore e scrivere col dito; l’anello della moglie del presidente Einaudi (regalato a mia nonna, in cambio di una villa che mio nonno, architetto, aveva restaurato gratis per il presidente), nascosto dentro l’anta segreta del pianoforte, che potevamo guardare e non toccare, come un oggetto esoterico; il grande tecnigrafo di mio nonno, pieno di matite di tutti i colori; il mazzetto di fiori di velluto allunga-vita; l’occhio della signora Maria, la signora che faceva le pulizie, che era di vetro.
In ognuna delle due case mi sentivo diversa, e non sapevo mai decidere quale delle due Anne fossi io: se quella principesca, pettinata da mia nonna paterna, o se quella selvaggia che faceva scivoloni sul parquet materno. Dei due nonni avevo un po’ soggezione, ma le due nonne, in modo diverso, le adoravo.
Nonna Gianna (materna), era mite e sempre sorridente. Ogni volta che poteva ci leggeva una filastrocca che insegnava l’importanza del sorriso. Aveva la pelle delle mani simile a quella di una gallina cotta, ma lo stesso mi faceva piacere quando sentivo i suoi polpastrelli freddi e leggeri sulla fronte. Ogni giorno ci insegnava delle piccole cose: come piegare i fazzoletti, come bagnare le ortensie perché diventino rosse, come fare la pastina all’uovo. Ma il suo mondo era un po’ troppo semplice per il mio modo di essere e anche se mi sentivo molto dolce e buona ogni volta che le stavo vicino, appena potevo sgattaiolavo nella casa di mia nonna paterna.
Mia nonna paterna, nonna Anita, la adoravo perché era bellissima, sapeva suonare il pianoforte, aveva anelli che brillavano e dita lunghissime, fini, con cui tamburellava su qualsiasi cosa, come se fossero sempre su un pianoforte immaginario. Io, me lo diceva sempre all’orecchio, ero la sua nipote preferita. Lei era l’unica dalla quale mi lasciavo pettinare, perché passava la spazzola pianissimo sulla superficie dei capelli, come se avesse avuto timore di spingere più a fondo, mentre con l’altra mano scendeva giù, accarezzandomi la testa, quasi a scusarsi di aver passato la spazzola con le sue punte. Io me ne stavo lì con gli occhi chiusi e mi immaginavo di essere vestita come la piccola Maria Antonietta in Lady Oscar, con un vestito tutto ricamato di rose vere.
Mia nonna sembrava essere l’unica cosciente delle mie origini nobili, forse regali, e gliene ero infinitamente grata. L’accompagnavo sempre a fare la spesa: compravamo la carne cruda da Curletti, un macellaio appassionato d’arte che aveva un negozio che non si capiva bene se era una macelleria o una galleria d’arte, dove un Casorati faceva bella mostra di sé sopra i filetti di vitello. Poi andavamo in farmacia, poi a comprare il pane. Ovunque andassimo tutti dicevano: «È la piccola Anna!» Poi, rivolgendosi a me: «Oh, ma è veramente bellissima, signora Castagnoli, non ci aveva mentito affatto!»
Io mi sentivo sempre molto onorata, come se nei negozi ci fosse stato un tappeto rosso steso solo per il mio arrivo. Ma, misteri dell’animo umano, dopo un po’ mi stancavo anche di essere regina, mi veniva nostalgia del mondo semplice della casa dell’altra nonna, e sgattaiolavo via.
Le due nonne sapevano raccontare storie. Vorrei raccontarvele tutte: quella di Giovannino seme di mela o quella del mio prozio aviatore che aveva sorvolato l’atlantico e fatto innamorare centinaia di fanciulle o quella di quando ai bambini si toglievano le tonsille senza anestesia o quella della triste vita della Befana... Ma non si può, ci vorrebbero troppi capitoli, un intero libro solo pieno delle storie delle mie nonne. Così ne sceglierò una, che forse era la mia preferita: quella di come nonna Anita, mamma di mio papà, si innamoroò di mio nonno, e di come per un pelo io rischiai di non esistere.
Mia nonna Anita da ragazza era di una bellezza inenarrabile. Gli uomini cadevano svenuti al suo passare, talmente era bella. Oltre a essere bella, era aggraziata e sapeva suonare il pianoforte come una grande pianista. A quell’epoca, per aver il piacere di accompagnare una ragazza sottobraccio, bisognava prima chiederla in moglie. Si racconta che mia nonna avesse ricevuto ben trentadue proposte di matrimonio! A ogni proposta lei diceva no, e mio bisnonno, suo padre, era disperato.
Mia nonna stava compiendo i ventidue anni, e una ragazza di quell’età non ancora sposata era una sciagura: una, orrore!, quasi zitella. Ogni giorno, mia nonna prendeva il treno da Bergamo per andare a scuola a Milano. Un giorno, nel suo scompartimento le si siede davanti un uomo, bellissimo anche lui. Mia nonna si innamora istantaneamente. Il giorno dopo, sullo stesso treno, lo cerca e si siede davanti a lui, e così via, per tutti i giorni a venire. Ovviamente i due non potevano parlarsi (guai se ci si rivolgeva a una ragazza, e guai se una ragazza prendeva la parola per prima), così si limitavano a incrociare gli sguardi o a scontrare i piedi per sbaglio.
Un giorno per caso (il caso a volte è davvero gentile!) nello scompartimento entra un conoscente comune e li presenta l’uno all’altra. Dopo pochi giorni, mio nonno è davanti a mio bisnonno: quello che dice, però, non è quello che mia nonna si aspetta: anche se i suoi sentimenti sono onesti, non può sposare mia nonna perché suo padre è mancato durante la guerra e, come figlio maggiore, ha il dovere di mantenere una tribù di quattro fratelli. Detto questo, col cuore affranto, se ne va.
Mia nonna piange per un mese intero e continua a rifiutare proposte di baldanzosi giovanotti. Vuole quell’uomo tenebroso e nessun’altro! Passano i mesi, passa un anno.
Una mattina mia nonna, appena uscita dal Duomo di Milano, cerca una cabina telefonica. Mentre sta per entrare, si scontra con la persona che sta uscendo. È lui! Balbettando, le chiede come sta, e se nel frattempo si è sposata. Lei con uno sguardo d’intesa risponde: «No.»
Il giorno dopo, mio nonno è davanti al mio bisnonno. Lo informa che ha trovato un lavoro come architetto, molto ben remunerato. Quando comunica l’ammontare del suo stipendio, per poco mio bisnonno non sviene, ed esclama: «Ma lei guadagna come un ministro!» In breve, gli concede la mano di sua figlia.
Fu così che i due si sposarono e vissero felici e contenti. Fecero due figli: mio padre e zia Mimma. Zia Mimma sposò zio Alfredo ed ebbero un passero e un gatto. Mio padre sposò mia madre ed ebbero tre bambini, tra i quali me. Mi facevo raccontare sempre questa storia. Non ero mai sazia. Quello che più mi piaceva era lo scontro davanti alla cabina del telefono. E se mia nonna avesse ritardato di cinque minuti? E se mio nonno avesse trovato la linea occupata e fosse andato via due minuti prima? Mi sembrava che la mia vita fosse appesa alle lancette di un orologio dal meccanismo misterioso e perfetto.