È in libreria dallo scorso lunedì, Infanzia di un fotografo, di Massimiliano Tappari. Oltre a essere una novità autunnale, questo libro è il primo volume della collana Topi immaginari, libri che attraverso racconti brevi o brevissimi, ricordi, frammenti, immagini e molto altro, si tuffano in quel pozzo strano che è all'origine di ogni immaginario, quando ogni cosa prende forma, che poi sarebbe l'infanzia, e da lì provano a raccontare le cose e il mondo. In questa intervista a se stesso, Massimiliano vi fornirà le istruzioni per leggere il suo (bellissimo) libro.
[di Massimilano Tappari]
Incontro Massimiliano Tappari in piazza Primo Maggio a Udine per un’insolita passeggiata-intervista sul nuovo libro che ha pubblicato con Topipittori. La leggenda racconta che questa piazza sia nata a seguito dello scavo compiuto dai soldati di Attila per erigere un colle sul quale il re potesse ammirare meglio l'incendio di Aquileia. Ognuno in fondo ha bisogno di costruirsi il suo punto di vista e di qualcosa da mettere a fuoco. Oggi parleremo proprio di questo. Ma prima che possa fargli la prima domanda Massimiliano dirige la mia attenzione su una fontana.
Hai visto quell'anonima fontana zampillante? Nel tardo pomeriggio delle giornate di primavera quando il sole illumina i platani della piazza, la loro ombra va a posarsi proprio sopra il getto dell'acqua dando vita a una fotografia animata. Ho provato a documentare questo effetto con la macchina fotografica ma l'immagine riesce solo a dare una vaga idea del fenomeno ottico. È una specie di apparizione. Per fare un'apparizione bisogna essere in due. Non c'è solo qualcosa che si palesa ma ci deve essere anche qualcuno disponibile a darle credito. Forse era questo che intendeva dire Carmelo Bene quando sosteneva di essere apparso alla Madonna.
Succede in città come in mezzo alla natura. L'altro giorno stavo passeggiando sul letto del fiume Torre pieno di sassi e vuoto di acqua. A un certo punto ho notato una pietra che riproduceva il profilo di una donna. Questo sasso esisteva già per conto suo, ma è rinato sotto nuove spoglie perché l'ho raccolto e rinominato. C'è un'operazione che ognuno di noi fa ogni giorno senza quasi accorgersene: quando finisci di scrivere un documento il computer ti propone di salvarlo con nome. Quel “salva con nome” è alla base di ogni gesto creativo, o anche semplicemente umano, che si rispetti.
Iniziamo dall’inizio. Come mai il libro s’intitola Infanzia di un fotografo?
Di solito il titolo arriva per ultimo, come la cornice che incornicia un quadro. In questo caso l'ho usato fin dalla prima stesura, immaginando che all'editore non sarebbe piaciuto e ne avremmo trovato uno migliore. Fortunatamente non è andata così. Mi piacciono i libri che contengono la parola “infanzia” nel titolo. C'è Infanzia berlinese di Walter Benjamin, Dell'infanzia di Alfred Kolleritsch, Tragedia dell'infanzia di Alberto Savinio, W o il ricordo d'infanzia dove Georges Perec scrive che l'infanzia non è nostalgia, terrore o paradiso perduto ma al contrario orizzonte, punto di partenza, un insieme di coordinate che danno un senso alla vita. Un pensiero che naturalmente sottoscrivo in pieno e che attraversa tutta la narrazione del mio libro.
Nel frattempo ci siamo messi a camminare senza meta e abbiamo raggiunto piazza Libertà dove ci attendono le statue di Ercole e Caco. Ti piace fotografare le statue, vero?
Sì, perché rimangono ferme, non sorridono e la foto non viene mai mossa. Dimostrano una pazienza infinita nei confronti del fotografo. Nel libro ce ne sono diverse, per esempio un gruppo di tre personaggi colti al Prater di Vienna. Le statue hanno il naso rivolto verso il cielo e quando inizia a nevicare e la neve si posa sui loro profili, assumono le fattezze di bambini intenti a godersi lo spettacolo dei primi fiocchi che cadono. Come diceva Ramón Gómez de la Serna: «i migliori cortocircuiti li fa la realtà».
Le statue di Ercole e Caco non le ho mai fotografate ma conservo lo screenshot di un’immagine tratta da Street View dove i solerti tecnici della sicurezza di Google hanno sfocato i volti dei due personaggi per salvaguardare la loro privacy. Mi piacciono queste cose che sembrano implausibili ma sono vere, nel mio libro mi è piaciuto riportarle alla luce. Confesso che quando trovavo una storia interessante e assurda evitavo di approfondire il controllo delle fonti temendo di scoprire che fosse falsa e non poterla usare. Diciamo che per stampare il libro a colori abbiamo deciso di risparmiare sui fact checker.
Mi piace la storia di Piero Tellini che ha trovato il profilo di un capo indiano fotografando i volti dei quattro presidenti scolpiti sul monte Rushmore!
Sì, ho scoperto questo episodio una volta che sono andato a trovare la poetessa Giulia Niccolai. Conservo ancora il tagliando del parchimetro di quel giorno, le tre ore meglio spese della mia vita a contatto con una persona speciale. Nell'ingresso della sua casa campeggiava un poster con la fotografia di Tellini. Sembrava che fosse lì ad aspettarmi. È un'immagine che ha avuto un suo periodo di notorietà ma ora non si vede più in giro. Non si trova neanche su internet. Ma del monte Rushmore ci sono tante interpretazioni. C'è persino chi si è immaginato come potrebbe essere il monumento visto da dietro. La più letterale presa per i fondelli che io conosca.
Come hai scelto le quaranta fotografie contenute nel libro?
In realtà io il libro me lo immaginavo senza fotografie. In passato ho realizzato libri in cui le immagini avevano una certa preponderanza sul testo, in questo caso mi piaceva che le parole rimanessero da sole, visto che ogni paragrafo è come se fosse già di per sé un'istantanea. Poi è capitato che Giovanna Zoboli mi abbia convinto a inserire le foto ma a quel punto ho chiesto a lei di sceglierle. E così ha fatto, dando vita a una narrazione parallela. Si è trattato di un lavoro divertente. Giovanna ha riletto il manoscritto e mi ha inviato le parole chiave che secondo lei potevano suggerire un'immagine e io le ho spedito le fotografie che avevano una relazione con quelle parole. Naturalmente era una relazione che vedevo solo io e disorientante rispetto al punto di partenza. Era come una partita di ping pong ma ogni volta al giocatore arrivava una pallina di diverso peso, forma, colore.
Dove sono state scattate le fotografie?
Del tutto casualmente molte fotografie selezionate sono state scattate a Milano. C'è l'insegna Cielo, così poetica e leggiadra. In realtà era l'insegna di un cinema pornografico che si trovava in viale Premuda, con un ingresso in via Melloni per chi voleva entrare senza dare nell'occhio. Sul soffitto del cinema c'erano delle stelle e fuori una vetrina di scarpe ortopediche che garantivano di elevare l'altezza di 5 cm. Immagino che fossero questi i motivi per cui il cinema si chiamava Cielo. La sveglia è quella che Bruno Munari utilizzava nella sua casa di Cardina. Era la sveglia di sua mamma Pia. Non ha mai segnato l'ora giusta. Munari la caricava solo per il gusto del gioco e per passione verso gli ingranaggi. Tra le guglie del Duomo di Milano c'è la statua che saluta quella di San Michele Arcangelo sul campanile di Santa Maria in Corte. Anche il cartello che vieta di fare fotografie con il cavalletto è sulla terrazza del Duomo, vicino alla statua del pugile Primo Carnera. Mi piace quando sacro e profano convivono felicemente, ho cercato di mantenere questo dialogo anche nel libro. L'angelo aggrappato all'antenna è in via Conservatorio. Il muro che sembra una bottiglia era in via Solferino, la ferramenta con le lettere fulminate vicino all'Università Statale. Molti di questi soggetti non ci sono più ma le due sedie bianche che chiudono il libro si trovano da anni in pianta stabile nell'orto botanico di Brera.
Arriviamo a piazza San Giacomo, anche qui c'è una fontana, ma l'aspetto è tutt'altro che anonimo. L'ha disegnata Giovanni da Udine il cui vero nome era Giovanni Ricamatore, un nome che gli calzava a pennello. Di lui si diceva che fosse sghiribizzatore e contraffattore. Ma quale artista non lo è? Superata la piazza raggiungiamo Corte Giacomelli, un luogo fuori dal tempo, dove Massimiliano vuole a tutti i costi mostrarmi un citofono.
Eccolo qui! Quando pensiamo all'arte ci vengono subito in mente quadri e sculture eppure il mondo è pieno di questi meravigliosi oggetti di arte applicata frutto di designer anonimi di cui non sappiamo niente. In un primo tempo ero tentato di proporre all’editore la foto come copertina, perché quell'assenza di nomi accanto ai pulsanti mi faceva pensare ai problemi d’identità che caratterizzano il protagonista del libro. Ma alla fine sono contento della copertina con il disegno di Guido Scarabottolo e l'incipit in bella mostra.
Il libro si presenta come una sequenza di brevi paragrafi. Cosa ti ha spinto a realizzarlo in questo modo?
Forse dipende da come l’ho scritto. Ho digitato ogni singolo paragrafo sulla tastiera del telefono durante le mie camminate quotidiane. Lettera per lettera, con un dito solo. Del resto anche le fotografie si scattano con un dito solo. Quando il paragrafo prendeva forma me lo spedivo via sms per conservarlo. Dopo qualche istante ricevevo la notifica sul telefono e così controllavo chi mi avesse scritto. A quel punto mi ero già dimenticato che me l'ero mandato da solo e lo leggevo come se l'avesse scritto qualcun altro. Lo rileggevo e me lo rimandavo rivisto e corretto. È una tecnica che vale anche per chi non deve scrivere un libro. Innalza il livello di dopamina. Il risvolto negativo è che in quei tre mesi in cui sono stato occupato a scrivere il libro ho sforato regolarmente il plafond mensile di messaggi della mia compagnia telefonica. I messaggi mescolano lingua scritta e lingua parlata. Mi interessa esplorare questa natura ibrida, per trovare la mia voce.
Come hai scelto quali storie mettere nel libro? C'è qualcosa che è rimasto fuori?
Visto e considerato il mio stile divagante e digressivo ho cercato di costruire un sentiero principale sul quale si succedono i fatti, con qualche sentiero laterale in cui perdermi. Ho eliminato tutte le storie, magari anche belle, che però mi portavano troppo lontano dalla strada maestra e che avrebbero fatto perdere la bussola al lettore. C'è una storia che mi è stata raccontata da una cara amica mentre il libro era in stampa che avrei inserito sicuramente. La vuoi sentire?
Moshé Pinchas Feldenkrais stava viaggiando su un treno e davanti a lui era seduto un tale con il libro aperto davanti. Il tale leggeva ma teneva tra le mani il libro al contrario come in una comica di Charlie Chaplin. A un certo punto Feldenkrais, che era una persona curiosa, si è permesso di chiedergli cosa stesse facendo e quel signore gli ha risposto che stava leggendo. Poi comprendendo il motivo del suo sconcerto ha spiegato che quando era bambino arrivava sempre nel suo villaggio un lettore. Tutti i bambini si stringevano in cerchio intorno a lui per ascoltare. E a furia di guardare il libro da un verso e poi dall'altro aveva imparato a leggere in tutte le direzioni. Oggi un bambino che legge al contrario verrebbe subito segnalato. Feldenkrais usò questa storia per avvalorare le sue tesi. Era un tipo eccezionale. Ho letto che il suo ultimo libro si sarebbe dovuto intitolare Il vostro scheletro sopravvivrà alla vostra anima. Non è un titolo stupendo?
A proposito di scheletri, eccoci alle porte del Battistero dove c’è l'arca marmorea del Beato Bertrando. Un sarcofago che Bertrando aveva commissionato per i santi Ermacora e Fortunato ma che - ironia della sorte - fu poi utilizzato per accogliere le sue spoglie. Siccome però il sarcofago era troppo piccolo gli furono tagliati i piedi e uno di questi fu spedito in dono alla regina Elisabetta d'Ungheria.
Non riesco proprio a immaginare la faccia che ha fatto quando ha scartato il pacchetto. In effetti i piedi sono un bel regalo. Servono a fare tutto, anche a scrivere e fotografare. Camminando a piedi hai modo di pensare e di osservare, di prendere le misure del mondo e le distanze da te stesso. I marciapiedi e i sentieri sono le mie scrivanie preferite.
La nostra passeggiata volge al termine. Siamo di nuovo in piazza Primo Maggio. Raggiungiamo l’auto parcheggiata davanti a un cartello che dice “attenzione caduta castagne nel periodo autunnale”. I cartelli sono uno dei tuoi soggetti preferiti. Cosa ti attira?
Adoro il loro umorismo involontario. E mi piace che un segno ridotto alla forma essenziale e studiato per comunicare a tutti un univoco messaggio possa essere frainteso e deriso con una semplice didascalia fuorviante. A volte i cartelli rivelano anche un lato poetico. Per esempio John Berger raccontava che in Francia di fronte ai passaggi a livello c’è un cartello che avverte: “un treno può nasconderne un altro”. Una splendida via di mezzo tra un aforisma e un vaticinio.
È il momento dei saluti e dei ringraziamenti finali. Nel tuo libro non ce n'è traccia, ma avendone l'occasione vorresti ringraziare qualcuno?
I ringraziamenti sono un genere letterario a sé stante che seguo ma non pratico. Troppo è il timore di dimenticare qualcuno o qualcosa. Sì, perché per come sono fatto io, mi sentirei in dovere di ringraziare, oltre alle persone, anche gli oggetti e gli elementi naturali che mi hanno aiutato a fare il libro. Metti che ringrazi il cielo stellato ma dimentichi le due sedie dell'orto botanico... Certo che loro non si offenderebbero ma io ne sarei mortificato. Così non ringrazio nessuno per ringraziare tutto. Se trovassi un editore compiacente farei un libro solo di ringraziamenti. Non so se ne esistano. Forse Il cantico delle creature? In fondo le foto che faccio sono già di per sé dei ringraziamenti, degli ex-voto. Trattandosi di fotografie potremmo chiamarli ex-foto. In un ex-voto fai un disegno per ringraziare la Madonna che ti ha salvato da un incidente o da una malattia. Ecco, io faccio degli ex-voto anche per gli episodi in cui non mi è successo niente. La vita ci salva in ogni momento. Quando la mattina giro la chiave nel quadro elettrico dell'auto e l'auto si mette in moto, a me viene sempre da gridare al miracolo. C’è una bellissima poesia di Fausto Melotti che racconta questa sensazione. Quando torno a casa te la mando con un sms. Dovrei avere ancora credito. Se ti piace puoi metterla alla fine dell'intervista.
I miracoli
avvengono a tutte le ore del giorno.
Con pace e calma
oppure in gran subbuglio
il sole oscura e la gente balbetta.
Io, per mio conto,
ho visto nascere una rosa.