Prima di iniziare la lettura di questo bellissimo post di Beatrice Alemagna (scritto per Picturebookmakers e qui tradotto), prendete nota che l'8 di ottobre, dalle ore 15, Beatrice sarà a Milano, presso la Libreria Spazio BK, in via Lambertenghi 20: un intero pomeriggio a disposizione del suo pubblico, per disegni, dediche, saluti e chiacchiere. Non mancate!
[di Beatrice Alemagna]
Faccio libri da più di quindici anni e tutte le volte è come se fosse la prima.
Il meraviglioso Cicciapelliccia (in francese Le merveilleux Dodu-velu-petit) mi ha richiesto sei anni di ripensamenti e due anni di lavoro pieno.
Fin da piccola , sono rimasta profondamente affascinata dall’episodio in cui Pippi Calzelunghe decide di cercare lo Spunk. Lo Spunk è qualcosa che non esiste. Ho sempre portato dentro di me quest’idea che in fondo si finisce sempre per trovare le cose che non esistono. E mi sono convinta che questo richiede a priori una lunga ricerca nei negozi.
In parte, questo libro è un omaggio a Pippi e al fascino che provavo da piccola nell'entrare in un negozio pieno di cose da scoprire.
La cosa più difficile, è stata ottenere una forma di leggerezza che, fin dall’inizio, desideravo di comunicare. Da qualche anno, prendo la leggerezza molto sul serio e non più alla leggera. Per me la leggerezza è diventata il luogo dove si condensano le cose gravi. Riflettendo, ho capito che la leggerezza forse sfugge proprio per la sua sottigliezza: non è banalità, può essere invece, esattamente, il punto di tensione massima della gravità. Nella scoperta leggera di qualcosa di unico (come l’avvenura che vive Eddie), è condensata l’idea dell’infanzia che volevo comunicare in questo libro. L’infanzia come momento di gloria.
Tutto il libro è nato dal personaggio del dodu. Un giorno, dal niente, ho disegnato questa specie di cagnetto elettrizzato e subito ho sentito che dovevo raccontare la sua storia.
Spesso sono i personaggi a chiamarci e per me è quasi sempre così. All’inizio il libro doveva essere destinato al pubblico giapponese. Avevo iniziato i primissimi disegni 6-7 anni fa. Ma la storia era molto diversa. C’erano già il personaggio e la ricerca nei negozi, ma la bambina non aveva un carattere e non esistevano le peripezie che vive oggi Eddie.
Ho passato anni a fotografare le vetrine più belle dei negozi, in giro per i miei viaggi.
Questo testo e tutta questa ricerca, sono rimasti nei miei cassetti durante quasi sei anni: il tempo necessario a maturarlo e farlo vivere. Ho scritto e riscritto la storia decine di volte, chiedendomi realmente come arrivare a raccontare quello che volevo tramite un ‘avventura. Un’avventura semplice e classica, in senso letterario. Non avevo mai scritto una vera avventura e mi è costato molta fatica.
In questo principalmente, il Merveilleux dodu-velu-petit è molto nuovo per me. Però all’interno si trovano i punti cardinali di quasi tutti i miei libri: il viaggio, la partenza, la ricerca di qualcosa, l’accettare se stessi. Penso di voler raccontare in fondo sempre la stessa storia: quella di un essere fragile che alla fine scopre dentro di sé una grande forza.
Anche i disegni mi hanno richiesto decine e decine di prove. Io cerco sempre qualcosa quando disegno. È quel qualcosa che mi dice: si, ora sei nel giusto e non può essere in un altro modo.
Per tentare di raccontare questo con un «linguaggio leggero» volevo che alcuni fondamentali elementi di fragilità entrassero in gioco: i bambini sono fragili per eccellenza e il dodu è un esssere abbandonato, dall’aria indifesa. Volevo parlare di cura: ogni forma di attenzione, di ricerca, di amore (la bambina amando sua madre, scopre di amare anche se stessa e i suoi amici di tutti i giorni. Amici che, aiutandola, consigliandola, offrono anch’essi cura e amore).
Volevo anche comunicare leggerezza in senso visivo: la neve, gli uccelli, il vapore del tè, l’acqua che zampilla, i capelli scompigliati, le corse di Eddie.
Volevo che tutta questa leggerezza finisse con il raccontare quel qualcosa di immenso e fondamentale che è il potere della fantasia. E il personaggio del dodu, col suo colore sgargiante e la sua faccia improbabile, simboleggia proprio questo potere.
Sono cresciuta in Italia, con la tradizione storica di Gianni Rodari, Luigi Malerba, Collodi, De Amicis. Il bambino è sempre stato, nella mia infanzia, un essere legato e condizionato dalla società reale, dai suoi problemi. E così sono tutti i personaggi dei miei primi libri: esseri in difficoltà.
Conoscendo e amando culture di altri paesi (come il non sense inglese, l’animismo giapponese, il surrealismo della cultura tedesca o la magia delle fiabe russe o scandinave), cerco sempre di esplorare nuovi mondi, così come nuovi linguaggi visivi.
Mi è totalmente impossibile riconoscermi in qualcosa di preciso, voglio esplorare, cambiare, evolvere, a rischio, anche, di deludere i miei lettori.
I miei libri emergono sempre da milioni di dubbi, ripensamenti, rifacimenti. Niente mi è chiaro, mentre faccio un libro, ma tutto avviene naturalmente nella mia testa. La cosa più faticosa è come arrivare a ottenerlo.
Vorrei poter dire che faccio libri così come guardo o penso. Ma questo non è vero. Mentre disegnare mi è assolutamente naturale, al contrario creare un libro, con un ritmo narrativo da rispettare, mi risulta laborioso e, alle volte, doloroso. Ma alla fine del libro, la sofferenza lascia sempre il posto a una immensa felicità. Adoro i miscugli, le cose ibride. Adoro non mettere muri né barriere: non preoccuparmi di rispettare limiti di età e di tempo, canoni estetici precisi, convenzioni prestabilite.
Tutto questo, dando a me stessa un’enorme fiducia. Lavoro sempre con qualcosa di interno e di forte che si esprime con molta chiarezza e intensità.
In ultimo, adoro i paradossi: i miei libri hanno spesso grandi formati (non amo sentirmi costretta dalla pagina), ma spesso parlano di piccole cose. Adoro scoprire queste cose minuscole nella natura, nelle facce della gente, nelle emozioni che mi accompagnano.
Le cose piccole, così come quelle fragili, sono quelle che mi emozionano di più.