La capacità di vedere l'infanzia dipende dalla capacità di leggere la propria, oltre che di guardare l'altrui. Torna Rita Gamberini con un nuovo, piccolo racconto autobiografico dedicato al Carnevale.
[di Rita Gamberini]
Una scorpacciata di frittelle di farina di castagne, mi ha costretto per la prima volta in ospedale.
A carnevale erano venuti a trovarci per alcuni giorni dei conoscenti che durante l’estate villeggiavano a casa nostra. Uno di loro si chiamava Renato, soprannominato Renato di Poggio Renatico (abitava nel ferrarese e d’estate si godeva il fresco salutare dell’Appennino) e si era innamorato della zia Mariola che viveva con noi. L’altro era suo nipote Maurizio, noi lo chiamavamo Maurizio di Ferrara, un bambino di nove anni mio coetaneo e io mi ero un po’ innamorata di lui.
La mobilitazione in famiglia per le visite extra si traduceva sempre in un piacevole fermento dovuto all’interruzione del solito trantran e all’atteggiamento di premurosa attenzione verso gli ospiti da parte di tutta la famiglia che per noi bambini significava più indulgenza e maggiore libertà.
Erano trascorsi alcuni giorni grassi grassi, come il martedì e il giovedì, in compagnia dei nostri ospiti ci eravamo spensierati e divertiti e le frittelle di farina di castagne erano la mia golosità. Una golosità che poco tempo prima mi era costata una sonora sgridata, quando di nascosto mi ero intrufolata con un cucchiaio in un sacchetto che invece di contenere farina di castagne era pieno di gesso e io ero corsa in cucina piangendo con la bocca ingessata. Come a volte accadeva invece di essere consolata “prendevo su”.
Il giorno in cui, dopo carnevale, si doveva tornare a scuola, mi ero svegliata con un gran mal di pancia, avevo mangiato troppe frittelle e anche in quell’occasione mi sentii rimproverare. Dicevo la verità e nessuno mi credeva, pensavano che avessi escogitato una scusa per non tornare a scuola. Le mie lamentele continuavano e il malessere iniziava a diventare credibile, è così che sono finita all’ospedale per la prima volta con un attacco di appendicite. Sono stata ricoverata nove giorni, anestesia, operazione, punti, drenaggio, rimozione punti e dimissioni.
Conoscevo bene l’ospedale perché ci lavorava mia madre come impiegata, andavo a trovarla sempre volentieri, potevo fare tanti giri in ascensore salendo e scendendo per i vari piani fino ai lugubri sotterranei, laggiù mi aggiravo con fare circospetto in un lungo corridoio costellato di porte dove erano affissi minacciosi cartelli con teschi e segnali di divieto. Sapevo che in quelle stanze c’era in ballo qualcosa di pericoloso, i famigerati raggi x, trattenevo il respiro temendo di essere beccata e, dopo una rapida perlustrazione, mi affrettavo a risalire in ascensore.
Prima di allora non ero mai entrata in ospedale come paziente, ma anche in quell’occasione non mancai di vivere qualche avventura. Ricordo molto bene che nel lento risveglio che segue l’anestesia sentivo le voci di mia zia Mariola, che mi faceva assistenza, e di un medico che cercava di convincerla a uscire con lui... questa singolare conversazione mi spinse a fingere di essere ancora addormentata, un po’ per assistere all’epilogo del corteggiamento e un po’ per una incolpevole vergogna. Morale, la zia rifilò all’inopportuno pretendente un bel due di picche, non era proprio il suo tipo, lei sì invece era un vero tipetto, spirito indipendente e alla moda.
Durante quei nove giorni di degenza non sono certo stata con le mani in mano e mi sono data subito da fare; odiavo lo stracchino e il prosciutto cotto, ma non potendo lagnarmi di alcunché visto che mia madre era conosciuta da tutti e non era il caso di farle fare brutte figure, quando ero sola mi alzavo, aprivo la finestra e gettavo tutto.
Ma il mio bel da fare ce l’ho avuto quando ho scoperto che nella camera vicina era ricoverato un ragazzo che conoscevo, biondo e anche bellino. Per qualche oscura ragione o semplicemente per l’irresistibile impulso a essere molesta, le visite della sua fidanzata mi infastidivano parecchio, così un giorno sono entrata in azione, ho preparato un foglio con scritto “divieto assoluto di visite” e l’ho appiccicato alla porta della sua stanza. Di tanto in tanto uscivo a controllare l’efficacia della mia azione di disturbo, che oggi si chiamerebbe boycott girlfriend, per poi constatare che cotanta sfrontatezza non produceva i risultati sperati.
Chissà cosa pensavo di fare, cosa mi passava per la testa, e ora che questo ricordo mi appare così vivido mi sembra quasi impossibile di essere stata io la protagonista di questa bislacca avventura e sospetto pure di essermi inventata tutto.
L’avventura ospedaliera si è conclusa il giorno che mi hanno tolto i punti. Era venuta a trovarmi mia sorella che, assistendo alla manovra, si è molto impressionata e ha pensato bene di cadere lunga e distesa, uno svenimento vero e proprio, così che medico e infermiera mi hanno abbandonato al mio destino e si sono prodigati a soccorrere lei.
Un episodio analogo è poi capitato in occasione di un’altra emergenza ospedaliera. Eravamo andate a messa nella chiesa dei Padri Cappuccini, ogni tanto era d’obbligo confessarsi e così ho fatto anche quella volta. Mentre stavo elencando diligentemente i miei peccati del tutto veniali, all’improvviso ha iniziato a sanguinarmi il naso, sono uscita dal confessionale e, siccome il sangue continuava a scorrere, mia madre mi ha portato in ospedale che era proprio di fianco alla chiesa. Mi hanno messo un tampone con una garza lunga un chilometro e siamo tornate a casa, dove dopo qualche ora avremmo dovuto rimuoverla. Verso sera abbiamo deciso di procedere, tutta la famiglia mi stava intorno per assistere all’impresa che si stava rivelando più difficoltosa del previsto, la garza infatti si era tutta seccata e incrostata del sangue rappreso e per quanto tentassimo di estrarla piano piano io vedevo le stelle e… intanto la mia impressionabile sorella ha pensato bene di svenire. Nessuno però se ne è accorto fino a quando mia nonna, che stava sopraggiungendo con un pentolino di acqua calda nel tentativo di ammorbidire la garza con il vapore, non ha inciampato nel suo corpo inerte, scivolato a terra silenziosamente. Di nuovo un gran trambusto. A chi prestare soccorso? A me piangente con un budello di garza schifosa pendente dal naso o a mia sorella che giaceva esangue sul pavimento?
Paura dell’ospedale? Se ho avuto paura non lo ricordo.