(Non) c’erano una volta le stellette
[di Selene Ballerini, bibliotecaria e collaboratrice del trimestrale LiBeR dal numero 0]
Leggiamo la rivista LiBeR da quando abbiamo cominciato a pensare ai Topipittori. L’abbiamo sempre letta con attenzione, ma dobbiamo confessare che alle Schede-novità abbiamo sempre dedicato pochissimo tempo: quello sufficiente a stabilire se ci fossero nostri titoli e quante fossero le stellette che erano state loro attribuite. Solo recentemente, e del tutto per caso, abbiamo dedicato del tempo a una lettura più approfondita di questo allegato della rivista e, da questa lettura sono scaturite alcune domande, che abbiamo posto a Ilaria Tagliaferri. Dalla discussione che ne è seguita, e che ha coinvolto anche una catalogatrice di grande esperienza, è scaturito questo articolo: un tentativo di far capire le complessità e i problemi legati alla catalogazione e alla classificazione delle novità editoriali.
Il numero 0 e i primi numeri della rivista LiBeR.
È possibile leggere senza valutare? Non è nelle corde umane. Può succedere solo se si scorrono le pagine distrattamente, altrimenti la testa, la pancia e il cuore reagiscono in un modo o nell’altro alle parole e alle immagini.
Tuttavia, chi, dopo aver letto, intende elaborare ed esternare il proprio pensiero deve fare un passo in più rispetto a una semplice reazione emotiva. E chi si propone come esperto o esperta, e non solo lettrice o lettore amatoriale, di passi ne deve fare due, perché deve stare attento a non far pesare troppo il proprio gusto individuale - ancorché legittimo, beninteso – rispetto a una critica che mira a essere la più “oggettiva” e “scientifica” possibile. Due ulteriori passi toccano infine a coloro che attuano questo lavoro di analisi nell’ambito della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. Anzitutto perché devono confrontarsi con un gap generazionale, dal momento che stanno approcciando da persone adulte un prodotto rivolto a chi adulto non è. E poi perché, diversamente da quanto accade per la letteratura indirizzata al mondo adulto, quella per bambine, bambini, ragazzi e ragazze è fortemente diversificata in base all’età: chi giudica deve quindi considerare sia se il libro è plausibilmente adatto al target a cui si rivolge, sia se è rispettoso del proprio pubblico. E con rispettoso intendo a due contraddittorie necessità: che il testo non sia troppo criptico, ostico, difficile, oscuro, ma allo stesso tempo non sia banalizzante e privo di quella varietà linguistica in grado di arricchire il vocabolario di lettori e lettrici in crescita.
Tutto ciò - per non farci mancare nulla - va messo in relazione con uno scabroso interrogativo che, silenzioso convitato di pietra, ci pungola: ma dove va a finire la libertà di leggere se qualcuno con il suo alto parere “mira” a influenzarci, o se ci fa sentire inadeguati qualora un libro platealmente osannato non ci piaccia? E poi diciamocelo in tutta franchezza: la fallibilità e la relatività di una valutazione sono fattori inevitabili, è lampante a chiunque!
Fu proprio questo convitato, occulto ma non troppo, che nel 1988, anno zero della rivista, convinse noi di LiBeR (Domenico Bartolini, Antonella Lamberti, Riccardo Pontegobbi e io, squadra a cui di lì a poco si sarebbe aggiunto Claudio Anasarchi) a presentare le nostre schede-novità tramite una formula che fosse esclusivamente descrittiva, ovvero senza interferenze valutative, appunto nel timore che queste potessero venir percepite come suggestioni intrusive e condizionanti. Mal ce ne incolse, però, perché a un certo punto del percorso, una decina d’anni dopo, dovemmo ammettere che la nostra imparzialità stava creando più problemi che vantaggi: chi ci seguiva e si fidava di noi, infatti, iniziò pian piano a protestare perché comprava talvolta prodotti che dagli abstract delle nostre schede potevano sembrare piacevoli e interessanti e che invece, libro alla mano, si rivelavano deludenti, banali o perfino ciarpame della peggior specie!
Va, infatti, precisato che le nostre schede-novità erano e sono esaustive dell’intero panorama editoriale di settore - essendo la biblioteca a noi correlata (la “Gianni Rodari”, oggi “Tiziano Terzani”, di Campi Bisenzio) anche un centro di documentazione per la letteratura infantile e giovanile - e quindi abbiamo da sempre catalogato pure i più intollerabili prodotti di scarto dell’editoria di settore.
La Biblioteca di Campi Bisenzio allora intitolata a Gianni Rodari.
Fu così che, spinti a tirar fuori l’ardimentoso coraggio del giudizio, finimmo per dar vita - da LiBeR n. 42 (aprile-giugno 1999) - alle stellette: segnali di qualità che da quel momento hanno accompagnato ogni scheda-novità del fascicolo, allora inserito nella rivista e oggi allegato. Una modalità forse un po’ approssimativa, è vero, ma che per la sua diretta chiarezza rispose a un’esigenza sentita da più parti, se non altro per la costruzione di bibliografie su basi accreditabili dalla nostra ormai già lunga e nota esperienza sul campo.
Fu un passo enorme e insidioso. E ne eravamo perfettamente consci. Pur essendo solo orientative, le stellette ci obbligavano infatti a classificare ciascun libro del comparto infantile e giovanile come “di scarso interesse” (1 stelletta) o “meritevole di attenzione” (2 stellette) o “interessante” (3 stellette) o “da non perdere” (4 stellette), ben consapevoli che ciò avrebbe avuto conseguenze concrete, diventando una sorta di guida all’acquisto “sicuro” per genitori, insegnanti, amanti della lettura, librai e libraie, bibliotecarie e bibliotecari che stavano facendo riferimento a noi come filtro affidabile.
Da LiBeR 90 (aprile-giugno 2011) i gruppi di stellette da quattro son poi diventati cinque.
All’epoca, questa scelta di un’ulteriore classe fu dettata dalla constatazione che, essendo i libri pregevoli una minoranza, stava finendo nel gruppo delle 2 stellette anche una quantità di libri mediocri che, pur non essendo “meritevoli di attenzione”, inserivamo in una categoria più elevata per non includerli in quella dei libri “di scarso interesse”, vale a dire nel deposito delle cianfrusaglie editoriali.
Va tenuto conto - per comprendere meglio la situazione di allora - che la crescente affermazione della letteratura infantile e giovanile nel mercato stava costringendo un po’ tutti gli editori a emanciparsi, almeno nella forma, per cui stavano crescendo di numero i prodotti di accettabile artigianato mentre erano sempre meno quelli ignobilmente pervicaci nel proporre prodotti insulsi, inadeguati, poco curati, rimpinzati di refusi, dai caratteri scarsamente leggibili, con illustrazioni piatte e viete o talora dai contenuti inaccettabili, come gravi errori scientifici, esagerato sessismo linguistico, malsani stereotipi di genere o quant’altro.
Ecco dunque il prospetto che alla fine sortì da questa variazione e che è ancora in uso nei nostri fascicoli di schede-novità:
* = di nessun interesse;
** = di scarso interesse;
*** = meritevole di attenzione;
**** = molto interessante;
***** = da non perdere
Ma torniamo un momento indietro nel tempo. Quando nel 2005, su mandato della direzione di LiBeR, concepii e realizzai l’impianto di Almeno questi! (la Bibliografia nazionale annuale dei migliori libri per l’infanzia e l’adolescenza in commercio in Italia, oggi alla 14a edizione e scaricabile dal sito Liberweb), riassunsi i principali criteri di valutazione, tuttora adottati, in tre voci, di cui due più circoscrivibili - “pregnanza e spessore dei contenuti”, “opportunità e vantaggi dell’utilizzo” - e una, “accreditata qualità dei testi e/o delle illustrazioni”, più generica e controversa.
“Accreditata”, nel sintagma nominale di quest’ultima, segnala che ogni volta che ho condotto le scelte per la Bibliografia mi sono valsa non solo del nostro specifico data base LiBeR, ma anche di altrui valide analisi, come quella - in primis ̶ della benemerita Libreria dei ragazzi milanese (oggi Libreria dei ragazzi e delle ragazze) fondata dai compianti Roberto Denti e Gianna Vitali (la mia mentore per Almeno questi!). Ma cosa deve intendersi per “qualità”? Cos’ha consentito a esperti ed esperte, compreso il nostro staff, di estrarre dal fiume in piena della sempre più vasta produzione di letteratura giovanile alcune perle rinvenute tra la moltitudine di ciottoli? La risposta è contenuta in un unico termine: esperienza. Come grazie all’esperienza gli archeologi e le archeologhe decretano quali reperti arcaici sono considerabili tali, così chi legge e ancora legge e poi legge ancora, e compara i libri fra loro, e gestisce con misura le papille gustative soggettive, e si confronta con coloro che fanno altrettanto, e osserva le reazioni di giovanissimi lettori e giovanissime lettrici, ha maggiori possibilità di emettere un plausibile giudizio critico nell’ambito che andiamo trattando.
Un conto è poi analizzare la divulgazione, un conto avere a che fare con i libri gioco o con gli albi illustrati e i silent book e un altro conto ancora accostarsi in modo presumibilmente corretto alla fiction, che peraltro è divisa in numerosi generi (fiabe, leggende, storie fantastiche, fantasy, vicende dell’età evolutiva, romanzi storici, giallo, fantascienza, horror…) e nei loro sotto-filoni (come - per dirne uno - lo steampunk, che si getta nell’affluente fantascientifico).
Limitiamoci tuttavia, per avviarci verso la conclusione di questa mia riflessione, alla narrativa. Se un romanzo è scritto sintatticamente bene qual è il discrimine per cui lo si ritiene valevole e consigliabile rispetto ad altri che, pur scritti altrettanto correttamente, ci lasciano indifferenti o addirittura infastiditi?
Partiamo dal contenuto: se non è significativo, pregnante, intrigante e coinvolgente, difficilmente catturerà l’attenzione di chi legge. Esiste, inoltre, una sorta di patto culturale che porta la sensibilità odierna a rifuggire da elementi quali la retorica, le lunghissime descrizioni, lo spirito patriottico, i “valori” bellici o venatori - ed è un aspetto che non è possibile trascurare.
Alla conformità rispetto al target d’età e alle eventuali illustrazioni ho accennato al volo, ma qui preferirei soffermarmi sullo stile narrativo. Il quale implica variegate questioni: la scrittura è incisiva? ha ritmo? la trama è coerente? le situazioni proposte sono stereotipate? i personaggi sono ben caratterizzati? hanno spessore? i dialoghi sono fluidi e verosimili oppure forzati e letterari? la vicenda è inquinata da finalità didattiche o moralistiche? Ma soprattutto: l’opera è scaturita da un’autentica urgenza creativa o è frutto di un’astuta (o talora inconsapevole) adesione al modello letterario che in quel momento è dominante nel gradimento e nelle vendite?
A quest’ultima, fondamentale domanda, a mio parere la più rilevante, si può rispondere solo grazie a una lettura ampia e comparativa che permetta una valutazione non superficiale. In altre parole: non si può rilevare l’originalità di una qualunque opera se le nostre letture non sono abbastanza ampie e articolate da consentire un largo confronto. E ciò vale, a volte, anche per la trama. Difficile fare esempi, perché i casi sono molteplici e diversificati, ma ne ripesco dalla memoria due, semplici semplici, tanto per dare un’idea.
Ricordo che il primo volume dei Piccoli Brividi di R. L. Stine ci entusiasmò e lo giudicammo favorevolmente, ma quando l’autore ripropose nella medesima serie altri libri - e poi numerosissimi altri - il giudizio si negativizzò drasticamente, perché era evidente che l’autore stava sfruttando l’onda del proprio successo per riproporre ininterrottamente l’identico modello seriale.
Ed ecco di seguito cosa scrissi in un articolo su LiBeR 61 (gennaio-marzo 2004), Repetita non iuvant, nella mia rubrica A carte scoperte, a proposito di due libri entrambi letterariamente buoni, ma quasi identici nella trama.
Esistono perplessità letterarie su cui è interessante porre attenzione, come incongruenze, insulsaggini, finali monchi, trame implausibili, distorsioni dolcificanti di fiabe, la fiabificazione di Pinocchio, richiami smaccati a Harry Potter e, non ultima, quella che potremmo definire “trama calcante”, quando cioè si scopre che una storia, magari bella, magari scritta più che bene, è stata doppiata in gran parte da un’altra.
Come ci si comporta nel giudizio in questi casi?
La questione è complessa e da dibattere, ma intanto possiamo proporre un esempio.
La morte arriva per posta di Christopher Pike del 1986 (Mondadori, 1998) racconta di sette diciottenni che l’estate precedente hanno avuto un incidente stradale di cui hanno taciuto a causa delle loro responsabilità e che ora ricevono messaggi anonimi da parte di qualcuno che sa. Ma la vicenda non è un po’ troppo simile al celebre So cosa hai fatto di Lois Duncan del 1973 (Sperling & Kupfer, 1998), dove si parla appunto di quattro diciottenni che l’estate precedente hanno avuto un incidente stradale di cui hanno taciuto a causa delle loro responsabilità e che ora ricevono messaggi anonimi da parte di qualcuno che sa?
E qui come altrove è scontato che una “trama calcante” la si individua solo se si è a conoscenza dell’originale, ovvero ̶ tanto per cambiare ̶ se si è letto e letto e letto…
La scabrosità dell’operazione valutativa ̶ che investe tutti questi risvolti complicati, più altri che di certo non mi sono venuti in mente ̶ si allenta, fin quasi talora a decadere, in presenza dei classici, donando così un po’ di sollievo al nostro animo snervato. Come ho scritto più volte, e in particolare nella premessa alla loro specifica sezione in Almeno questi!, i classici sono, infatti, fuoriclasse ingiudicabili in virtù della loro estesa e accreditata tradizione letteraria, per cui quando vengono ripubblicati la valutazione si basa soltanto sulla bontà o meno dell’edizione. Chiedendoci: si tratta di una riproposta integrale oppure di una riduzione, di una riscrittura? si rilevano omissioni di qualche altro tipo? la traduzione è valida? e le illustrazioni? i caratteri sono ben leggibili? il layout è curato? ci sono refusi? [Il refuso sembrerebbe un peccato veniale, ma la sua presenza interrompe la nostra full immersion, ricordandoci a bruciapelo che stiamo vivendo la storia con l’immaginazione e non esperendola in carne e ossa... E questo è un insopportabile reato! NdA]
Ed è su questa più tranquilla e tranquillizzante riva che si conclude la storia delle nostre stellette, le quali mentre stiamo leggendo e analizzando un libro ci stanno a guardare, attendendo trepide una risposta al loro fatidico quesito: in quante saremo chiamate stavolta a partecipare?
I primi e gli ultimi numeri della rivista LiBeR.