Tuttestorie dall'inizio alla fine

[di Ignazio Fulghesu]

 

Anche quest’anno, come ogni inizio di ottobre a partire dal 2006, il festival della letteratura per ragazzi Tuttestorie celebra i propri riti e miti. Con questa che sta per cominciare, sono ben 19 le edizioni che si sono tenute, e 19 sono anche i manifesti che, come grafico e illustratore, ho avuto l’opportunità e il privilegio di progettare, per quello che è uno degli appuntamenti di riferimento per l’editoria per ragazzi, per le scuole, le biblioteche e per i lettori di tutte le età. Il festival si svolge ogni anno a Cagliari, ma nel corso degli anni si è esteso anche in molti altri comuni della Sardegna, dove, nelle scuole, nelle biblioteche e in altri spazi, si possonono incontrare alcuni degli ospiti e degli eventi presenti nella casa base. Per chi volesse avere un’idea dell’aria che si respira in quei giorni rimando a questo link che sintetizza alcuni dei bei momenti vissuti lo scorso anno.

Progettare il manifesto (intendo e sintetizzo per manifesto quella che è l’immagine complessiva dell’evento, da declinare, come vedremo, in molti altri artefatti visivi, tra cui anche il classico poster 70x100) del festival significa comunicare il festival, cioè far arrivare a un eterogeneo gruppo di persone un’idea di cosa il festival sia, dando al contempo risposte riguardo al dove al quando e al come, cioè tutte quelle informazioni assolutamente necessarie per poter fruire della manifestazione e che diventano quindi elementi visivi che entrano a far parte della composizione complessiva dell’immagine. Il “cosa” è ovviamente la parte più importante da cui dipende la caratterizzazione di tutto il resto, è l’identità stessa del festival. Elemento principale e determinante di questa identità è soprattutto il tema che ogni anno viene deciso, molti mesi prima che il festival abbia luogo. Costruire l’identità significa creare un sistema visivo che sia rappresentativo ma anche evocativo, significa cioè creare un immaginario, una narrazione, che serva a darne un’idea precisa e a farlo riconoscere attraverso degli artefatti che saranno percepiti con gli occhi e con tutti gli altri sensi. Questo tipo di narrazione, nel corso degli anni, si è pensato di costruirla quasi sempre col supporto dell’illustrazione. Per me diventa quindi un operare, dove il me grafico è in dialogo continuo con il me illustratore, ed entrambi si rapportano poi necessariamente col committente, per verificare che la rappresentazione sia adeguata a quello che deve comunicare.

Ho iniziato a fare il grafico nel 1996, dopo aver frequentato l’Istituto Europeo di Design a Cagliari. Mi ero avvicinato a quel corso di studi un po’ per caso, non avevo sicuramente ben chiari tutti i risvolti e gli sviluppi di questa professione. Mi piaceva disegnare, un po’ come tutti i bambini, anche se non ero particolarmente bravo. Facevo soprattutto delle piccole storie a fumetti in cui provavo a raccontare quello che mi succedeva. Erano storie che, soprattutto da adolescente, mi aiutavano in qualche modo ad alleggerire un periodo di passaggio non facile, mi hanno insegnato a ridere di me, a sviluppare forse un certo tipo di ironia. E anche a socializzare, certamente. Disegnare insomma era un piacere ma anche un’urgenza o una necessità e mi ha aiutato a rapportarmi con gli altri e con me stesso. Non tanto bene, mi verrebbe prontamente da aggiungere, ma questo è parte di quello che dicevo prima. Insomma, non producevo niente di particolarmente geniale, forse solo una variante con immagini di un qualsiasi diario segreto, ma che tanto segreto poi non era, dato che le normali regole di decenza e pudore non mi impedivano di far circolare le mie cose, e ricordo ancora un professore di geografia intento a intrattenere la classe con la lettura delle mie storie strampalate.

Il disegno, il provare a illustrare, non mi ha poi abbandonato durante gli studi o quando ho iniziato a lavorare come grafico. Se avevo l’occasione di poter risolvere una locandina o un manifesto con un’illustrazione, lo facevo. E l’incontro con Tuttestorie ha sicuramente favorito questa tendenza. Grazie al Festival ho incontrato i libri per bambini e ragazzi, un mondo che forse prima vedevo un po’ superficialmente. Un manifesto deve contenere un’immagine (che sottoforma di disegno, illustrazione, fotografia, elaborazione grafica o tipografica) deve rappresentare (comunicare? trasportare? evocare?) il messaggio a cui è preposto. Ha un titolo, un sottotitolo e altre specifiche testuali che si riferiscono al “dove”, “quando”, forse al “come” e una serie di rimandi ai vari social e al sito web. Trovano spazio poi, sotto forma di loghi, tutti quelli che in modi diversi contribuscono alla realizzazione del progetto: enti, istituzioni, sponsor privati, case editrici, ecc. Tutte queste parti devono essere organizzate, integrate e devono convivere in uno spazio fisico che tradizionalmente per il manifesto da affissione è di 70x100 cm. Ma questo, come ho scritto prima, è solo il modulo base: da qui verrà poi declinato in orizzontale, in verticale, in quadrato, a volte in tondo, in grande (600x300 cm altro formato di affissione) e in piccolo (3x5 cm dei ticket per le consumazioni).

Un manifesto è costituito da tante parti che devono convivere in pace (visiva) e armonia (grafica, ma non solo). C’è un’immagine principale, che di solito occupa la maggior parte dello spazio e può essere un’illustrazione, una fotografia, un’elaborazione grafica (elementi geometrici astratti ad esempio) o tipografica (una composizione alfabetica, testuale?). Il festival per quanto mi riguarda inizia diversi mesi prima di ottobre. Più o meno tra marzo e aprile la direttrice artistica del festival Manuela Fiori (una delle tre libraie, insieme a Cristina Fiori e Claudia Urgu, che hanno dato vita prima alla libreria Tuttestorie e poi al festival) mi invia la “pasta madre”. La pasta madre è un prezioso documento, sotto forma di file Word di una o due cartelle, scritto da Bruno Tognolini. È il frutto di un lavoro a tre (chiacchiere e mail) tra Manuela Fiori, Nicoletta Gramantieri e Bruno stesso, in cui si stabilisce quello che sarà il tema con tutti i suoi possibili sviluppi (la Pasta Nonna). Per me sono soprattutto suggestioni che dovrò poi trasformare in materiale visivo. È proprio dopo la lettura di questo testo che inizia la progettazione visuale del festival. Lascio che il flusso entri in circolo e faccia il suo lavoro. Al contempo inizia una parallela fase di ricerca in rete o su libri che può essere a tema ma anche no. Prendo matita e quaderno e comincio a disegnare tutto quello che questo materiale mi evoca, che sia a tema ma anche no. E guardo anche tanti lavori di altri illustratori, possibilmente molto diversi tra loro, cercando di non farmi influenzare troppo. Non è quello che hanno disegnato o lo stile che hanno adottato che mi interessa (non principalmente almeno).

È piuttosto la sensazione di bellezza, armonia e risoluzione (completezza?) che il loro lavoro riesce a rimandare e che può trasmettermi. È soprattutto questo che cerco di “rubare” e provare a trasferire col mio modo. Il mio modo, altra questione. Ogni manifesto del festival ho provato a risolverlo sempre in modo differente rispetto agli altri. Non parlo solo di stile ma soprattutto di messa in pagina degli elementi, quella che forse possiamo sintetizzare come composizione. Scorrendo lo sguardo sui manifesti di tutte le edizioni, forse, quello a cui sono più affezionato è il Bestival!, tema della terza edizione (2008), che può essere considerato il nucleo base, l’impronta da cui poi sono nati la maggior parte dei poster successivi. La bestialità era stata spezzetata in tanti piccoli mostri diversi. L’idea era che ognuno potesse ricononoscersi in uno di questi e in qualche modo adottarlo. Modalità che, come ho scritto più sopra, è stata intrapresa in tante altre edizioni. Non un’unica rappresentazione del tema ma, provando a guardarlo da diversi punti di vista, darne differenti interpretazioni. Il manifesto diventa quindi l’unione di tanti disegni, che devono necessariamente convivere in armonia.

Una linea comune che doveva poi provare a trovare la propria peculiarità nel modo in cui era rappresentata. Gli elementi per fare questo principalmente sono stati questi:

• Stile (tecnica adottata, modalità di rappresentazione) scelto per la rappresentazione del tema: disegno a mano (con matita o pennarello), disegno in vettoriale con illustrator, collage (in prevalenza digitale), utilizzo di procreate (provando a non abusare delle peculiarità degli strumenti e cercando di simulare strumenti reali).

• Composizione, intesa come la ricerca di un equilibrio di forme, dimensioni, colori, ecc., all’interno della pagina. Trovare quindi ogni volta modalità differenti di posizionare gli elementi rappresentativi del tema (che siano personaggi, oggetti, edifici o situazioni).

• Colore. Possibilmente non ripetere lo stesso colore per edizioni successive e alternare i colori dominanti. La componente cromatica è uno dei principali aspetti di identificazione di un artefatto visivo.

 

Rivedere i vecchi lavori è un po’ come guardarti in una vecchia foto di quando ancora avevi i capelli ma una pettinatura improbabile. Ti riguardi con affetto ma ti senti più a tuo agio ora che i capelli non li hai più. Insomma, alla fine ai figli si vuol bene tutti allo stesso modo, ma se alcuni poi si lamentano perché non ricevono abbastanza attenzioni, un motivo ci sarà. E quindi non mi devo lamentare troppo se ogni tanto il coraggioso Nino che batte il rigore (11a edizione, 2016) e la sirenetta dal cuore triste (13a edizione, 2018) mi vengono a ricordare nel sonno che non sono stato un genitore abbastanza premuroso.