Alcuni giorni fa, qui, vi abbiamo presentato Telefonata con il pesce attraverso le parole di chi l'ha scritto, Silvia Vecchini. Oggi tocca a chi l'ha disegnato, Antonio Vincenti in arte Sualzo.
[di Sualzo]
Da quasi venti anni, quanti sono quelli nei quali insieme alla mia socia ci siamo incaponiti in questa cosa di raccontare storie per immagini disegnate e parole scritte, abbiamo imparato che ogni libro ha il suo tempo.
Una storia può venire da molto lontano e avere bisogno di fermarsi ancora prima di entrare nelle pagine, come già ha scritto Silvia nel post precedente.
Anche per il disegno è così. Per lo meno per me.
Vi racconto, prendendola un po’ larga, come è stato che ho disegnato Telefonata con il pesce in questo modo, in questo tempo.
Quello che racconto, che teorizzo, ovviamente, non ha nessun valore normativo, è un’esperienza. Ne parlo perché è una cosa che con me funziona. Con altri, chissà, magari vale il contrario.
Per lunghi anni ho osservato i maestri ossessionato da un’idea: lo stile. Come raggiungere quella cifra costitutiva del proprio essere se non artista, per lo meno disegnatore consapevole? Come arrivare a distillare un linguaggio che racchiuda in un segno riconoscibile le mie intenzioni, la mia tecnica, la mia intonazione, la mia provenienza?
Ho trascorso periodi frustranti in questa ricerca che sembrava non portarmi a nulla di soddisfacente. Nulla che rispondesse a quelle domande.
A un certo momento, però, ho capito (continuando a guardare i maestri) che cercare lo stile per lo stile è la cosa che inevitabilmente ti porterà più lontano da esso. Ti farà agitare come qualcuno finito in un pantano senza avere la possibilità di uscirne fuori oppure, al contrario, potrà farti fermare troppo (se nel frattempo sarai approdato a qualcosa di commerciabile) e trasformarti in un manierista.
Liberarsi da questa ossessione ha significato consegnarsi all’ascolto di me stesso e, di volta in volta, delle diverse -sottolineo diverse- storie che mi venivano sottoposte.
Ho finalmente capito che lo stile di un autore è una somma e non un distillato, è un percorso che inanella tutte le possibili deviazioni e non un canone che impedisca di deragliare. Che, molto banalmente, se lo stile rappresenta qualcuno, deve esserci prima qualcuno da rappresentare.
Lasciando che ogni libro reclamasse la propria cifra piuttosto che donare a tutti la medesima, già rodata e funzionante, ho scoperto, non senza sorpresa, di avere uno stile, che fortunatamente andava oltre l’idea di un “segno” distintivo.
Ecco, se questo fosse diventato un automatismo, il libro che fra poco -spero- terrete tra le vostre mani, avrebbe già dovuto vedere la luce tre o forse quattro anni fa. È in quell’epoca infatti che il testo di Silvia Vecchini veniva preso da Giovanna Zoboli e indirizzato verso me.
Ma non è andata così, l’avrete capito, visto che ho fatto di tutto per rinnegare quanto ho appena scritto qui sopra.
Intanto perché Telefonata con il pesce lo abbiamo proposto in principio come un albo illustrato di quelli tradizionali, intendo. Pensandolo così, mi sono messo alla ricerca dello stile giusto, pensando a cosa sarebbe piaciuto all’editore Topipittori e ai lettori degli albi dell’editore Topipittori. Niente di più sbagliato.
In principio, abbiamo proposto Telefonata con il pesce come albo illustrato tradizionale.
Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo progetto io avevo incontrato Giovanna solo una volta, in occasione della mostra dedicata a Fiato sospeso a Più libri più liberi. Mi conosceva per quel libro a fumetti e poi per quello successivo, un altro graphic novel, Fermo.
Così, quando ero già ben avviato nel pantano, Giovanna è venuta in soccorso ricordandomi che il linguaggio a me più congeniale era quello sequenziale, e avrei dovuto prendere l’occasione data da quel testo per sperimentare ancora in quella direzione.
Abbiamo messo da parte le prime tavole e ci siamo soffermati a parlare di autori. Wiesner, soprattutto. Giovanna mi spingeva a andare a vedere se quel linguaggio poteva raccontare quel testo. Ho capito che veramente era il momento di fare, anche per me, qualcosa di completamente diverso.
Vedere se il linguaggio del fumetto potesse dialogare con l’albo e fino a che punto. E, nello specifico, come potesse dialogare con un testo che stava tra il racconto del quotidiano in una classe della scuola primaria, un racconto fatto di piccole cose, ed elementi poetici dati da una visione interiore, da un colloquio tra sé e sé, dove le esperienze concrete diventano non di rado dei simboli. E quindi: che rapporto tra sequenze e testo? Quanto scarto nell’interpretazione? Quale segno? Quali colori? Quanta astrazione?
Liberato nuovamente dalle pastoie della ricerca dello stile, ho cominciato quindi a fare la cosa che so fare meglio, il racconto sequenziale, e ho lasciato che questa confidenza mi portasse senza ansia a esplorare mondi diversi dal punto di vista cromatico e di segno, allontanandomi dalla mia comfort zone, senza dover dimostrare nulla che non fosse la voglia di entrare nelle parole precise, lievi e insieme pesantissime di questo testo così poetico quanto affatto puramente estetico.
Una delle prime cose che mi ha aiutato a calarmi in questo libro è stato il tempo che ho passato in questi anni nelle classi, nelle scuole. Spesso, negli incontri, disegno i bambini e i ragazzi seduti in classe, mentre ascoltano, mentre lavorano, quando parlano... Disegnare dal vero è l’unico mezzo che mi permette di “pulire” la testa e la mano da tutte le sovrastrutture che, con la professione, non fanno che aumentare ogni volta di più.
Questo non vuol dire che Telefonata con il pesce sia nato dal disegno dal vero, ma tornare a quella mia esperienza è stato fondamentale per pensare il mio protagonista e i suoi compagni in una dimensione di verità.
Un altro aspetto importante è stata la scelta del segno. E per segno intendo un’entità di tipo linguistico: non un significante, ma una relazione tra qualcosa che c’è e qualcosa che è assente per dirla con De Saussure.
Ogni volta che inizio un fumetto, trascorro molto tempo in questa fase. Passo in rassegna una schiera di strumenti, pensando in che maniera la traccia che lasciano sul foglio possa trasformarsi per me in segno. È un passaggio che decide l’intonazione, il modo di raccontare. Per Telefonata con il pesce alla fine di molte esplorazioni ho scelto un segno di natura totalmente digitale, che non ha conosciuto passaggi su carta, perché mi aiutava a mantenere un’astrazione necessaria al racconto. Un segno da completare con una colorazione antinaturalistica che non richiamasse davvero nessuna tecnica tradizionale che avessi già praticato in “analogico”.
Ho utilizzato il termine completare, perché, per quanto abbia sempre esplorato il colore con molte tecniche, io mi ritengo prima di tutto un disegnatore.
Una cosa importante, decisa insieme dopo diversi tentativi, è stata quella di mettere fuori tavola tutto il testo. All’inizio, preparando uno storyboard fatto con il collage, avevamo sì escluso il testo narrativo, ma lasciato in alcuni balloon i discorsi diretti. Questo ci manteneva vicini al fumetto, ma in qualche modo impediva che le due narrazioni procedessero. Si toccavano in un punto, in uno spazio che invece avrebbe dovuto rimanere libero.
Poi abbiamo cominciato a pensare in che modo il linguaggio del fumetto potesse dialogare con l’albo.
Le manovre di avvicinamento sono state quindi molteplici (le immagini sono un esempio di una parte del percorso su una pagina), nel tentativo di formare un unico flusso di parole e immagini non più separabili, senza ridondanze e didascalismi come si ha solo nel fumetto, rimanendo però ancorati fortemente all’idea di albo illustrato.
La libertà che mi è stata concessa è stata grandissima e la sensazione di aver trovato infine la voce giusta, facendo qualcosa di veramente diverso, è stato un bel premio.
E dopo varie metamorfosi siamo arrivati a questo.
Ora vado a sbagliare l’approccio al prossimo libro.