Chi ha paura del mago in mongolfiera?

[di Matteo Maculotti]

Il ritorno in edizione anastatica di uno dei più celebri e controversi libri austriaci per bambini, pubblicato per la prima volta nel 1904, è stato accolto mesi fa da una polemica sugli stereotipi razziali che il libro suscita in realtà da diversi decenni, ma che le piattaforme social hanno ulteriormente inasprito. È bastato che un utente condividesse in rete la foto del volume in questione, in bella vista sullo scaffale di una libreria, per far scoppiare un acceso dibattito che ha coinvolto in prima persona il libraio responsabile. Eppure – come quest’ultimo ha spiegato – il libro non si trovava sullo scaffale per bambini, ma nel reparto di storia austriaca, trattandosi di un’edizione destinata a studiosi e collezionisti, con allegato un saggio che indaga le sue origini in rapporto al contesto dell’epoca.

Hatschi-Bratschi’s Luftballon (“La mongolfiera di Hatschi-Bratschi”), scritto da Franz Karl Ginzkey e illustrato nella sua prima versione da Erich M. v. Sunnegg, narra del piccolo Fritz, che un giorno, disobbedendo alla madre, si allontana da casa e viene rapito dal temibile Hatschi Bratschi, un mago turco che viaggia in mongolfiera a caccia di bambini, passando poi attraverso una serie di peripezie in giro per il mondo che si concludono col suo ritorno a casa. Prima di scomparire gradualmente dalla circolazione a partire dagli anni ’70, il libro è stato oggetto di numerose riedizioni, nelle quali si è provveduto di volta in volta a correggere i due luoghi testuali più controversi: da un lato l’esplicita caratterizzazione turca dell’orco dalla barba lunga e dal turbante, che è diventato più genericamente un mago proveniente dall’Est; dall’altro il riferimento a una tribù africana di selvaggi cannibali che Fritz incontra nel seguito dell’avventura, sostituita da un meno problematico branco di scimmie dispettose.

Le vicende editoriali del libro sono state però molto più accidentate. Un lettore autorevole come Hans Magnus Enzensberger, che ne scoprì il fascino a cinque anni e a distanza di svariati decenni confessò di ricordarne ancora i versi a memoria, le riassunse in modo caustico: «Mutilato da editori buoni a nulla, sfalsato da cattivi illustratori, castrato da guardiani della pedagogia e infine tolto di mezzo completamente, perché come ogni persona illuminata sa non esistono né streghe né maghi in Oriente e di certo non ci sono cannibali in Africa, e bisogna perciò stare molto attenti a che i bambini piccoli non si facciano idee sbagliate». Come si può osservare, Enzensberger tocca il problema degli stereotipi razziali e del politicamente corretto, ma facendolo rientrare all’interno di un problema più ampio, ovvero quello della sopravvivenza di un immaginario fiabesco e fantastico privo di un esatto corrispettivo nel mondo reale. L’impressione, insomma, è che la questione degli stereotipi razziali costituisca solo la cima dell’iceberg, ovvero la componente più superficiale di un discorso ben più complesso: prova ne è il fatto che le opportune revisioni al testo, rese necessarie dal mutare della sensibilità culturale, non hanno contribuito a rilanciare la fortuna del libro, ma al contrario sono state il preludio al suo oblio.

Per quale ragione, allora, un libro amato da generazioni di bambini è diventato un oggetto di antiquariato così disdicevole? Una risposta plausibile riguarda il presunto messaggio del libro, o in altre parole il significato o l’insegnamento che si dovrebbe trarre dalla storia narrata – e che ancora oggi è il fattore che orienta maggiormente le scelte di lettura dei bambini attraverso la mediazione di genitori, educatori e insegnanti. Una rapida scorsa alla trama delle vicende è sufficiente a far scattare il campanello d’allarme della cosiddetta “pedagogia nera”: non ci troviamo forse di fronte alla storia di una disobbedienza che viene punita col rapimento da parte di uno spauracchio, e con tutti i pericoli che ne conseguono? La massima che compendia la morale del libro, da questo punto di vista, suona all’incirca come le parole che la madre rivolge inutilmente a Fritz all’inizio della storia: «Fai il bravo come gli altri bambini, stai a casa con me».

Per chiunque si prenda la briga di leggere un po’ più in profondità, tuttavia, una lettura moraleggiante del tipo delitto e castigo non può che apparire riduttiva, anche a prescindere dal lieto fine che vede il ritorno del figliol prodigo riaccolto a casa a braccia aperte (ma apostrofato dal padre che lo chiama wicht, ovvero “canaglia”). Fin dall’inizio delle sue peripezie, infatti, Fritz non è solo un bambino esposto a pericoli e incontri indesiderati, ma anche il protagonista tutt’altro che inerme di un’avventura fiabesca, che con furbizia e coraggio, assieme alla giusta dose di fortuna, riesce a superare qualsiasi avversità.

Due delle scene più gustose del libro sono quelle in cui Fritz si sbarazza prima di Hatschi Bratschi, approfittando di un momento in cui il mago si sporge dalla mongolfiera per gettarlo giù con una bella spinta, e poi di una strega che pare evocata dalla fantasia dei fratelli Grimm, e che finisce dritta nella ciminiera di una fabbrica. Ma Fritz non si limita ad affrontare e sconfiggere queste due figure terribili, che proprio come nelle fiabe rappresentano il lato più oscuro dell’imago paterna e materna, annidato nell’inconscio infantile. Prima del ritorno a casa, i suoi vagabondaggi lo conducono infatti in Oriente, nel paese di Hatschi Bratschi, dove il bambino viene festeggiato dai servitori del mago per averli liberati dalla sua tirannia e prende con sé tutti gli altri bambini rapiti, che riporterà in mongolfiera alle loro famiglie.

Sotto la patina di una storia morale, insomma, si agitano i fantasmi di una movimentata avventura di fuga, rapimento e solitudine, nella quale il bambino, affrontando a viso aperto le proprie paure, impara a dominarle e diventa un eroe, pur restando al contempo un figlio disobbediente. «Più pericolosa si faceva l’avventura, più felicemente sarebbe finita», scrisse Enzensberger in risposta a chi sosteneva che la storia di Hatschi Bratschi fosse troppo spaventosa. E il fattore paura, in effetti, è una chiave interpretativa molto interessante per valutare le vicende editoriali del libro al di là del piano testuale: mentre i suoi versi sono rimasti sempre invariati, salvo pochi ritocchi ininfluenti sul tono complessivo della storia, una sintomatica evoluzione è ravvisabile nelle immagini che l’hanno accompagnato.

Prendiamo come esempio le copertine delle varie edizioni, illustrate rispettivamente da Erich M. v. Sunnegg (1904), Erwin Tintner (1922), Ernst von Dombrowski (1933), Grete Hartmann (1943), Wilfried Zeller-Zellenberg (1962) e Rolf Rettich (1968). La prima mostra il piccolo Fritz in lacrime, relegato nell’angolo in basso, a tu per tu con Hatschi Bratschi, molto più grande di lui, che lo sovrasta col suo riso sardonico. In tutte le successive copertine il bambino scompare e l’orco conquista il centro della scena, ma l’immagine è gradualmente spogliata del suo carattere inquietante. Sulla copertina della quarta edizione l’orco comincia poi a somigliare a un personaggio buffo e simpatico, e la tendenza trova conferma anche nelle edizioni seguenti. Estendendo l’analisi alle illustrazioni interne, non a caso, il confronto più istruttivo è quello tra la versione raffinata e tagliente di Erich M. v. Sunnegg (1904) e quella tondeggiante e cartoonesca di Grete Hartmann (1943), che ammorbidendo le figure ha appiattito tutto ciò che di più intrigante c’era nel libro originale.

Un’apprezzabile sintesi tra le due versioni, che non raggiunge i livelli di ricercatezza stilistica dell’originale ma rappresenta comunque un’ottima alternativa, è quella di Ernst von Dombrowski (1933). Tra le tante immagini di questa versione, in particolare, ne compaiono due che nella prima edizione non erano presenti, e che nell’edizione successiva sarebbero state riproposte in maniera meno efficace: la prima mostra il bambino che sorvola il deserto; la seconda la madre nella sua cameretta vuota. Accomunate dalla medesima posa e da alcune sottili corrispondenze, le due figure paiono condividere le stesse emozioni nonostante la distanza, e per questo motivo evocano un’inedita congiunzione tra i due risvolti complementari della storia.

Ancora una volta, come per i due livelli rintracciabili nella trama, è facile valutare la compresenza di due prospettive che rimandano a quell’ambivalenza tipica della letteratura per l’infanzia, che nei casi più felici fa sì che lo sguardo del bambino e quello dell’adulto finiscano per incontrarsi e dare vita a un dialogo quasi impercettibile. Il rischio insito nell’abitudine di coltivare una visione ammiccante e confortante dell’infanzia, al contrario, è la distanza che viene a crearsi tra i due mondi nel momento in cui gli adulti provano a racchiudere l’immaginario dei bambini sotto una sorta di campana di vetro, come è avvenuto quando la storia di Hatschi-Bratschi’s Luftballon, edulcorata da illustrazioni che ne hanno stravolto l’originale fascino perturbante, ha smesso di incantare i suoi lettori.

I capolavori della letteratura per l’infanzia, dal Peter Pan di J. M. Barrie a Where the Wild Things Are di Maurice Sendak, ci insegnano che ogni grande avventura può nascere nell’ambiente familiare di una cameretta, ma si nutre anche di paure, creature selvagge e luoghi fantastici per dispiegare a pieno regime il suo potenziale immaginifico. Se poi sono le stesse pareti della casa a ospitare un mondo parallelo, come in Lo stralisco di Roberto Piumini o in un libro pubblicato da Franz Karl Ginzkey dopo Hatschi-Bratschi’s Luftballon, intitolato Florian’s wundersame Reise über die Tapete (“Il meraviglioso viaggio di Florian oltre la carta da parati”), l’augurio è sempre che si tratti di un mondo dove i valori estetici, la trasgressione, l’ambiguità e la ricchezza simbolica – per dirla con Ana Garralón – non vengano sopraffatti da asfittiche interpretazioni letterali.