[di Giusi Quarenghi]
Giorno per giorno, e a ogni giorno il suo passo. Così si fa, quando i giorni sono difficili e incerti, quando non si sa. Un ‘non si sa’ che, giorno per giorno, si spera di ridurre, grazie al piccolo magistero di ogni giorno superato, di ogni tratto di percorso fatto. Testa bassa, e guardare dove si mettono i piedi. Anche da fermi. Perché ci si muove comunque, anche da fermi. Si muove la testa, il cuore, l’ansia.
Alzare lo sguardo però, è irrinunciabile: il fiato si allarga, fa capire o almeno ipotizzare dove siamo e dove stiamo andando, chi e cosa c’è intorno… può venirne angoscia e spavento, ma anche costruzione di senso, un orizzonte cui tendere, o da evitare.
Questi sono i giorni e sono così, pensavo stamattina. Non sappiamo quanti saranno ancora. Ma passeranno, passeranno. Intanto facciamo fronte, lo stiamo facendo, come possiamo, ognuno come può, che si sia persona o istituzione. Ognuno come può, meglio che può. E poi?
Questo tempo ci cambierà, ci sta già cambiando ed è probabile che, si sia persona o istituzione, emergano elementi capaci di motivare più a un cambiamento che a una conferma dell’identico, a una semplice e automatica ripresa del prima, come si fosse trattato di nulla più di una pausa.
Può essere che questa vicinanza impedita, che ora ci pesa, non svanisca e si annulli dentro la festa e l’allegria del ritrovarsi accanto e facili agli abbracci. Può essere che lasci timori, riguardi, prudenze, diffidenze… e che stare vicini non sia più cosi ovvio, facile, desiderabile…
Così, in questo tempo per certi versi aggiunto, dilatato, disteso, perché non provare a mettersi alla finestra per un ping-pong di pensieri, di ipotesi, di esplorazioni del possibile… per un dopo che non è certo riprenderà semplicemente uguale a prima.
È primavera di lutto nella mia città. Ha l’andatura pietosa, muta e dolente della processione dei morti portati via sui camion dell’esercito; gli altri anni aveva il passo e le voci saltellanti di innumerevoli bambini e ragazzi in gita scolastica, dei piccoli del nido e della scuola d’infanzia a passeggio.
Non è più da fare e non si fa. Giusto e necessario. Ma.
Cani e sportivi (quanti!!) hanno diritto di uscire. E i bambini?
Non sono certo a reclamare un generico diritto a uscire per i bambini, per altro accompagnati. No, vorrei solo ci ponessimo il problema, con tutte e le diverse immaginazioni di cui siamo capaci.
Queste settimane sono passate. Ma quelle che si aggiungeranno? Questa durata va assunta e, possibilmente, disegnata, almeno in alcuni tratti; non lasciamo che ci piova addosso e basta. Caricare e scaricare compiti, tenere a video i bambini per ore e ore, anche davanti a cose solo meravigliose, istruttive, divertenti, utili, interessanti, educative, credo sia nefasto.
Questo virus pare risparmiare i bambini, non perché è buono, ma perché, come ha detto l’immunologo Alberto Mantovani, il loro sistema immunitario è ben allenato dagli appuntamenti del calendario vaccinale (e lo ripeto: grazie ai vaccini!).
Possiamo pensare a qualcosa di simile, che li tenga in allenamento, proteggendoli e fortificandoli allo stesso tempo?
La ‘casa’, alla lunga, non può bastare; e poi non è ‘uguale’, nel senso che non sempre e non ovunque è nelle condizioni di essere rispettosa dei diritti dei bambini.
Che cosa possiamo pensare perché questo tempo lasci un segno e non solo una ferita, consegni qualcosa mentre toglie altro, compresa una sorta di confidenza amabile con il vuoto, il poco, il meno, il non più…? Come non smettere l’allenamento, come correre in poco spazio e tanto tempo, come non perdere vicinanze nelle lontananze?
Non può essere pensiero, compito e responsabilità solo di genitori, maestre e psicologi. Mi viene da dire che piuttosto che ci riguarda, ci riguarda come specie. E riguarda molte e diverse competenze, sensibilità, attenzioni e capacità immaginative e organizzative.
Come non ‘fermare’ i bambini?
Possibile ritrovare i cortili interni, in tempi e modi regolati? Può valere anche per alcune piazze e sagrati? Sono pensabili giochi, attività sportive, e teatrali, in spazi (dalla finestra di casa al parco ‘regolato’) dove la distanza fa parte del gioco, dell’esercitazione e della drammaturgia e quindi, a seguire, la voce, i movimenti, le azioni…)?
È pensabile aprire le scuole ‘a tempo’: non tutti insieme ma poche classi per volta, inaugurando e praticando distanze e protezioni non solo con valenza punitiva e complicante?
Pensiamo, immaginiamo.
Non mi riferisco tanto all’adesso, mentre siamo in piena fase acuta, per il tempo che durerà, nella speranza sia contenuto.
Mi riferisco a poi; lasciarsi indietro la fase acuta, in tutte le sue implicazioni, non sarà né facile né rapido e non sappiamo che fisionomia avrà la ‘normalità’ che tornerà possibile.
Non so, non so. Ma non sapere non mi basta. Questo è un ‘quia’ al quale non so stare contenta.
20 marzo 2020
Da E sulle case il cielo di Giusi Quarenghi e Chiara Carrer, 2007.