Desiderare un sasso

The room of wonders non è ancora stato pubblicato in Italia (ma fra qualche tempo probabilmente lo sarà). Elena Dolcini che è appassionata lettrice delle storie di di Sergio Ruzzier e che ne ha già investigato più volte la poetica, ci ha proposto questo scritto che ci ha conquistato. Ve lo proponiamo.

[di Elena Dolcini]

In un libro ci si può imbattere, ci si può inciampare sopra; può comparire all’improvviso davanti ai nostri occhi, per caso, per corrispondenza di amorosi sensi, o magari buttando l'occhio annoiato su uno scaffale impolverato.

Ci si cade anche dentro, perché il libro stesso è caduta, un vortice centripeto e centrifugo: come un buco, - lo sapevano bene Bruno Munari, Tana Hoban e gli altri autori la cui techne è anche arte – il libro è un vuoto alle cui pareti scivolose tentiamo di aggrapparci, illudendoci di razionalizzare il suo contenuto in pensieri logici ma inevitabilmente parziali.

The room of wonders di Sergio Ruzzier, pubblicato da Frances Foster Books nel 2006, è uno di questi oggetti capaci di attivare riflessioni da cui ne partono altre e, a loro volta, altre ancora, in un concatenamento che è desiderio, per dirla con Deleuze, diramandosi come in una mappa concettuale che tenta di nominare lo stupore insofferente alla sua stessa inintelliggibilità.

The room of wonders non è solo una storia (1), ma anche una riflessione filosofica, un’analisi sociale, un saggio visuale sul collezionismo, uno studio di cultura materiale e molto altro. Partendo da questo libro, potremmo aprire un dialogo sulla mereologia, su come la parte influenzi il tutto; potremmo discutere intorno al conformismo sociale, riflettendo su come il singolo si lasci influenzare dal parere dei più; potremmo articolare un pensiero sul collezionismo e le sue motivazioni, citando le pagine universali di Walter Benjamin e Italo Calvino che continuano a risuonare in ognuno di noi; potremmo soffermarci sul sasso, un po’ come possiamo aver fatto con La pietra blu di Jimmy Liao, e relazionarlo al mondo dei saperi umani.

Qui è proprio il sasso a interessarci più di tutto: il sasso e il suo “significato incarnato (2)”.

Ruzzier disegna un ciottolo grigio tanto ordinario quanto essenziale, tanto banale quanto entusiasmante, tanto invisibile quanto messo in risalto dalla teca di vetro; se per la maggior parte dei visitatori della collezione è un pugno in un occhio, per Pius, come un oggetto transizionale che lo accompagna senza apparenti soluzioni di continuità da ieri a oggi e viceversa, è fonte di gioia. 

Il sasso è un elemento naturale primordiale, fossile, con cui e su cui l’uomo preistorico fa quasi tutto: il fuoco, la caccia, i primi calcoli; anche nei tempi indicibili della fiaba è l’aiuto a ritrovare la strada di casa per Pollicino e i suoi fratelli. Qualunque sasso sia, ha una vita lunghissima che parla all’uomo della sua natura non strutturata, della sua origine.

Pius Pelosi, un po’ Beatrix Potter per i boschi del Lake District in cerca di fossili, un po’ David Wiesner tra i suoi flotsam in villeggiatura nella costa del New Jersey, prima che un collezionista, è un artista che sa cogliere il fascino del ciottolo e lo allestisce dentro una teca; è uno tra i tanti artisti che disegna, dipinge, installa, scolpisce e interviene sulla terra con in mente la pietra e il suo potere taumaturgico.

Il sasso è una natura morta quasi scultorea nei dipinti di Piero Manai; una pausa organica al tutto in un’opera di land art; una pagnotta ovale nelle xilografie di Andrea Büttner; un ready-made tridimensionale che sfida la superficie piana della tela per Kurt Schwitters. Il sasso è un’isola per Bruno Munari e, similmente, è molto altro nella pareidolia di Massimiliano Tappari; il sasso è un desiderio, qualcosa che l’artista vuole essere, un oggetto da ritrovare in riva al mare e riabbandonare sulla spiaggia per Louisa Fairclough; l’io narrante del testo di Italo Calvino dedicato alla serie “Pietre” di Alberto Magnelli. Ma sono anche le onde del mare in tempesta di Giovanni di Paolo che dipinge una nave graziata dall’intervento di San Nicola; è lo spazio selvaggio della montagna in cui sta entrando il suo Giovanni Battista, così come l’ambientazione magnetica, misteriosa e inquietante di un capolavoro come Picnic at Hanging Rock di Peter Weir (3).

  

  

Da sinistra a destra: Piero Manai, Andrea Büttner, Kurt Schwitters, Bruno Munari, Giovanni di Paolo, Peter Weir.

Un sasso è quindi un simbolo, oltre a essere oggetto fisico con le sue specificità formali; e come tale è inevitabilmente soggettivo: è per questo che Pius soffre, non senza colpevolizzarsi, per essersi sbarazzato di un oggetto sentimentale, dall’importanza vitale per lui, ma incomprensibile a estranei, certamente dal gusto poco raffinato.

La parabola della collezione di Pius Pelosi, buono e scrupoloso di nome e di fatto, è un po’ la storia del protagonista stesso, come se la wunderkammer ne fosse uno specchio, un desiderio, una macchina del tempo, certamente un diario e una mappa dei propri stati d’animo.

Ruzzier ritrae una vasta gamma di emozioni sul volto del topo: Pius è felice, compiaciuto, dubbioso, triste, depresso e nuovamente felice di rimettere in piedi la sua creazione.

«[…] O forse diario soltanto di quell’oscura smania che spinge tanto a mettere insieme una collezione quanto a tenere un diario, cioè il bisogno di trasformare lo scorrere della propria esistenza in una serie di oggetti salvati dalla dispersione, o in una serie di righe scritte, cristallizzate fuori dal flusso continuo dei pensieri.» (Calvino in Collezione di sabbia, in Italo Calvino. Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, a cura di Marco Belpoliti, Oscar Moderni Baobab, Mondadori, Milano 2023).

Pius è un artista che va incontro alle esigenze discorsive del pubblico, un oratore consapevole di come l’arte non sia mai indipendente dal suo racconto: chi guarda ed è estraneo alla creazione di un’opera ama, infatti, l’aneddoto, la dimensione esperienziale che lo incuriosisce e avvicina all’artista.

I visitatori richiedono che gli oggetti della collezione siano contestualizzati, nel tentativo di viverli, per lo meno attraverso la narrazione, immaginandoli non più isolati o tra le mani di Pius, ma all’interno dell’ambiente in cui sono stati ritrovati.

Come la conchiglia contiene il rumore del mare, il sasso, lungi dall’essere solo un minerale inerme, porta con sé il freddo del giorno d’inverno in cui Pius lo ha trovato, la pattinata sul ghiaccio del topo e, da parte necessaria al tutto, la collezione nella sua interezza; di questa il sasso è, da un lato, il pezzo più enigmatico, impenetrabile, soggettivo, né comunicabile né sensazionale, dall’altro una pietra dalla forma comune, simile a tante altre.

Ruzzier compone un’opera meticolosa per cui il tutto, un risultato finale di armonia e maestria, similmente alla collezione di Pius, è tale grazie ai dettagli; alle visioni prospettiche che fanno del disegno un progetto architettonico reminiscente del Trecento toscano; all’inventio mostruosa di ogni singolo oggetto della collezione; alle cornici come elementi di dialogo tra le figure e lo spazio della pagina; alla sensibilità cromatica che è anche indizio temporale, per cui l’unica pagina non a colori racconta di quando Pius, tempo addietro quello della narrazione, trovò il suo primo sasso.

Su questo libro ci sono caduta dentro: ho tentato di frenare l’entusiasmo e la meraviglia totalizzanti ma inarticolati tipici del primo incontro con un’opera d’arte, per ordinare i pensieri e connettere il libro ad altre opere, con l’intenzione di raccontarne la bellezza, consapevole che, per fortuna, mai tutto sarà esplicitabile.

Perché “Il sorriso della Gioconda è il sorriso dell’arte” (Alan Bennett in L’imbarazzo della scelta, Adelphi, Milano 2009).

(1) Eccone una trama: Pius Pelosi ama camminare e raccogliere oggetti diversi tra loro, per lo più stravaganti e mostruosi, che posiziona sugli scaffali della sua stanza delle meraviglie e che attirano un grande pubblico. I visitatori, però, mal tollerano un elemento della collezione di Pelosi piuttosto banale e senza nessun segno distintivo, se non quello di essere stato l'oggetto-origine della collezione: un sasso. Pius si lascia convincere dal pubblico e, quasi come in preda a una crisi d'artista, getta nel fiume il sasso per nulla spettacolare, ma a lui estremamente caro; in lui vengono meno l’interesse, la gioia, l'allegria procurategli dalle sue camminate e dalla sua collezione. Così decide di dare via tutti gli oggetti della sua wunderkammer, sprofondando in un vuoto esistenziale simile a una depressione. Un giorno, finalmente uscito di casa, s'imbatte in un altro sasso, anche questo grigio, ordinario, senza nessun segno distintivo se non quello di aver attirato, in qualche modo la sua attenzione; così Pelosi lo raccoglie e se lo porta a casa. Questo oggetto sa infondere in lui l'entusiasmo di ricominciare a collezionare.

(2) Il riferimento principale nell’utilizzo dell’aggettivo “incarnato” è alla storia dell’estetica, in particolare ad Arthur C. Danto e alle sue traduzioni italiane; anche Giovanna Zoboli parla di “cultura incarnata” nel suo articolo “Immagine e parola” sul numero 20 della rivista Hamelin del 2008.

(3) Il film è basato sulla storia dell’omonimo libro di Joan Lindsay.