Di chi sono le parole?

Inauguriamo la ripresa del blog, dopo la pausa estiva, con la nostra prima novità, da qualche giorno in libreria, Io ti domando, illustrato da Guido Scarabottolo. La introduce Giusi Quarenghi, sua autrice, con questa riflessione che spiega le ragioni di una rilettura della Bibbia, a partire dalle sue storie e dal loro contenuto, che offrono inesauribili possibilità di senso e di riflessione (che di senso e riflessione, come è sotto gli occhi di tutti, siamo bisognosissimi). Questo testo esce a dieci anni esatti dalla sua pubblicazione presso Rizzoli, con le illustrazioni a Michele Ferri.

[di Giusi Quarenghi]

Sii paziente con tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore

E cerca di avere care le domande stesse

(R.M.Rilke, Lettere a un giovane poeta)

 

«… di fatto, basta essere lettori», scrivono Amos Oz e Fanja Salzberg in Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica (Feltrinelli, Milano 2012).

E ben prima, Emmanuel Levinas aveva detto che ogni lettura mette al mondo un senso e ogni non-lettura lo trattiene nel silenzio. E, sulla sua scia, Paolo De Benedetti coltivava una profonda passione per il settantunesimo senso… settanta sono i significati, settanta, numero per dire la totalità compiuta e insieme l’infinitezza dei significati che, pure, non rendono né impossibile né importuno il settantunesimo. L’interpretazione, come l’opera, è aperta.

È grazie a loro che ho incominciato a leggere la Bibbia, dopo i quarant’anni (che, a proposito di numeri e non a caso, è il tempo dell’attraversamento del deserto…). D’altra parte, negli anni della mia formazione, almeno fino ad un certo punto solidamente cattolica, la lettura della Bibbia non era né prevista, né contemplata, né favorita, né consigliata. Il mio deserto era dunque un susseguirsi di dune di ignoranza, frammista a indifferenza e disinteresse, punteggiate, qua e là, da montagnole da talpa di senso di inadeguatezza: senza fede com’ero e senza una pratica religiosa, mancavo a mio parere degli elementari pre-requisiti e non potevo certo presumere di disporre degli strumenti necessari a una lettura di quel calibro. Ero solo una che leggeva. Non poteva bastare.

«Prendi e leggi», si era sentito però dire Agostino nella Confessioni; lui l’aveva scritto e io l’avevo letto.

«Prendi e leggi», mi aveva semplicemente detto più tardi anche Paolo De Benedetti.

«Prendi e leggi» era anche scritto sulla presentazione di Biblia, l’associazione laica (qualifica fondamentale e possibile!) di studi biblici a cui Paolo De Benedetti aveva dato vita con Agnese Cini negli anni Ottanta (e che frequento da vent’anni). Potevo, dunque, prendere il Libro e leggerlo. Ho incominciato e ho continuato, a leggere e a rileggere; in avanti, all’indietro e per traverso; senza finire e senza finirlo, perché finire, nel senso di giungere alla fine e quindi chiuderlo, ho capito presto che, con questo libro, non è possibile e, soprattutto, è di scarsissimo interesse.

Di fatto la Bibbia, come tutti i grandi libri, è capace di questo: non la lasci, e non ti lascia.  E leggendola - come altri libri suoi colleghi, alcuni della sua età, altri più e anche meno giovani, chiamati classici- t’accorgi che danno credito a più cose: alla tradizione orale che li precede e li accompagna, alla scrittura, alla forma libro, al tempo e alla pratica del leggere e  dell’interpretare, alla funzione del lettore, all’ascolto, al ricordo e alla trasmissione, al commento, che è sì a misura del testo stesso, ma allo stesso tempo, e a volte soprattutto, di chi legge e dei tempi e del contesto culturale in cui il testo viene letto.

Questi libri di lungo, lunghissimo corso si portano dietro e dentro le loro storie, ma anche la storia/le storie delle loro storie, da quelle che precedono il testo originale a quelle che gli crescono accanto, lo accompagnano e lo seguono, illuminandolo e anche oscurandolo; a partire da quella lettura particolare e traghettante che è la traduzione, le traduzioni, vale a dire quello che si può/si riesce/si vuole/si crede di poter trasportare da una lingua ad un’altra, per altri, che quella prima lingua raramente conoscono. Ma la conoscenza della lingua d’origine non è garanzia di un’unica traduzione e di un’unica interpretazione, anzi!

Questi libri si portano dietro e dentro l’andare e venire delle risposte alle domande: «Chi è il padrone delle parole e della parola, e quindi di quello che significano? Di chi sono le parole? Di chi le dice? Di chi le riceve? E il senso dove sta, tutto e solo nelle parole o nel segmento che unisce testo e lettura? E per chi sono le parole?». La Bibbia qui non scherza, parte dall’alto, anzi dall’altissimo; si parla di Dio, anzi è Parola di Dio. Parola di Dio, sì, ma in forma umana, quanto umana. E in questo cortocircuito tra finito/infinito, tempo/eternità ci si può perdere.

Ma le parole tengono il filo, le parole ti tengono. Il testo le fila e filano il testo. Partite in ebraico, e poi in greco, in latino, nell’italiano, e nelle varie lingue nei secoli, e nel variare delle stesse lingue, secondo o contro le dottrine dei secoli, e secondo quanto i tempi erano in grado di capire, volevano intendere o si guardavano dall’intendere o dal lasciar intendere. Leggi e senti che sono parole che ti guardano da lontano, che vengono da lontano e ti aspettano più lontano ancora, eppure sono qui: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore», si legge in Dt 30.

Perché, allora, non mettere i ragazzi in contatto con questa lettura, al di fuori di ogni altro intento che non sia la conoscenza del testo? Perché non mettersi a leggere, insieme a loro e poi parlare, ascoltare e parlare, ascoltare e discutere? A volte anche accompagnando la lettura con i commenti già scritti e con le interpretazioni già attestate, per allargare la ricerca di senso, la possibilità di continuare il commento e aggiungere interpretazioni.

Porsi di fronte al testo in chiave interrogativa vuol dire fare una lettura d’autore, attiva: interrogare il libro e farsi interrogare dal libro. Infinite tracce di questo atteggiamento, di questo modo di procedere, sono nei commenti talmudici e nella tradizione midrashica, che si regge e poggia su una disposizione all’indagare e al pretendere. Cerco il senso, ogni senso possibile, quasi pretendo dal testo e da me di giungere al senso, a un senso possibile, per il testo e per me. Un corpo a corpo, la lotta con l’angelo («Nessun sentiero inganna, nessun presagio mente / Chi ha lottato con l’angelo resta fosforescente» così scrive Maria Luisa Spaziani in una poesia per dire della poesia: siamo in territori molto affini). Lotta dove non conta chi vince, conta e vale, quanto, il corpo a corpo, la non paura del farsi vicini, fino all’incontro, fino allo scontro. C’è qualcosa di magnifico in tutto questo, e di irrinunciabile. Di fatto, credo sia il senso più vero e gustoso di essere lettori. Basta esserlo, per diventarlo, grazie a quella pazienza che Rilke amorevolmente consiglia.

[Tutte le immagini del post sono tratte da Io ti domando, di Giusi Quarenghi e Guido Scarabottolo.]