Dietro a una foto c'è sempre qualcosa. E anche di fianco, di sopra e di sotto. C'è tutto quello che abbiamo scelto di escludere, importante nella costruzione dell'immagine quanto quello che abbiamo deciso di mettere dentro. Lo chiamiamo fuori campo, forse perché pensiamo che da quel campo non possa crescere niente di buono. Eppure a volte si può cogliere qualcosa di interessante anche lì.
Ho scattato Clandestino nel cortile di un grosso negozio di ferramenta a conduzione famigliare. Da tempo avevo smesso di frequentare i musei per bazzicare i ferramenta, dove ci sono tante piccole opere d'arte che non solo puoi toccare ma anche acquistare e portare a casa.
Nel cortile svettavano gli amplificatori appesi ai lampioni, utilizzati per richiamare l'attenzione dei commessi o per annunciare ai clienti l'imminente chiusura del negozio. A un certo punto l'anziano gestore è uscito ad accogliere un fornitore. Ha preso in consegna una bici elettrica nuova di zecca e l'ha provata compiendo una gimkana rapidissima tra le auto parcheggiate, le statue del David in miniatura e le cucce per cani. Il grembiule grigio svolazzava alle sue spalle come il mantello di un supereroe. In quel momento gli amplificatori hanno iniziato a gracchiare e la voce piena di apprensione della moglie del proprietario si è propagata per tutto il cortile simile a un monito papale: "Angelo, ti prego scendi da quel motorino! Angelo, guarda che ti fai male!"
Con un occhio mi godevo questa bagarre famigliare e con l'altro ammiravo i soliti nani da giardino tra i quali si era intrufolato un topo, il clandestino del titolo. Il topo aveva lo sguardo rivolto verso di me e la mano destra appoggiata sul petto. Era proprio una mano, non una zampa. Sembrava dirmi: "Scegli me, scegli me". Ho scattato la foto. Quel giorno ho incontrato due clandestini: uno l'ho immortalato, l'altro rischiava la morte su una bici a motore.