Oggi vi presentiamo il libro La luce di Chenxino, giovane studentessa dell'Accademia di belle Arti di Bologna, uscito in occasione della Fiera di Bologna, attraverso le parole di uno dei suoi professori, Emilio Varrà (che ringraziamo), che l'ha visto nascere e ha da raccontare cose interessanti su come un progetto prende forma, soprattutto come in questo caso in cui il libro ha avuto diverse versioni, a inchiostro su carta cinese, a pennarello, a incisione.
[di Emilio Varrà]
Ho avuto l’occasione di conoscere e di passare con Chenxino lo scorso anno, perché frequentava il corso di Scrittura creativa all’ultimo anno del Biennio di Illustrazione per l’Editoria, all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove insegno. In realtà si era già fatta notare all’inizio dell’anno precedente. Avevamo invitato a scuola un ospite illustre, ora non ricordo più se fosse Lorenzo Mattotti o Luigi Serafini. Comunque un incontro speciale e l’atmosfera lo testimoniava: Aula Magna piena, studenti e studentesse sedute anche per terra, una concentrazione densa come il contenuto che via via veniva fuori dal dialogo. Arriva il momento per le domande e per prima si alza la mano di una studentessa cinese. Non è cosa comune: spesso i nostri studenti cinesi si riconoscono per la timidezza e per un’esitazione che per forza di cose deriva dalla maggiore difficoltà ad esprimersi in italiano. Non era questo il caso: mi stupisco e - non lo nascondo - con un poco di esitazione le dò la parola. La ragazza fa una domanda che riguarda l’ispirazione e il senso del fare arte. Mi sembra una domanda un po’ generica e già guardo speranzoso ad altre mani e altri interventi. L’artista non si scompone, prende sul serio la questione e comincia a rispondere. È la prima volta che imparo a conoscere l’effetto Chenxino, ovvero quella sua capacità di andare dritto alla verticalità delle cose, con una semplicità e seraficità che non si vergogna di toccare le questioni di base, le radici del fare, il senso di creare e dell’esistere. Caratteristiche queste quasi infantili, se si intende l’infanzia come età filosofica per eccellenza, capace di coniugare il dettaglio concreto all’interrogativo metafisico, la grammatica di un gesto al paesaggio interiore che l’ha generato. Da allora fatico a ricordare incontri in cui puntuale non vedevo la sua mano alzarsi e la sua voce porre interrogativi, tanto che pian piano la cercavo nel pubblico, prima ancora di dare spazio alle domande degli allievi.
Non mi era quindi sconosciuta quando ha cominciato a frequentare il corso e sempre era a chiedere, durante e ancor più dopo la lezione, a volte quasi insopportabile per l’ostinazione con cui voleva capire ciò che le era sfuggito o a replicare con aggiunte a ciò che era stato detto. Eppure questa ostinazione, insieme alla sua insopprimibile curiosità, sono qualità che ho imparato ad apprezzare perché man mano le riconoscevo come le forme più evidenti della sua necessità artistica, e dico necessità perché davvero non potrei pensare altro termine: Chenxino non può far altro che studiare le immagini e le idee degli altri per fare le proprie, con una velocità da mitragliatrice. Con la stessa puntualità delle sue domande, alla fine delle lezioni mi fermava, con il suo sorriso e sguardo luminoso, e mi chiedeva: «Prof, ho fatto un nuovo libro, possiamo guardarlo?»
In una di queste occasioni sono comparse le maschere: maschere di animali indossate da bambini o bambine, o almeno così sembrava per la sproporzione tra la grandezza delle teste e i corpi minuti, che quasi faticavano a sopportarne il peso. Erano disegni vivaci, felici nella loro freschezza, ma non era questo a colpirmi: avevo già imparato a conoscere la bella gestualità del suo segno e la duttilità nell’usare diverse tecniche, con una naïveté solo apparente. Effetto Chenxino, appunto. In quelle maschere si vedeva anche altro: al di là della piacevolezza, scorreva una sofferenza sottile, ma molto palpabile, che rendeva i personaggi allo stesso tempo carini e fragili, fino a lambire certe corde del tragico. Il testo non toccava toni patetici, né un lirismo che si rivela quasi sempre una trappola: era secco e sintetico, concentrato sulle azioni elementari dei personaggi ma capace, in rapporto con le immagini, di far emergere dalla concretezza l’eco profonda della loro interiorità, la solitudine, l’incomunicabilità, la difficoltà a farsi capire dall’altro. Mi è sembrato allora di avere di fronte una sensibilità rara, per la capacità tutta sua di poter raccontare l’infanzia proprio nella sua essenza puer, che travalica le età anagrafiche e le anima con la vitalità del gioco e con la malinconia delle creature che vivono sulla soglia. Queste maschere sono rimaste e facevano capolino nelle storie che via via Chenxino mi mostrava. Una sera me ne parla anche Stefano Ricci, sue docente del laboratorio di Illustrazione, con la cura e l’attenzione di chi ha capito di avere di fronte una piccola cosa preziosa.
Verso la metà del corso si presenta il testo di quello che diventerà La luce. Dico che si presenta, perché il ricordo che ne ho è come di un germoglio spontaneo o di qualcuno che semplicemente bussa alla porta ed è davanti a te. Succede a volte che la tensione di uno studente o di una studentessa, il suo lavoro e le radici del suo sentire improvvisamente trovino una strada che è la loro, uno zampillo da pozzo petrolifero che assume una forma che si capisce subito essere giusta, ovvero che non può essere altra. Certamente poi ci sono – e ci sono state – rifiniture del testo, il confronto sulla sequenza di certe pagine, sul ritmo delle frasi e del giro pagina, ma a partire dalla convinzione che il terreno era quello, ed era solido. Diverso è stato il processo sul piano della realizzazione delle immagini, perché davvero Chenxino non riusciva a decidere la tecnica con cui eseguire i definitivi. Il risultato è stato, complice lo stesso Ricci, che il progetto di tesi si è moltiplicato e di quella che sarà La luce esistono tre versioni: a inchiostro nero su carta cinese, a pennarello, a incisione. In questa veste tripla ho mandato il libro a Giovanna, come ha già raccontato.
A leggerlo oggi, fuori dall’aula, sento ancora più forte la stratificazione del libro, nascosta dietro alla sua limpidezza. Il lavoro editoriale che ne è stato fatto l’ha rafforzato e reso ancora più luminoso. Infatti, il titolo mi sembra assolutamente centrato perché la luce si fa vedere subito, è evidente ai nostri occhi e sembra tutta lì, ma illumina e nasconde, barbaglia e riflette, cambia l’atmosfera e gli umori. La storia è piena di interrogativi irrisolti, al di là dell’innamoramento, inspiegabile per definizione. Il valore della maschera, ad esempio, muta continuamente: modo per farsi notare o per nascondersi? Totem per proteggere l’innamorato o trappola e ossessione per chi la indossa? E il ragazzo, quando davvero si accorge di lei? E quale importanza le dà? Lo stesso finale ci cattura per la tenerezza del gesto che racconta, ci strappa un sorriso di consolazione, ne gustiamo la dolcezza, ma mi sembra molto più aperto di quello che ci piacerebbe sperare. Maledetto effetto Chenxino.
Le immagini di questo post sono tratte da La Luce nelle sue tre versioni: a inchiostro su carta cinese, a pennarello, a incisione. La versione definitiva è quella a pennarello.