Farm Cultural Park

[di Francesca Zoboli]

Quando si arriva a Favara, in provincia di Agrigento, la prima impressione è piuttosto desolante: la valle dei Templi è alle spalle e salendo si palesa questo agglomerato di brutte palazzine  più o meno abusive o non terminate, cresciute come funghi in un contesto privo di piani urbanistici. La solita spazzatura in giro. Tutto questo, poi, in contrasto con una natura e un paesaggio esplosivo, smagliante.



Addentrandosi nella città si scopre che, come sempre, dopo la periferia c’è un centro, antico, con palazzi nobiliari come il castello Chiaromonte, la piazza del Municipio, la via principale, (rigorosamente da percorrersi in automobile); inoltrandosi ulteriormente, ci si trova in una zona totalmente abbandonata, quasi uno scenario di guerra, fra balconcini e frontoni barocchi, piante ansiose di riguadagnar terreno: è la parte più antica, il cuore della città. Ci si domanda come sia potuto succedere.

È qui che è nata Farm Cultural Park, un progetto grazie a cui si sono sviluppate interessanti attività economiche e opportunità di lavoro legate a un nuovo flusso turistico: nei giorni della mia permanenza si parlava molto in inglese, francese, spagnolo, svedese, complice forse il movimento creato dall’ultima edizione di Manifesta, biennale di arte contemporanea che quest’anno si svolgeva a Palermo.

Farm è la realizzazione di un’utopia, nata da una coppia di mecenati che ha deciso di dedicare le proprie energie economiche e personali alla creazione di un cantiere culturale di condivisione sociale che potesse restituire vita alla parte della città in abbandono. A determinare questo progetto ha contribuito anche un fatto di cronaca: in seguito al crollo di una delle vecchie case che provocò la morte di due bambine, il sindaco rispose con una politica di demolizioni preventive nell’area incriminata. Fu a questo punto che la Famiglia Bartoli acquisì un quartiere di quest’area per risanarlo e mettere in atto un piano di recupero edilizio: sono nati così i sette cortili, una sorta di Kasba siciliana, i cui spazi ospitano mostre, conferenze, workshop imperniati intorno all’interesse per l’arte contemporanea e l’architettura. Tutto funziona grazie a una comunità di persone che sta provando a cambiare lo status quo e a immaginare un futuro diverso.



In questi anni la fama di Farm si è allargata a tutto il mondo: qui sono passati studenti da Tokio, Berlino, Boston, Tunisi, Parigi, oltre che da varie università italiane e siciliane. Hanno soggiornato artisti in residenza; hanno tenuto lezioni, conferenze e workshop architetti, designer, musicisti, creativi, fra i quali vorrei segnalare il filosofo Luca Mori che da anni sta girando l’Italia e lavorando al progetto sulle utopie immaginate dai bambini.



Qui è stata fondata SOU, la scuola di architettura per bambini, creata «affinché possano essere abituati alla libertà di pensiero, alla magia della creatività, alla vocazione a realizzare sogni, al desiderio di rendere possibile l’impossibile». Lo stesso nome della scuola è un omaggio all’architetto giapponese Sou Fujimoto, la cui visione dello spazio e dell’abitazione è un sorprendente e continuo ribaltamento fra interno e esterno, che molto ha a che fare col gioco e con gli esperimenti infantili di costruzioni di case, capanne, rifugi.

Proprio a Favara, quest’estate, ho avuto l’opportunità di sviluppare due progetti per SOU, insieme a  Marco Imperadori, professore di Ingegneria al Politecnico di Milano che da alcuni anni collabora con Farm. Entrambi i workshop sono stati resi possibili dalla partecipazione dell’azienda Wall&Decò, per cui progetto wallpaper da alcuni anni, che ha reso disponibili i materiali necessari.

Il primo workshop prevedeva il posizionamento di un mio wallpaper  su un muro esterno di una delle corti. Questa idea di lavorare su una grande superficie si inserisce in una pratica seguita da Farm nel recupero dei cortili e cioè di legare l’architettura alla decorazione murale e alla street art, spesso utilizzando grandi campiture cromatiche, a volte con strutture optical o astratte, interventi in continua trasformazione e cambiamento nel tempo a cui sono chiamati di volta in volta artisti diversi.



Mare nostrum è il titolo del workshop, che è il nome con cui gli antichi romani chiamavano il Mediterraneo.

Per lo storico Fernand Braudel il Mediterraneo è un’immensa spugna che si è lentamente imbevuta di conoscenza: «Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre, insomma, un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere», e ora anche oscuro spazio al centro di migrazioni epocali. La Sicilia è da sempre al centro di tutto ciò.

Come potete vedere dalle foto, si tratta di una grande campitura a righe leggermente ondulate, ma solo vedendo le navi posizionate nella fascia alta della composizione si capisce che questo grande spazio, alto più di due metri, è il mare. I bambini sono stati invitati a disegnare il loro mare, con pennelli grossi e solo con il colore nero.

Ne è nato un grande graffito collettivo, bellissimo e fatto di segni potenti intrecciati a scritte, a immagini di mostri, pesci e sirene, leggende e storie tutte mescolate.



Novelli paleolitici o graffitisti? Hanno dipinto salendo uno sulle spalle dell’altro per raggiungere anche le zone più alte, riscoprendo le impronte delle mani e saturando ogni centimetro della superficie, trasformandola in un racconto denso e profondo come il mare. La cosa più difficile è stata farli smettere.

 

Il secondo workshop, Occupy Favara, ideato da Marco Imperadori, prevedeva la costruzione di casette di cartone abitabili. Qui, sempre grazie a Wall&Decò, ho proposto di utilizzare scarti di produzione dell’azienda in funzione decorativa, mentre i cartoni per la costruzione delle casette sono stati forniti da Comieco.

Per le vie del paese, grazie a una trentina di studenti del Politecnico e dell’Università di Sydney in visita e ai bambini di Sou e della zona, si è creato un laboratorio estemporaneo di collage e ritaglio che è culminato in una divertente e improvvisata processione, che ha trasportato i manufatti nella piazza del municipio dove bambini e casette sembravano rivendicare il diritto a una città diversa.