Haiku siberiani ovvero guardare il mistero della vita

[di Giulia Valsecchi]

In terza, generalmente propongo ai miei alunni la lettura di un romanzo storico; quest’anno la difficoltà consisteva nel fatto che i miei ragazzi non sono molto abituati a leggere: la quasi totalità, infatti, non può essere definita di buoni lettori. Così ho optato per una graphic novel, Haiku siberiani di Jurga Vile (autrice) e Lina Itagashi (illustratrice). Il titolo rimanda alla presenza, nella narrazione per parole e immagini del libro, degli haiku, antichi componimenti poetici giapponesi.

Il mio intento era di rendere ai ragazzi più facile l’atto del leggere grazie anche alle immagini.

Con mia grande sorpresa, però, è risultato ostico: la lettura di Haiku siberiani racconta la storia del padre dell’autrice, Jurga Vile, deportato in Siberia, con la sua famiglia, dopo che il suo Paese, la Lituania, fu invaso dall’Unione Sovietica. Il libro comincia con il ritorno in Lituania di alcuni dei bambini deportati, ottenuto grazie a un accordo tra il governo russo e alcuni abitanti del villaggio impegnati a far rientrare in patria i minori fatti prigionieri. A questo episodio segue il racconto delle vicende che hanno preceduto il rientro in patria dei ragazzi: l’arrivo dei soldati russi nel villaggio di Algis, la deportazione della famiglia, il lungo viaggio verso la Siberia e la terribile vita di stenti nel gulag, ma anche il forte amore per la vita dei ragazzi che vince su tutto. Alla prima lettura, i miei studenti sono rimasti disorientati davanti a questo inizio: non hanno capito il senso del flashforward e per loro è stato faticoso che gli avvenimenti non fossero raccontati in modo sequenziale. Come ha osservato A. la storia è scritta con una sorta di tecnica patchwork.

Dopo aver completato una seconda lettura, ho chiesto ai ragazzi cosa avessero capito, cosa li avesse colpiti. Questa la riflessione di uno di loro: “Io ci sono rimasto molto male quando Martino il papero è stato fucilato da una guardia russa, mi ci ero molto affezionato a quel papero, ma mi ha fatto piacere che però il suo spirito sia rimasto con Algis. Questo libro mi ha colpito molto e lo consiglio a chi piace la Storia e in Storia gli è piaciuto l’argomento dei gulag”.

 

In seguito, abbiamo lavorato sul rapporto immagine/parola della graphic novel, a partire dal capitolo I giapponesi, con uno spunto dato dalla citazione del famoso quadro di Van Gogh (a sua volta ispirato a una illustrazione di Gustave Doré): La ronda dei carcerati (citato in apertura di capitolo). A partire dalla somiglianza con il quadro, ho mostrato che nessuno dei personaggi nelle prime due pagine guarda verso il lettore, nell’ultima pagina, invece, i giapponesi guardano oltre la pagina: come mai, ci siamo chiesti? Durante la spiegazione ho illustrato loro gli scambi degli sguardi, la posizione dei personaggi all’interno della pagina, cercando di proporre un’analisi visiva delle tavole.

In seguito, siamo passati al plot narrativo: in questo capitolo si racconta come Petronilla, zia di Algis, amante dei libri e innamorata della cultura giapponese, avendo scoperto che oltre le alte staccionate vicine alle loro baracche si trova un campo di prigionia di soldati giapponesi, scriva per loro degli haiku e chieda ad Algis e ai suoi amici di gettare loro, in segno di solidarietà e amicizia, i foglietti appallottolati che li contengono, di nascosto dai soldati russi. In cambio degli haiku ricevuti, i prigionieri giapponesi lanciano a Petronilla e ai ragazzi degli origami, piccole sculture di carta tipiche della tradizione giapponese.

Queste le parole di E. che per motivi tecnici ha concluso il lavoro dopo i suoi compagni:

“Il racconto del nipote di Petronilla ci fa capire che al di là delle transenne c’era un campo di concentramento dove i Russi detenevano dei giapponesi. Tutte le sere i cancelli del campo si aprivano e uscivano carri pieni di poveri uomini magrissimi morti che li portavano via. Nel libro infatti c’è una illustrazione del carro con gambe di uomini nudi penzolanti dal carro. Inoltre ci sono disegnati tanti uomini vestiti uguali messi in cerchio che camminavano con le mani dietro la schiena. Un uomo di questi è disegnato col volto emaciato, triste e buio. Zia Petronilla infatti li aveva visti da un buco della staccionata e aveva detto che camminavano come lancette di un orologio, cioè a ritmo costante.

 La zia stabilì un contatto con questi poveri uomini giapponesi e siccome la zia era una appassionata del Giappone, per rallegrarli un po’ iniziò a scrivere su dei foglietti degli Haiku, cioè piccole poesie che servono a prosciugare il chiacchiericcio dell’anima.

Un disegno colorato con un grande albero illustra i bambini che aiutano la zia a far arrivare gli Haiku ai giapponesi.

Nella pagina successiva sono rappresentati i foglietti con le scritture giapponesi e la traduzione italiana scritta a fianco con dei disegni per far capire meglio il loro significato, come in un diario. Nell’ultima pagina c’è la descrizione e il disegno di quando i giapponesi ricevono gli Haiku e li leggono prendendoli in mano. Si vede infatti il disegno di un paio di mani che tengono aperto il fogliettino. I giapponesi facevano il loro verso “Ho Ho!” allegramente. Quei prigionieri erano molto cari a zia Petronilla e a tutti i bambini perché ci ricordavano i loro padri deportati chissà dove. Gli volevano bene anche se non li avevano mai visti. C’è un’illustrazione con tanti volti di quegli uomini (…)”.

La storia raccontata da questa graphic novel ci ha dato lo spunto per occuparci, in classe, anche di haiku. Nel libro ci sono due begli esempi di cosa sia un haiku, ma ugualmente molti ragazzi sono rimasti disorientati di fronte a questo modo di fare poesia, tipico della tradizione nipponica: “Prof proprio non li capiamo.”

Ero disorientata anche io perché non conoscevo gli haiku, così, dopo aver chiesto aiuto a Valentina Pellizzoni di Spazio Libri La Cornice, di Cantù, libreria che frequento, e a Giovanna Zoboli, ho letto L’Impero dei segni di Roland Barthes.

 

È stato molto bello approfondire questo tema, perché ho scoperto, e spiegato ai ragazzi, che gli haiku nascono in un momento di disorientamento, a volte un déjà-vu, a volte un riconoscimento strano nella nostra quotidianità che non si riesce ad afferrare.

Ma l’haiku non è come la poesia occidentale alla spasmodica ricerca del senso e del significato: l’haiku si ferma e lascia spazio alla contemplazione creando una specie di vuoto in cui raccogliersi.

La mia conclusione è stata che avevano capito di cosa si trattasse senza averli capiti.

Così, dopo aver letto e fatto analizzare ai ragazzi alcuni haiku tratti da Haiku Il fiore della poesia giapponese di Oscar Classici (sempre suggeriti da Valentina e Giovanna), ho deciso di concludere l’attività, mettendoli alla prova: scrivere un haiku.

Siamo scesi in cortile e ho chiesto loro di sdraiarsi supini e di contemplare il cielo per 15 minuti. Tornati in classe, ho chiesto di racchiudere le loro impressioni nelle poche parole di un haiku.

Il lavoro però non si è concluso qui. Per la cultura giapponese, infatti, il gesto ha un valore immenso, anche quello della scrittura che è pittografica e non alfabetica.

Quindi, ho fatto preparare i supporti su cui scrivere: dei quadrati che abbiamo ottenuto partendo da fogli A4 colorati. Su questi, hanno trascritto nel modo più preciso e chiaro possibile i componimenti.

Ho riproposto la stessa attività a casa: la consegna era scrivere degli haiku in cucina e sulla cucina e, quindi, associare alle parole un’immagine common free scaricata dal web.

Spero che il nostro piccolo tentativo di affacciarci alla cultura orientale, passando da quella lituana e da eventi poco conosciuti della storia recente, sia piaciuto ai ragazzi. A me è piaciuto, moltissimo. È così riposante guardare il mistero della vita stando in contemplazione, senza pretendere altro.