I Grandi

Doppio blu è una bellissima riflessione sull'infanzia di Bruno Tognolini, che alterna capitoli intensamente poetici a un dialogo filosofico (con un cane, su una spiaggia, di fornte al mare), su cosa significhi crescere e ricordare. Ve lo proponiamo per il consueto martedì degli Anni in tasca, collana di narrazioni autobiografiche su infanzia e adolescenza, che ha compiuto dieci anni.

Quando il bambino era un bambino di cinque anni, i grandi intorno a lui erano divini pupazzoni leggendari, iddii rutilanti sui loro trampoli, signori della vita.
Non tanto la mamma e il papà, che erano ancora generica parte di lui, un unico corpo plurale impreciso e accogliente, soprattutto quando stavano insieme con lui e coi fratelli: i grandi in quei momenti erano pur sempre signori della vita, ma girati in dentro.
Quando però i grandi stavano con gli altri grandi, soprattutto coi nonni e con gli zii, nelle visite o nelle altre occasioni della Grande Famiglia, erano sempre signori della vita ma girati in fuori, verso la vita. Parlavano fra loro così da signori, da Alti Elfi e Re, girati in fuori verso il mondo, che allora, seguendo i loro sguardi, anche il bambino scorgeva laggiù il mondo.
E com’era grande e sconfinato, rutilante e leggendario quel mondo. Si capisce che ad abitarlo e maneggiarlo occorressero proprio mascheroni divini e giganti così.
Mamma, papà, nonna Giulia, zia Nietta, zio Maurizio, zio Romano, nonna Rosella, Nonnobabbo, bisnonna. Tranne bisnonna, la mamma di nonna Rosella, e nonna Giulia, la mamma del papà del bambino, che stavano in casa e poco brigavano col mondo, tutti gli altri grandi apparivano ai suoi occhi come iddii indaffarati, senza sosta variamente impegnati in vaghe e indecifrabili ma di certo fantastiche imprese. Le Cose da Fare, che scintillanti attendevano lì, nel Mondo dei Grandi. Andare e venire, comprare e portare, uscire a lavorare e ritornare, ascoltare partite alla radio, cucinare e governare le case, accordarsi su ciò che va fatto, scandire le visite della domenica, amministrare i vestiti e i cibi, accogliere parenti sconosciuti, decidere scampagnate: ma, sopra ogni cosa, andare e venire nel mondo là fuori, nella Città dei Grandi, col sole generoso dei mattini che illuminava le cimase dei palazzi, alti timpani dei templi del destino.
Benché componessero insieme un Olimpo indistinto, il bambino rammenta i mascheroni diversi dei principali iddii, i loro grandi tratti individuali. Il Nonno capostipite, che il bambino chiamava per sue sintesi eloquenti Nonnobabbo, piccolo ma raggiante di assoluta autorità, di arcaica forza come un basso minotauro, che prendeva in braccio grappoli di nipotini con risate finte-cattive e arrossava loro le guance sfregandole all’ispida barba. Nonna Rosella, sua moglie, più alta di lui, fonte di cura, di affetto infinito e di baci, ma anch’essi mai lamentosi, mai molli, sempre vestiti di fiera e divina bontà. Zia Nietta, la sorella minore della mamma, occhi e bocca creati per ridere, un’Adulta Burattina Felice, amorosa e buffona. Zio Maurizio, il suo sposo rude e ruspante delle terre selvagge, domestico demonio cacciatore, fonte di primordiali canti sardi e sapienze remote e viaggi in lambretta in terre inaudite e lontane. Zio Antonio, figlio maggiore del Nonno minotauro, lo Zio Dottore orgoglio della stirpe, dallo sguardo profetico e ironico grondante carisma, che appariva di rado in famiglia perché stava altrove: nel remoto paese di Barbagia dove, più tardi il bambino intuì, passò la vita come medico condotto in misteriosi esìli volontari. E Zio Romano, infine, figlio minore del minotauro, Zio Giovane scapestrato e briccone, adorato e agognato campione, governatore di colombi e cani lupo, cacciatore, pescatore subacqueo, suonatore di fisarmonica e chitarra, viaggiatore su rosse moto Agusta; ma soprattutto formidabile istrione, narratore di storie inventate per i nipotini, protagonista un certo Gico Beppe che faceva squartare dalle risate.
E altri grandi di seconda cerchia, divinità minori, zii e zie, padrini e madrine, più indistinti.
Decadi dopo, il bambino, quando non era più bambino, ragionò sul fatto che questi idoli, che a lui parvero altissimi, erano tutti in realtà piuttosto bassi. Fatti salvi forse Zio Romano e il suo proprio papà, che arrivano a fatica a quella che in continente, scoprì in seguito, si sarebbe detta una statura media, tutti gli altri erano proprio una piccola gente.
Ma niente da fare: per vasta benedizione dell’infanzia, generosa di esempi e futuri, quelli, per gli anni che contano, furono i Grandi.
I suoi Grandi, signori della vita.

Al mare col cane
«Dunque ricordare l’infanzia è guardare il mare?»
«È guardare qualcosa distante, come hai detto. Oltremare.» «Mentre guardare i miei giorni...»
«È guardare l’acqua del mare in bottiglietta.»
«Trasparente, incolore.»
«Esatto.»
«Ma perché, se guardo i giorni di quel bambino, adesso mi sembrano azzurri? Prima mi era sembrato di capire...» «Ascolta. Tu cerchi di ricordarti com’eri. Come vedevi la vita quand’eri bambino.»
«Sì, e mi sembra che vedevo intorno a me una vita azzurra.» «Tu cerchi di guardare coi suoi occhi.»
«Noioso, ho detto di sì, vai avanti!»
«È per questo che la vedi colorata.»
«Per questo cosa?»
«Perché se vuoi guardare coi suoi occhi devi guardare lontanissimo. Devi arrivare dov’è lui.»
Stringo le labbra, ci penso, annuisco.
Raccolgo uno stecco di legno consunto dal mare posato lì accanto. Il mio cane mi guarda dilatando gli occhi, sfilando il muso: è allarmato. Mi viene da ridere ma non dico niente. Lui si tranquillizza, capisce: non mi accingo a lanciargli il bastoncino, voglio solo tracciare segni sulla sabbia. Marco punti, brevi segmenti e lunghe rette. Intanto riepilogo. «Ognuno, quando pensa alla vita di ora, guarda i suoi giorni.» «Sguardo corto. Poca vita di mezzo. Trasparente.»
«Se io voglio guardare la vita di allora, devo arrivare a guardare con gli occhi di quel bambino.»
«Sguardo lungo. Molta vita di mezzo. Azzurro e blu.» «Quindi il blu sta nel mio sguardo, non nel suo.» «Uhmmmmm.... Wuf!»
«Non cominciare a fare il cane tonto, ipocrita! Rispondimi: il blu sta solamente nel mio sguardo?»
«Woooouuuummmm... No.»