[di Matteo Maculotti]
Il 4 aprile scorso è stato l’ultimo giorno di vita di un albero secolare della mia città, il platano di piazza Buozzi (Milano), abbattuto la mattina seguente. Quel giorno, prima di andare a salutare l’albero nel tardo pomeriggio, ho sentito il bisogno di scrivere un piccolo racconto.
Una malattia invisibile
Sui canali social l’assessore ha lanciato la settimana del verde, la Green Week, congratulandosi da solo per i suoi progetti innovativi.
Nella piazza, intanto, alcune persone si sono radunate attorno a un grande albero antico. Si dice che stia morendo, eppure sui suoi rami sono comparsi degli splendidi germogli.
Una coppia di anziani sospira: nemmeno gli anni delle loro vite messi assieme raggiungono quelli dell’albero, che ha attraversato due guerre e conosciuto tre secoli diversi.
È un albero vecchio e malato, dice un signore. Lo scrive anche il giornale, non c’è più tempo per rimandare l’abbattimento.
Sono arrivate le squadre dei tecnici per le ultime misurazioni. Hanno avvolto il tronco dell’albero con delle corde bianche, e sui loro computer controllano i risultati degli esami.
Si chiamano arboricoltori, spiega una maestra a un bambino. Sono i giardinieri degli alberi.
Che strano, pensa il bambino. È un albero gigante, ma quegli uomini non sembrano nemmeno accorgersi della sua bellezza, indaffarati come sono a leggere numeri sulle loro calcolatrici. E a scuola non ha mai sentito parlare di giardinieri che invece di prendersi cura di una pianta la uccidono.
Il bambino sta pensando al nonno in ospedale. Anche se l’albero è malato, sussurra, meriterebbe di vivere fino alla fine. È un’ingiustizia tagliarlo all’improvviso, per di più in una bella giornata di primavera.
Ma è pericoloso tenerlo così, osserva la maestra. Potrebbe cadere e far male a qualcuno.
Il bambino è incredulo. Non possiamo spostarci? Non si può costruire una recinzione per lasciarlo tranquillo? Ricorda che ai giardini vicini a scuola, durante una gita, ha visto un vecchio albero con le stampelle. Sa anche che nei boschi gli alberi si sostengono a vicenda con le loro radici, che sottoterra possono allungarsi anche per chilometri, ed è triste perché molti alberi soli e maltrattati dagli uomini, in città, crescono per forza deboli e si ammalano facilmente.
Ripensa a quando tutte le scuole erano chiuse per l’emergenza, e poi agli esami che hanno trovato una brutta malattia nei polmoni del nonno.
È una malattia invisibile di cui un bambino non può dire niente, ma qualcuno ha provato a capire davvero cos’è?
La squadra ha presentato un documento con una lista di numeri e sigle. Si tratta di una squadra di esperti: ci si dovrebbe fidare a occhi chiusi delle loro misurazioni. Ripetono che non c’è tempo da perdere. Chiamano al telefono l’assessore, mettono al sicuro gli strumenti e poi il loro furgone bianco si perde nel traffico delle macchine che corrono via dalla piazza.
Il bambino prova a immaginare il volto dell’ultimo giardiniere. Vorrebbe accarezzare l’albero, perché ha paura che il rumore della sega elettrica coprirà il suo pianto, e allora nessuno si accorgerà di quanto ha sofferto.
La piazza si è svuotata, ma lassù fra i rami c’è un nido. Il bambino cerca gli uccelli in volo nel cielo, e per un momento sogna di volare lontano, verso una città più saggia, dal respiro più profondo e dal cuore molto più grande.
Temo che in molte città italiane si stia accentuando questa tendenza all’abbattimento di alberi storici, secolari o addirittura monumentali. A Milano, oltre al caso del platano di piazza Buozzi, ho raccolto in pochi giorni notizie di altre iniziative simili, alle quali i cittadini più sensibili e volonterosi cercano di opporsi con appelli e petizioni. Una secolare quercia madre, da cui ha avuto origine una foresta urbana, è stata abbattuta per consentire la costruzione di nuovi insediamenti universitari, e altri alberi importanti, tra cui quattro tigli pluridecennali e uno storico glicine, saranno probabilmente sacrificati per far posto a un museo. In una scuola elementare è stato deciso l’abbattimento di tutti gli alberi del cortile, per non ostacolare i lavori di ristrutturazione. I bambini hanno salutato gli alberi con abbracci e disegni, e all’ultimo momento il municipio ha disposto un nuovo sopralluogo; ma se il copione sarà lo stesso già visto in piazza Buozzi, si tratterà solo di posticipare di qualche giorno o settimana il loro abbattimento.
Ho stampato alcuni articoli di giornale e ne parlo in classe coi miei alunni di quinta, che sottolineano subito l’assurdità di quest’ultima situazione: per rinnovare la scuola si decide di eliminare ciò che c’è di più bello, e lo si fa senza nemmeno interpellare i bambini, che quel luogo lo abitano ogni giorno. La mattina del 5 aprile, mentre in piazza Buozzi si procede all’abbattimento del platano secolare, parliamo così di questa preoccupante tendenza che si sta diffondendo nella nostra città, e poi leggiamo la storia che il giorno prima ho sentito il bisogno di scrivere, forse proprio per poterla leggere e discutere assieme. Ancora prima che inizi la lettura ricevo già l’ennesima conferma del fatto che i miei alunni possiedono antenne sensibilissime. «Ma l’hai scritta tu?» chiede una voce dalla prima fila. Faccio finta di non aver sentito, perché voglio che la risposta arrivi da alcuni indizi come l’albero con le stampelle (che abbiamo visto l’anno scorso «ai giardini vicini a scuola, durante una gita») o i tecnici con le calcolatrici (ispirati ad alcune descrizioni di adulti che «non s’interessano più che di cifre», e così perdono di vista il mondo, trovate nel Piccolo Principe).
E a proposito di questa combinazione con l’opera di Antoine de Saint-Exupéry, sono contento che la lettura sia arrivata, come spesso accade, al momento giusto. Qualche settimana fa, il capitolo XV ci ha permesso con le figure del geografo e dell’esploratore di imbastire una nuova introduzione alla geografia per accogliere il nuovo compagno proveniente dalla Somalia (e la gentilezza di due collezionisti ci ha consentito di donargli una stampa del libro in somalo, oltre alle edizioni in lingua italiana e inglese). Oggi, invece, la storia di una malattia che sembra coinvolgere in modo misterioso l’albero e la vita del nonno, e forse quella di tutti i cittadini, ci introduce alla lettura dei capitoli XX e XXI, i capitoli del roseto e della volpe, che parlano di cose invisibili ma essenziali, e piuttosto facili da dimenticare.
Di fronte a un roseto, il piccolo principe scopre deluso che il suo fiore non era l’unico della sua specie, e per un momento smette di crederlo speciale. Sarà la volpe a insegnargli il potere dei legami: «Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo». E il piccolo principe, che comprende subito questa verità, osserva pensieroso: «C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato». (Consiglierei di rileggere questi due capitoli all’assessore che in un commento sul platano abbattuto ha scritto: «C’è un viale intero!», come a dire cosa volete che sia un albero in meno…)
Un alunno ricorda di quando al consiglio dei ragazzi del nostro municipio, alla richiesta di più giardini e aree verdi, un funzionario aveva risposto orgoglioso che era già stata pianificata la realizzazione di nuovi campi da calcio. Un altro alunno coglie con una smorfia l’ipocrisia che spesso si cela dietro la parola “sicurezza”. Un’alunna dice di aver apprezzato nel mio racconto la scelta di parole che tutti possono capire, e con le quali si può parlare anche di questioni complesse e importanti. Questa osservazione mi fa molto piacere, perché durante le nostre letture abbiamo più volte provato a ragionare su una profondità che è alla portata di tutti, e può nascere da frasi semplici e parole di uso comune (come abbiamo visto ad esempio nelle poesie dei bambini raccolte da Chandra Livia Candiani e Andrea Cirolla nel libro Ma dove sono le parole?). Molto sentita è stata in particolare l’analogia tra il vecchio albero e il nonno, anticipata prima della lettura dall’intervento di un’alunna che lo scorso autunno aveva scritto un racconto fantastico sull’incontro col nonno che non ha mai conosciuto. «Tagliare gli alberi vecchi è come uccidere gli anziani. Si pensa che tanto non servono a niente, che sono solo un peso.»
La sera stessa trovo sui social le foto del tronco del platano abbattuto. Mi chiedo come sia possibile che un albero definito malato, in fin di vita, senza speranze, con ampia necrosi in corso, appaia in questo stato. Fra i commenti c’è anche chi parla di ciclo naturale della vita e della morte, trascurando che questo abbattimento è avvenuto per una nostra precisa decisione: la morte istantanea invece della tutela della vita. Tutto ciò che mi viene da dire è una sola parola: assassini.
Ho riletto un fumetto di Jirō Taniguchi, L’olmo, la storia iniziale della raccolta omonima, tratta da un racconto di Ryuichiro Utsumi. È la storia di una famiglia che si trasferisce in una villa e scopre che i precedenti proprietari hanno portato via tutte le piante del giardino, eccetto un vecchio olmo. I vicini si lamentano per le foglie di questo albero che sporcano, e fanno pressione per abbatterlo al più presto. Il protagonista sta per cedere, ma un giorno riceve la visita del vecchio proprietario, che è venuto a rivedere l’albero. Non era stato lui a vendere la casa, ma la sua figlia e il suo genero, mentre lui era in ospedale a seguito di un ictus. C’è un momento chiave della storia, in cui il vecchio proprietario parla dell’incanto delle foglie che si rinnovano ogni anno. All’ultimo istante il nuovo proprietario decide di salvare l’albero da un abbattimento già programmato, e scopre che lo stesso operaio già pronto a eseguire il lavoro si sente sollevato da questo ripensamento.
Verso la fine del racconto il vecchio proprietario osserva: «L’albero è stato il primo ad abitare questo luogo. Dopo sono venuto io, e in seguito hanno costruito le altre case. Solo perché lascia cadere le foglie lo si tratta come un peso. È l’egoismo dell’uomo arrivato per ultimo. Le grondaie dovrebbero essere pulite tutti gli anni. L’ingresso e i giardini, spazzati tutti i giorni. Vogliono farmi credere che, se non cadono le foglie, non puliranno mai?».
Il nuovo proprietario si dice d’accordo: «Ha ragione lei. Chi odia le foglie cadute si è dimenticato che viviamo con la natura».
E l’operaio, felice di poter risparmiare la vita all’olmo: «Non mi piace tagliare gli alberi. Hanno un’anima. Perciò ci ascoltano e si sforzano. Davanti a un albero che non fa frutti, o fa pochi fiori, uno dice: “Questo non va, lo taglierò”. Allora l’albero fiorisce. Quindi anche loro hanno un’anima».
Il nuovo proprietario: «Ho capito. Se quest’anno ha fatto dei germogli così belli… è perché ci sta supplicando con tutto il suo cuore».
Leggendo questo passaggio, non posso fare a meno di ripensare al platano pieno di germogli che ho salutato nel suo ultimo giorno di vita, alto nel cielo ancora chiaro del tardo pomeriggio, coi rami mossi in cima dalla brezza leggera. “Dimenticarsi che viviamo con la natura”, per me, significa vivere all’inferno, e quando si vive all’inferno capita di assistere indifferenti all’uccisione di un grande albero antico che sta rinnovando le sue foglie in una bella giornata di primavera.
Meditando sul futuro delle nostre vite sempre più urbanizzate, Thich Nhat Hanh ha immaginato una città in cui sia rimasto un solo albero. Ho letto questa riflessione in uno dei suoi libri che mi sono più cari (L’amore e l’azione), e anche se mi è tornata in mente solo dopo aver scritto Una malattia invisibile, sono certo che sia stata un’importante fonte di ispirazione per la mia storia.
Pensate a una città in cui sia rimasto solo un albero. Le persone che vivono in quel luogo soffrono di disturbi mentali, perché sono totalmente alienate dalla natura. Alla fine un medico comprende il perché di quella malattia, e ordina questa cura a ogni persona che visita: «Sei malato perché hai perso ogni contatto con madre natura. Ogni mattina dovrai prendere l’autobus, andare a trovare l’albero nel centro della città e abbracciarlo per un quarto d’ora. Osserva bene quel bell’albero verde e annusa la sua corteccia fragrante».
Dopo tre mesi di quella cura, il paziente inizia a sentirsi molto meglio. Sono molte tuttavia le persone che soffrono dello stesso disturbo, e poiché il dottore dà sempre la stessa prescrizione, dopo breve tempo c’è una sterminata coda di persone che aspettano il loro turno per abbracciare l’albero. Diventa lunga più di un miglio, e la gente comincia a dare segni di impazienza. Un abbraccio di quindici minuti per persona diventa troppo lungo, e quindi la giunta comunale stabilisce un massimo di cinque minuti. Deve poi essere ridotto a un minuto, e quindi a pochi secondi. Alla fine, non è più possibile curare quei malati.
Cerco il volume dove questo brano è comparso per la prima volta in lingua inglese, Dharma Gaia: A Harvest of Essays in Buddhism and Ecology (1990), e l’immagine che precede il testo di Thich Nhat Hanh (qui intitolato The Last Tree) mi sembra rappresentare con esattezza l’impressione che ho avuto di fronte a un grande albero solo, accerchiato dalle attività dei cittadini e dalla loro frenesia. Torno con la mente a quel pomeriggio. Accanto al platano, una fila di persone con gli occhi abbassati sul proprio telefono aspetta di consumare uno spuntino davanti a un noto chiosco di street food. Attorno alla rotonda, il traffico delle macchine prosegue inarrestabile, scandito dai segnali dei semafori. Arrivando da un marciapiede vicino, a pochi metri di distanza, sono necessari due attraversamenti pedonali per raggiungere l’albero.
Torno con la mente al momento in cui ho accarezzato la corteccia, avvertendo sul palmo della mano il tocco di una vita molto più vasta della mia, il tocco del tempo che ci ha preceduto e ci seguirà, e provando uno strano imbarazzo per quel gesto che mi è sembrato di compiere per la prima volta. Sto salutando il platano come fosse l’ultimo albero della città, e una parte di me giudica eccessiva e infantile la mia premura: non ho visto che poco più in là ce n’è un viale intero? Eppure, non è forse vero che gli alberi stanno scomparendo anzitutto dai nostri sguardi, sempre più abituati a considerarli arredi di un paesaggio urbano dove ogni cosa è artificiale, seriale e intercambiabile? La nostra città dai mille alberi soffocati dal cemento e dall’incuria assomiglia più a un deserto che a un giardino.
Voglio allora pensare a questo momento come a un dono del platano, che mi ha portato a osservarlo e a sentirlo come mai avevo fatto prima. Voglio pensare che l’albero non è stato solo la vittima inerme della nostra barbarie, ma anche il messaggero di un insegnamento che può mettere radici in ognuno di noi. Thich Nhat Hanh, scomparso l’anno scorso, raccontò l’intuizione che ebbe vedendo una foglia caduta: «bisogna vedere la vita. Non si dovrebbe dire “la vita della foglia” ma “la vita nella foglia” e “la vita nell’albero”. La mia vita è soltanto Vita, e la puoi vedere in me come nell’albero». Riuscire a vedere la vita nell’albero, allora, significa poter vedere con occhi più limpidi la nostra stessa vita, e scorgere in un singolo albero l’ultimo albero della città può essere il primo passo per costruire «una città più saggia, dal respiro più profondo e dal cuore molto più grande».
Prima di allontanarmi dalla piazza, faccio in tempo a seguire con lo sguardo un signore mentre attraversa le strisce pedonali, si ferma di fronte al platano, lo osserva guardando dal basso le sue ampie fronde e infine lo accarezza. Osservato a pochi metri di distanza, ora, quel gesto non mi appare più per nulla eccessivo o infantile. È un gesto naturale, bello e commovente come i gesti che ogni giorno osservo nei miei alunni e nei bambini della mia scuola, un piccolo gesto che di fronte all’indifferenza sembra acquisire il valore di un atto di coraggio e verità. Come insegna il fumetto di Taniguchi, il grande albero che sente avvicinarsi la morte prepara una splendida fioritura; ma è possibile che la sua fioritura più bella, come direbbe la volpe al piccolo principe, sia invisibile ai nostri occhi.
Ai Giardini di Porta Venezia, davanti al grande platano secolare
L’albero con le stampelle ai Giardini di Porta Venezia
Una bacheca degli alberi allestita in corridoio, con disegni, storie, articoli di giornale e mappe dei municipi di Milano e dei suoi alberi monumentali