Il giorno che cambiò la mia vita

Per i martedì di festeggiamento dei 10 anni della collana Gli anni in tasca, oggi pubblichiamo un capitolo da Il giorno che cambiò la mia vita di Cesare Moisé Finzi. Ci sembra una scelta obbligata, considerato che siamo in prossimità delle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della memoria. Il giorno che cambiò la mia vita è il capostipite di Gli anni in tasca: fu ascoltando a Radio 3 Rai, Cesare Moisé Finzi intervistato da Marino Sinibaldi che ci venne l'idea di editare romazi autobiografici dedicati a storie di infanzie. Si tratta di uno dei primi titoli pubblicati della collana e anche di uno dei suoi più venduti, oltre che per la qualità del testo per la straordinaria volontà di farlo conoscere da parte dell'autore che dal 2009 non ha mai smesso di incontrare i ragazzi di centinaia di scuole in tutta Italia. Buona lettura.

È il 3 settembre 1938, e io, un bimbetto felice di otto anni, cammino verso il centro di Folgaria con 30 centesimi in tasca.

La sera prima sera è arrivato il babbo, e oggi ho l’incarico di andare a comprare il “Corriere Padano”, giornale di Ferrara. Non lo trovo perché nei paesi di villeggiatura, passato agosto, non arrivano più le testate delle singole città, ma solo i quotidiani nazionali. Così, compro il “Corriere della Sera” e mi accingo a tornare a casa.

Strada facendo, apro il giornale e noto un grande titolo che occupa tutta la pagina. Ormai sono grande e, purtroppo, so leggere:

INSEGNANTI E STUDENTI EBREI

esclusi dalle scuole governative e pareggiate.

Capisco subito che la cosa riguarda anche me: a ottobre dovreifrequentare la quarta elementare presso la scuola pubblica Umberto I di Ferrara.

Cosa significano queste parole? Non potrò più andare a scuola? Perché? Certo, sono ebreo, ma che differenza c’è fra me e gli altri bambini? E se anche ci fosse una differenza, perché non dovrei più andare a scuola?

A dire il vero, non sono mai stato uno scolaro brillante né ho mai avuto un amore particolare per la scuola, ma veramente non mi sarà più permesso di andarci?

Mi si velano gli occhi. Piango? No, forse no, ma quando raggiungo i miei a casa, mi precipito fra le braccia della mamma. I grandi mi si fanno intorno, sbigottiti, frastornati, offesi. Perfino increduli. Leggono e rileggono i titoli, poi tutti gli articoli.

Così, papà, che nel maggio 1915 è scappato di casa per arruolarsi nell’esercito italiano e combattere per l’unità d’Italia, non sarebbe più un italiano degno di tale nome solo perché appartiene a una religione diversa? Cosa c’entra la religione con la cittadinanza?

In quei momenti, ancora non lo sappiamo, ma ciò che stiamo leggendo è solo l’inizio di tutte le limitazioni e vessazioni che ci saranno imposte e dovremo subire nei giorni, nei mesi, negli anni successivi.

Eppure la vita continua. Deve continuare. Si ritorna in città. I nostri genitori cercano di minimizzare, di rassicurarci: cosa vuoi che cambi veramente? Cosa vuoi che possa sapere la gente? Non abbiamo scritto in fronte che siamo ebrei. E poi che differenza fa?

Ma sui giornali e alla radio non passa giorno che non si parli della nuove disposizioni contro gli ebrei. Quelli presi maggiormente di mira sono gli ebrei stranieri che perdono la cittadinanza italiana, anche se l’hanno ottenuta fin dal 1919, e vengono espulsi. Ma noi siamo italiani da quando è nata l’Italia e da molte generazioni prima.

Un pomeriggio, vado al parco Massari con Manlio e la mamma. Appena arrivato, vedo i miei amici che giocano nel prato. Mentre la mamma si siede su una panchina vuota, io corro da loro per giocare. Ecco, allora, che una signora, amica di mamma, che talvolta è stata a casa nostra e nella cui bella abitazione siamo andati spesso, improvvisamente si alza da una panchina vicina, chiama suo figlio e si allontana senza neppure salutare mia madre. Seguono il suo esempio altre signore che, chiamati i loro figli, se ne vanno. Io rimango solo. Allora, anche mamma, facendo finta di niente, mi chiama, poi si alzadalla panchina e ci porta a fare un lungo giro per i viali. Non capisco subito il significato di questo episodio perché i miei genitori fanno di tutto per non farmi vivere il dramma della discriminazione. Tuttavia, in pochi giorni, lo collego con i rapidi cambiamenti che stanno interessando la nostra vita. Per molto tempo, il parco Massari non sarà più meta delle nostre passeggiate.

Quando mamma vuole portarci fuori, ora andiamo al Montagnone, l’altro spazio verde della città. Vi sono alcune panchine e, dall’alto delle mura, si può vedere la pianura circostante, ma certamente nulla a che vedere con l’amatissimo parco Massari.

Ora papà non esce più, la sera; era sua abitudine, dopo cena, incontrare i suoi vecchi amici e con loro fare una camminata fino alla stazione e ritorno. Ma le cose sono cambiate. Non so se anche i suoi amici gli abbiano voltato le spalle oppure se rimanga in casa, come dice lui, per non lasciarci soli. Forse ha veramente paura che in sua assenza possa capitarci qualcosa di male. Una specie di camminata, comunque, la fa lo stesso; socchiude la finestra della sala e, in quei dieci metri, va avanti indietro per oltre mezz’ora.

Ancora prima che riprendano le scuole mi accorgo di altri cambiamenti: fin dal ritorno in città, non siamo più usciti soli o accompagnati dalla domestica. È sempre mamma che ci accompagna. Le nostre passeggiate però si fanno sempre più corte e in genere hanno una meta precisa: o andiamo a trovare altre famiglie ebree, parenti o conoscenti, o si esce per spese che avvengono quasi sempre in negozi di via Mazzini o piazza Trento e Trieste, comunque non lontano dalla zona del vecchio ghetto. Solo per le stoffe continuiamo a servirci un po’ più lontano, al magazzino Mazzilli, all’angolo tra via Bersaglieri del Po e via Gorgadello. Quando, dopo l’inizio delle leggi razziali, ci siamo entrati per la prima volta, uno dei fratelli proprietari ci è venuto incontro facendoci gran festa: cosa che mi ha colpito e ha commosso mamma.

I Mazzilli, comunque, non sono gli unici nostri conoscenti a non averci allontanati. Il barbiere ha continuato a tagliarmi i capelli; il macellaio Artioli ha continuato a venderci la carne; Vincenzo Serra e Tito Felletti, due bimbi dell’età di Manlio che abitano nel nostro stesso caseggiato, continuano a venire a giocare con noi in cortile; Anna e Grazia Meletti, figlie del signor William, il nostro sarto, grande fascista, ma anche buon amico di papà, si intrattengono con noi come se niente fosse. “Dunque non tutti i cristiani sono uguali”, mi dico. Ho una grande confusione in testa e mi ritrovo spesso a pensare: “Nemmeno tutti i fascisti sono uguali, ve ne sono dei buoni e dei cattivi, come fra tutti gli uomini.” Come fare a riconoscerli e come fanno loro a riconoscere noi? Sì, certo, io sono stato circonciso e ho notato la differenza, in verità molto modesta, tra me e i miei amici cattolici. Ma quando ho i pantaloncini, come fanno a distinguermi? Poco tempo dopo, mi capitano sotto gli occhi certe vignette: gli ebrei vi sono raffigurati come persone brutte e dalle sembianze quasi animalesche oppure come diavoli. Eppure io di persone così proprio non ne ho mai vista nessuna né a scuola né in sinagoga.

Mi pare di non sapere più nulla: capire, in effetti, non è facile.