Il posto più comodo che io conoscessi

Pixar Studios, Emeryville,California.


Durante la settimana a San Francisco, ho avutol'occasione, davvero unica, di visitare gli studi della Pixar. Dueo tre anni fa, avevo visto la bella mostra itineranteallestita da Pixar, permettendo a milioni di curiosi eammiratori di farsi un quadro più preciso di cosa vi sia dietro illavoro che ha generato alcuni dei più bei film d'animazione degliultimi venticinque anni.
Ricordo che, in quella circostanza,mentre guardavo le centinaia di bozzetti, studi, animazioni, disegni,prove, sfondi, schizzi, sculture, tutti uno più perfetto dell'altro,i quali dichiaravano chiaramente il talento e l'intelligenza di chili aveva creati, leggendo a uno a uno i nomi e cognomi di coloro cheli avevano realizzati, pensai che era incredibile che creativi di quellivello avessero subordinato il proprio lavoro all'opera collettiva.

LuxoJunior, la cellula embrionale di Pixar, suosimbolo.


Perché sì, alla fine queste persone sono anonime, il lorolavoro scompare nel corpo dell'opera (come è accaduto per esempioagli scalpellini della cattedrali romaniche e gotiche, questome lo ha fatto notare mia sorella, qualche giorno fa, dicendomiche la mostra Pixar, a suo tempo, le aveva fatto venire in mentele botteghe degli artisti  medioevali). Ecco, girovagandoper i luminosi, silenziosi ed eleganti (secondo l'estetica di SteveJobs) edifici della Pixar, la mia impressione è stata la stessa. Unluogo dove tutti sono al servizio di un progetto che è il puntod'arrivo, e il compimento, del lavoro dei singoli.


Pixar Studios,atrio.

Devodire che, come editrice, e come autrice, abituata come sono ad avere ache fare con le individualità dei singoli autori, questo mi colpiscemolto. Perché sì, certo, lo diciamo sempre: il libro illustrato èun'opera collettiva, e lo è davvero perché è il lavoro di tuttiche lo costruisce (autore, illustratore, grafico, editore, tipografo,fotolitista, distributore, libraio, bibliotecario, lettore), ma in fin deiconti quando il libro esce è prima di tutto l'opera dell'illustratoreche lo firma e, solo in seconda battuta dell'autore e poi di tuttigli altri. Questo nella percezione di gran parte del pubblico e deilettori. Invece, di un film Pixar, provare per credere, nessuno conoscenemmeno il nome dell'artefice assoluto del film, e cioè il regista.

Robert Kondo, digital,2003.
Dominique Louis, layout by Harley Jessup,2002, pastel.


Cercate di farvi venire in mente, senza il supporto di Wikipedia,i nomi dei registi che hanno firmato Toy Story 1,2 e 3, Wall-e,Up, Ratatouille,Monsters, Cars, TheIncredibles etc. A meno che non siate fanatici dianimazione, vi accorgerete che in memoria vi è rimasto solo iltitolo del film, la storia che racconta, i suoi personaggi e ilmarchio Pixar. Tutto il resto non esiste. Un po' come l'Odissea el'Iliade attribuite a Omero, nome dietro il quale probabilmente, comeè noto, sta la schiera anonima di rapsodi e aedi che per centinaiadi anni cantarono le gesta di dei ed eroi. Del resto basta leggere questeparole di Edwin Catmull, uno deifondatori della Pixar con Steve Jobs e John Lasseter,per capire chiaramente lo spirito dell'impresa (il branoè contenuto nel volume edito da Sperling & Kupfer Versola creatività e oltre. La lezione della Fabbricadei Sogni, 2014).


HarleyJessup, layout by Jason Katz, digital overstoryboard.
Dominique Louis, lighting studies, 2004,digital.



Insomma,questo modo di lavorare, questa impresa ultra contemporanea, le cuipossibilità narrative stanno oltre che nel meglio della creativitàdisponibile, in tecnologie raffinatissime e in costante evoluzione,è, da un certo punto di vista, un ritorno all'antico, a quell'epocaremota in cui esisteva unicamente l'opera creata da una comunità nellaquale i singoli individui scomparivano, poiché l'idea di opera comerisultato di specifiche individualità autoriali era ancora di là davenire. A mio avviso questo aspetto è molto interessante, soprattuttoriflettendo, fra le altre cose, su quanto la rete ci costringa semprepiù a una condivisione costante dei contenuti intellettuali, e su quantoi network abbiano messo in crisi il concetto di diritto d'autore.

The art ofRatatouille, Harley Jessup, layout by Enrico Casarosa, 2004,digital.
Jason Deamer, 2002,pencil.


Alla fine del giro alla Pixar, visto che già non ero stataabbastanza fortunata da visitare gli studi, consumare un buonpranzo a una mensa accogliente e chiacchierare con personemolto simpatiche, mi è stato regalato un libro. Anzi, fraquelli disponibili ho anche potuto scegliere. Ho optato per Theart of Ratatouille di Karen Paik. E non solo perchétopo chiama Topi, ma perché insieme a Toy Story(di cui, fra l'altro, Paolo Canton e io curammo l'edizione italiana dellibro, decenni fa), e a Wall-e, questo è il film Pixarche più mi è piaciuto, in assoluto (regista e sceneggiatore è BradBird, ma l'idea originale del film è di Jan Pinkava, co-regista).

Dominique Louis, layout by Harley Jessup,2002, pastel.
The art of Ratatouille,a destra, Harley Jessup, layout by Enrico Casarosa, 2005,
digital; a sinistra, storyboard, Mark Cachuela, sopra; EnricoCasarosa, sotto.


Se ne nel film i nomi dei creatori scompaiono (o, meglio,appaiono rapidissamamente nei titoli di coda) nel libro ognicontributo è riportato con dovizia di riflessioni, immagini,schizzi e quant'altro. Mentre ammiravo i lavori di disegnatori,coloristi, animatori, scenografi eccetera che hanno creato lastoria di Remy, topo parigino che sogna di diventare il piùgrande chef del mondo, la mia attenzione si è soffermata su unariflessione firmata dal set designer Robert Kondo.


The artof Ratatouille, a sinistra Harley Jessup, 2002, pencil
and marker; a destra, Robert Kondo, 2004, digital,pencil.
The art of Ratatouille,a sinistra e destra,  Robert Kondo, 2004, digital,
pen and marker; a destra, Dominique Louis, digital paint overset render.


Sono molto felice che Pixar abbia riservato tempo eun’attenzione speciale ai piccoli dettagli, perfino al pavimentodella cucina. Abbiamo appena modificato il reticolato del pavimentodi piastrelle in modo che queste fossero leggermente irregolari,l’effetto ombra poi ha fatto sì che sembrasse consumato in modonon uniforme, come un pavimento reale. Certo, questo è solo unpavimento, ma, essendo i ratti i protagonisti del film, l’avremmoavuto spesso sotto gli occhi. Se non avessimo dedicato tutto queltempo a ricreare il pavimento nel modo giusto, quelle linee e quellesuperfici perfettamente dritte avrebbero catapultato lo spettatorefuori dal mondo [di Ratatouille ndr], avrebberovanificato tutto il lavoro che avevamo fatto per cercare di dare unapersonalità ai fornelli e a tutto il resto della cucina.

Dominique Louis, 2005, digital paint overset render.
BenCooper, Lightingstudies.



Mi sono detta: chi mai,guardando Ratatouille, si mette a pensare alpavimento? Nessuno. Quello che accade sullo schermo è così coinvolgente,appassionante che il pavimento è l'ultima delle preoccupazioni dellospettatore. Eppure Robert Kondo ha perfettamente ragione: in questastoria il pavimento non è un dettaglio, perché questa è la storiadi un topo e per un topo un pavimento è l'ambiente su cui trascorregran parte del proprio tempo. Così come, per esempio, e guarda caso,lo è per un bambino molto piccolo. Se fate mente locale, e fate unosforzo di memoria, scoprirete che sì, in effetti, quando si è piccoli,un pavimento è una cosa molto prossima, e con la quale, infatti, si hagrande confidenza.


Tutto ciò mi ha fatto tornare alla mente il brano,letto tempo fa, di un grande architetto austriaco, RichardNeutra, vissuto in America, in particolare in California,regione in cui si concentra gran parte del suo lavoro. Neutra fu, insiemead altri, fra i quali Frank Lloyd Wright, un pioniere dell'architetturaorganica, corrente che predicò il ritorno all'armonia fra uomo e natura,e si batté per la creazione di un nuovo equilibrio tra ambiente costruitoe ambiente naturale attraverso l'integrazione di elementi artificialiumani e naturali. In un saggio famoso, Survival throughDesign, ovvero Progettare per sopravvivere,Neutra scrive alcune cose sul ruolo delle superfici negli edifici, apartire proprio dalla percezione del pavimento che aveva da bambino.

The artof Ratatouille, studi di Linguini di Dan Lee, KristopheVergne,
Enrico Casarosa, Peter Sohn, Sharon Calahan,2003-2006.


Ecco, rileggendole, mi è sembrato che queste parole, che viriporto di seguito, echeggino in Ratatouille, nonsolo nelle immagini dei pavimenti, ma in tutta la storia di questo topoanticonformista, e nel suo modo di vedere il mondo degli umani. Infondo, alla base del grande sogno di Remy, come in quello di Neutra,c'è proprio la lingua, ovvero il senso del gusto, come “esigentissimostrumento di investigazione” delle cose. Perché sì, lo sappiamo tutti,è a quell'epoca strana della vita in cui i pavimenti ci sono vicinissimiche si forma in noi l'equipaggiamento indispensabile per il futuro che ciattende.

Theart of Ratatouille, a sinistra Robert Kondo, 2006, ink
and pencil; a destra, Harley Jessup, 2004, digital andpencil.


Agli albori della vita noi passiamo molto tempo sulpavimento, alla maniera perplessa e curiosa dei bambini. A due otre anni io mi accoccolavo sul parquet dell’appartamento dei miei,a scrutare le fibre scrostate e scheggiate del legno consunto e leassicelle sformate. Le fessure interstiziali erano piene di una sostanzacompatta che mi piaceva scavare con le dita. Per gli adulti il pavimentoè lontano. Se loro si fossero fermati a esaminare ciò che estraevoda questo quieto ripostiglio delle giunture di parquet, l’avrebberochiamato sporcizia. Con un opportuno ingrandimento al microscopioci si sarebbe accorti che era un mondo pullulante di microbi. Io losaggiavo con l’inveterata prova dell’infante – me lo mettevo inbocca e lo trovavo “non buono”.
Per strano che possasembrare, le mie impressioni in fatto di architettura furono in granparte gustative. Leccavo la carta da parati prossima al mio guanciale,ruvida come cartasciugante, e l’ottone lustro della mia credenzinagiocattolo. Dovette essere proprio allora che nacque in me una preferenzainconsapevole per le superfici impeccabilmente lisce, collaudabili dallalingua, questo esigentissimo strumento di investigazione tattile, e perla pavimentazione dalle giunture meno sconnesse e dalla superficie piùelastica. Mi ricordo che semisvestito o nudo com’ero, percepivo inmodo sgradevole la superficie su cui sedevo e mi muovevo.
Fupure allora che provai per la prima volta la sensazione di un’altezzatorreggiante alzando gli occhi alla cimasa intagliata di un canteranovittoriano. Mi fece un’impressione più forte e paurosa che non, piùtardi, le colonne gigantesche su cui poggiano le volte del Duomo diMilano o il tetto del Tempio di Luxor.
L’idea di alloggiosi collega nella mia mente a una sensazione che si radicò in me in queigiorni. Il soffitto del nostro salotto era troppo alto, e così ero solitomettermi a giocare seduto sotto il pianoforte a coda. Il poco spazio chelì sotto il piano mi lasciava in altezza mi forniva il posto più comodoche io conoscessi. Molte simpatie e antipatie dovettero prendere forma nelbambino che ero, come succede a ogni bambino. Di notte c’erano spazibui, inaccessibili, misteriosi – come quella zona di paura dietro ildivanetto a due posti tappezzato di verde oliva e collocato di traversocontro un angolo. Al ricordo ne rabbrividisco ancora. E ancora aborrolo spreco di spazio dietro i mobili.
Quelle molte esperienzeinfantili mi insegnarono mute lezioni sull’apprezzamento di spazio,valori tattili, luce ed ombra, odore dei tappeti, calore del legnoe freschezza del focolare di pietra sito davanti alla nostra stufadi cucina.
Più tardi, le nostre lezioni universitariesull’architettura non accennarono mai ad esperienze sensorie cosìbasilari, o al sottile rapporto che intercorre fra le strutture fisichee il comportamento nervoso dell’uomo. Sentii parlare molto, però,di buon gusto e bellezza. La cosiddetta bellezza era un’astrazionelogora che non sollecitava in me nessun progresso di comprensione,e il cosiddetto gusto era un termine vago senza significati bendefiniti. Entrambi sembravano concepiti come se si potesse semplicementeaggiungerli a ciò che altrimenti era soltanto “pratico”. C’eraun sapore di lusso inessenziale in questo “supplemento” di “gustoe bellezza”.
Il nostro ambiente esige una valutazionepiù integrata, specie quella sua parte cruciale che l’uomo stessocostruisce e continua a ricostruire di epoca in epoca.


(brano tratto da: Richard Neutra, Progettareper sopravvivere, Edizioni di Comunità,Milano 1956, pp. 22-24. Ed. originale Survival throughDesign, Oxford University Press, New York 1954).

RichardNeutra, Wise House, Los Angeles, California,1957.


[Grazie a Elisabetta e Guido che hanno reso possibilela visita alla Pixar.]