La parte umana dell'eroe

Quarta novità del 2022. È una storia bella e antichissima, la più antica che si conosca: quella di Gilgamesh. Ve la presenta Annamaria Gozzi che l'ha riscritta (chi l'ha illustrata, invece, è Andrea Antinori).

[di Annamaria Gozzi]

La copertina di Gilgamesh Oltre i confini del mondo, scritto da Annamaria Gozzi e illustrato da Andrea Antinori (Topipittori, 2022).

La letteratura antica d’Oriente mi affascina da sempre. Quando avevo otto anni mi regalarono una versione meravigliosa de Le Mille e una Notte che spalancò la porta sull’universo delle fiabe e che ancora alimenta la mia fame di libri e il desiderio di riscrivere storie antiche per riabitarle.

Credo di avere iniziato a scrivere questo albo la prima volta che ho avuto tra le mani l’epopea di Gilgamesh. La forza magnetica che esercitò da subito su di me, ancora non mi abbandona e, anche se negli anni ho scritto altre storie, altri libri ho sempre avuto in testa un tarlo che mi diceva “Scrivi Gilgamesh”.

Si tratta del racconto più vecchio di tutta l’umanità. Gilgamesh è il primo eroe che dalla trasmissione orale si fa scrittura. La sua vita è incisa su tavolette di argilla. Racconta una storia tuttora incompiuta. È questo l’aspetto sorprendente: sapere che ancora resta qualcosa da scoprire. Su quelle incisioni di millenni fa è racchiusa una domanda, la più arcaica, quella che ci accompagna fin da quando siamo bambini e per tutta la nostra vita. È la stessa domanda che si ponevano gli uomini e le donne nella notte dei tempi, molto prima dell’invenzione della scrittura.  Gilgamesh, re di una città d’oro, è giovane, è forte, per due terzi è dio e solo per un terzo uomo, è abituato a comandare su ogni cosa, eppure nemmeno lui sa dare risposta a quella domanda. Davanti alla morte del suo migliore amico, di fronte all’incognita dell’aldilà, mostra per intero la sua parte fragile e umana. Si dispera nell’ossessione di conoscere ciò che agli umani non è dato sapere. Che cosa c’è dall’altra parte?

Ho letto molte volte l’Epopea di Gilgamesh, quella che gli antichi chiamavano “di colui che vide ogni cosa”. In particolare, tengo sempre sul comodino la traduzione dell’archeologa Nancy Katharine Sanders, pubblicato in Italia da Adelphi, ma ho letto anche la bellissima trasposizione in romanzo di Paola Capriolo Qualcosa nella notte, e La saga di Gilgamesh dell’assiriologo Giovanni Pettinato e Il libro dei sogni di Borges che inizia proprio dal sogno del re di Uruk, e poi tutta la letteratura ragazzi dedicata a quel mito. Sono in debito con ognuno di questi libri anche se, camminando tra le tante interpretazioni e invenzioni, ho sempre la sensazione che qualcosa mi sfugga. È quella la forza del mito, sopravvivere ai millenni e avere sempre qualcosa di nuovo da dire a ognuno. In particolare, credo ci riguardi la parte finale della saga, quella dove Gilgamesh è alla ricerca estenuante dei confini del mondo, il suo desiderio insaziabile di conoscenza a ogni costo, la disperata ricerca della vita eterna. È la parte umana dell’eroe quella ci attrae, quella divina ci è troppo lontana.

Per questo il mio racconto comincia dal re che piange per aver perduto il suo migliore amico. La sua fragilità chiama subito la nostra compassione. Perdere un amico è capitato a tutti. Un amico si può perdere in tanti modi ed è sempre una tragedia, a volte piccola, altre inconsolabile. Sono partita da quel punto a raccontare le vicende, ma, per farlo, ho dovuto conoscere tutto ciò che era accaduto prima di quel momento. Una serie di eventi che, pur restando invisibili, rendono solida la parte che emerge, come sostiene Hemingway nel suo principio dell’iceberg, «i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi». Perciò, dopo avere scritto innumerevoli versioni della saga per intero, mi sono concentrata su ciò che avevo individuato come incandescenza del racconto. Mi sono piacevolmente concessa di tradire la versione originale, ad esempio ho eliminato Ursanabi, il barcaiolo, lasciando che Gilgamesh navigasse solo nel mare della morte; ho dato voce alla Donna Scorpione perché non fosse solo l’Uomo Scorpione a parlare con il re; allo stesso modo ho tolto il nome a Utnapistin, l’immortale, perché di lui si nominava la moglie senza nome, li ho chiamati allo stesso modo: l’Uomo che non era Morto Mai e la Donna che non era Morta Mai, perché anche oltre i confini del mondo dovrebbe esserci parità tra i generi. Poi, quando il mio lavoro ha preso forma, ci sono voluti ancora molti tagli e rifacimenti. Al punto che quando incontravo amici e mi chiedevano cosa stessi scrivendo, alla risposta che stavo lavorando sulla saga di Gilgamesh mi dicevano “Ancora? Ma non me lo avevi detto già due anni fa?”. La scrittura a getto non mi appartiene, ho bisogno di tempo per cercare le parole per inseguire la storia.

Sono grata, ancora una volta, alla fiducia coraggiosa dimostratami da Paolo Canton e Giovanna Zoboli: la loro scelta di affidare ad Andrea Antinori le illustrazioni mi entusiasma. L’immaginario di Andrea ha riscritto ancora una volta la storia restituendo un eroe contemporaneo che si muove in un’ambientazione misteriosa e onirica capace di catturare l’occhio bambino e adulto e intrecciare il presente a vicende remote.

Non c’è una fine a questo racconto, o forse sì. Ogni viaggio, ogni impresa ci trasforma e chi torna non è lo stesso di quando è partito. Di certo resta la domanda che sempre ci spinge a cercare tra le storie il senso del nostro essere qui.