[di Diego Malaspina]
Si potrebbe dire che TheTree of Life, il bellissimo e lunghissimo film diTerrenceMalick, sia divinamente concepito,proprio in senso letterale. La baronessa Blixen, nel film La miaAfrica, narrando il primo viaggio aereo offertoledal biondo amante Finch Hatton, commentava: “Mi ha fatto vedereil mondo con l’occhio di Dio”. È quello che fa Malick con noispettatori.
La sua macchina da presa segue la vita di ungruppo di persone in una lunga soggettiva, che potrebbe essere soloquella divina, cioè onnipresente e onniveggente, introspettiva econsapevole in modo supremo. Ma Dio, è risaputo, ha l’eternitàa disposizione, e noi purtroppo un tempo umano che è quello cheè. Limitato, frettoloso, convulso. Per cui durante il film capita dispiare l’orologio con una certa ansia. Confesso di aver ceduto a unsonno breve ma profondo, in piena tragedia. Subito dopo la morte delfiglio ho perso i sensi, per ritrovarmi di colpo, al subitaneo risveglio,in mezzo ai dinosauri. Cosa sarà successo nel frattempo?
Le immaginiiniziali erano seducenti quanto ovvie. Un po’ come veder sfilareuna serie innumerevole di quelle immaginette in vendita a cinquantacentesimi nelle parrocchie: spighe di grano mosse dal vento, una gocciadi rugiada sulla foglia, nuvole su lagune verso il tramonto. Comedidascalia, frasi edificanti, versi dai Salmi, branidell’Ecclesiaste. Oppure (forse il paragone è ancorapiù calzante), sembrava di essere immersi in uno di quei gadget in PowerPoint che ti mandano gli amici via mail, e che ti arrivano fatalmentequando hai un lavoro da consegnare e sei in ritardo. “Fermati per unmomento,” dice un messaggio sullo schermo, “e osserva la Vita”. Chipuò resistere a un invito simile?
Fai partire ilcongegno, lo schermo ti si blocca, e per venti eterni minuti aspettiche le immagini scorrano, una dopo l’altra, implacabili. Tigrottiaddormentati, balene d’agosto, colonie di fenicotteri come boschi dipeonie, il vento sugli oceani, tutte cose magnifiche in sé, ma la frettati impedisce di apprezzarle e ti senti anche in colpa per la tua ottusa,greve meschinità. “Vergognati” viene da dirsi. “Non sai proprioapprezzare il bello del Creato!”. “Sì, lo apprezzerei,” unorisponde, misero, “se non fosse che è tardissimo”.
Iltempo nel film di Malick è inesorabile. Passa, spezza i cuori, spazzavia i ricordi e se ne va; ma in segreto, senza poterlo dire proprioa nessuno, tu sogni colpevolmente che l’intera famigliola O’Briensia portata via da uno tsunami in quattro e quattr’otto, in modo dametter fine ai tormenti dell’infanzia come ai rimpianti dell’etàadulta, alla dolcezza inerme della mamma succube come al pedagogismototalitario del papà impettito.
Bisognaammetterlo, pochi film sono riusciti a scrutare così profondamentenei paradisi infernali delle menti dei bambini, forse solo TotoLe Héros di Jacob van Dormael,I quattrocento colpi di Truffaut, Standby me di Rob Reiner, Arrivederciragazzi di Louis Malle (cito a caso). Ebisogna scomodarsi a tirar giù dagli scaffali Leonde di VirginiaWoolf per trovare un’altra opera d’arte che,come il film di Malick, tenti di definire così magistralmentela vita nei suoi termini ultimi. La vita, la natura, il cosmo, laviolenza e l’infanzia, tutto insieme, e forse in questo Malick hasbagliato. Pretendeva troppo.
In questi casi, la solennitàieratica e la retorica visiva sono in agguato. Perché Kubrickci riusciva e Malick ci è riuscito solo in parte? Forse perchédietro le lentezze universali di The Tree of Lifenon c’era la tensione che è invece sempre costante in 2001Odissea nello spazio, forse perché quei bambini,dopotutto, non fanno altro che vagare, brontolare e perder tempo,facendone perdere anche a noi, che abbiamo fin troppo presente la verdenoia dell’infanzia bighellona, da cui peraltro tanti adulti non sisono mai staccati. Non sai più cosa combinare in un uggioso pomeriggiod’estate? Si manda in orbita una rana, e il gioco è fatto. Papà tiha proprio rotto? Non vien voglia anche a te di levar di mezzo il crick evederlo maciullato sotto la sua Oldsmobile?
Quanto alla recitazionedegli attori, bisognerebbe riflettere a lungo: la misteriosa bravuradei ragazzi, quando smette di essere istintiva per raggiunti limitidi età, si trasforma nella statica espressività di Brad Pitt, chequando hai detto bello hai detto tutto. Ma perché? Certo in questofilm, bisogna ammetterlo, si sforza. Immaginiamo un dialogo fra attoree regista.
“Brad,” gli avrà detto Terrence Malick, “sevuoi lavorare con me non devi farti truccare”.
“Ma Terry,mi hai già tolto il botulino da una settimana, sono un disastro”.
“Mettiti a dieta e piantala col whisky. Lo so che ti serve perreggere i sei figli urlanti all’unisono e quel demonio dell’Angelina,ma se vuoi lisciarti la faccia, non c’è altro mezzo. Inoltre, sevuoi avere la voce drammatica, fai come quell’italiana, la Bellucci:pronuncia le parole solo a metà”.
“Ma lo sai che hol’accento dell’Oklahoma!”.
“Mi dispiace tanto, maqui siamo nel Texas, e non ho intenzione di cambiare l’ambientazioneper te, abbiamo già tutte le location”.
“Dimmi tu,allora, cosa devo fare?”.
“Sforzati, Bradie. Comese fossi in bagno da mezz’ora, con un parto difficile in ballo ela sola compagnia del giornale della settimana scorsa. O vuoi cheti metta l’agrifoglio nelle mutande, come ho fatto con Jessica(Chastain, n.d.r.)? Porta fortuna e induce all’espressionedolorosa in permanenza”.
“No, no, l’agrifogliono! Ti giuro che mi concentro”.
Ea lungo andare, sotto la minaccia del rametto spinoso, anche Bradqualche espressione l’ha fatta: monocorde, incolore, fissa comeal solito, ma si può dire che passi con dinamismo artritico dallacupezza allo sguardo radioso, come quando ha in mano il famoso piedinodi neonato che allieta ogni locandina.
Dobbiamo ripeterlo,è un film magnifico, un poema sull’età perduta e sul mondo chetroppo spesso sfugge alla nostra attenzione, ma diciamo che averlocontemplato così lenticolarmente, quel mondo, per due ore e mezzabuone, tutto in una volta, ci mette in pace con la coscienza perun bel po’.