[di Elisa Galeati]
Quella mattina di novembre Londra si era svegliata sotto una pioggia torrenziale. A ogni fermata della metropolitana in cui tentavo di entrare venivo bloccata e cortesemente indirizzata alla fermata successiva. Di stazione in stazione avevo iniziato dunque a camminare tagliando in diagonale il Tamigi, attraversando i distretti di Chiswick, Hammersmith fino ad arrivare al limitare dei giardini di Kensington. In affanno osservavo la città cambiare, sotto i miei occhi vigili, ad ogni quartiere che attraversavo. Raggiunta finalmente una linea funzionante dei mezzi pubblici e giunta a Fitzrovia nell'orario in cui gli studenti si dirigono in massa nelle aule universitarie, voltando per Scala Street, viuzza di case in stile georgiano, mi apparve come l'accesso a un cunicolo spazio temporale. Se mi trovavo lì era perché l'alluvione nelle campagne del Sussex aveva impedito a un'amica di arrivare all'orario previsto e potevo quindi concedermi di entrare al Pollock, il Pollock's Toy Museum. Se ho deciso di raccontarvene è perchè da pochi giorni la notizia della sua improvvisa chiusura mi ha indicibilmente sconfortata. L'immagine di un teatrino a sipario chiuso sulla loro pagina social e le parole «It's with a very heavy heart that we share very sad news» mi sono apparsi subito come un ineluttabile necrologio. Ormai incapaci di garantire un futuro sostenibile alle collezioni presso la sede attuale, gli amministratori del museo hanno comunicato a una vasta comunità di sostenitori e appassionati che questa non è la fine del Pollock ma "solo" della sede che lo ospita.
Ci affezioniamo a un luogo e non solo alle proprietà, al contenitore e non solo al contenuto. L'edificio, le stanze, le scale si sono conquistati negli anni una loro autonomia espressiva, tanto da rappresentare un'identità perduta: l'idea nostalgica di un'altra Londra, quella del "C'era una volta", in una relazione con l'invisibile, sia esso passato reale o immaginario. In fin dei conti era già successo e svariate volte. Se esploriamo brevemente la storia del Museo, ci sembrerà di vederla come un dramma teatrale divisa in diversi atti. Tutto iniziò nel lontano 1860 in un magazzino situato al 73 di Oxton Street. John Redington, tipografo e tabaccaio, diede vita a un'azienda famigliare che commerciava in stampe teatrali. Si trattava di teatrini di carta giocattolo nati dai foglietti dei drammi, nella gran parte dei casi acquaforti o litografie, che rappresentavano una porta aperta sul fantastico. Li dobbiamo immaginare come una miniaturizzazione del teatro reale: fogli prodotti a partire da un'incisione su rame che poi venivano stampati, colorati e ritagliati. Alla morte del padre, fu la figlia Eliza a continuare l'attività. Il nome di Benjamin Pollock, a cui oggi siamo affezionati, era nientemeno quello di un fedele cliente che si innamorò di Eliza Redington, la sposò e assieme condussero l'attività di editori, continuando a stampare i propri teatrini giocattolo fino ai primi decenni del Novecento. Alla morte di Pollock, gli affari iniziarono a declinare finché, nell'estate del 1944, le figlie vendettero l'azienda a un libraio, Alan Keen. Appena un mese dopo, una bomba distrusse le vetrine, rendendo il negozio inagibile. Il trasferimento al 16 di Little Russell Street diede un'ultima occasione al negozio fino a un inevitabile epilogo mestamente composto di lettere commerciali senza risposta, pile di fatture non pagate e inutili scorte di magazzino: l'arcano mondo vittoriano dei teatrini giocattolo e del loro glorioso successo era finito, un anacronismo pronto a dissolversi.
Un nuovo atto ebbe luogo nel 1955 quando una giornalista della BBC, Marguerite Fawdry, rilevò l'attività in bancarotta e aprì il suo negozio al 44 di Montmouth Street, in una mansarda. Quella dei Fawdry, marito e moglie appassionati di arti popolari, fu un'opera realmente pionieristica per l'epoca. Il museo nacque come attrazione complementare al negozio e i magazzini occuparono gradualmente tutti i piani della casa, dividendosi tra il seminterrato dal fascino dickensiano alla dimora di famiglia della coppia a Wrotham, nel Kent. Iniziarono a fioccare donazioni blasonate e ritrovamenti fortuiti durante i numerosi viaggi che la coppia andava organizzando in giro per l'Europa. Alcuni meritano di essere citati, come la scoperta in un fienile sulle Dolomiti di una serie di bambole olandesi ancora imballate e pronte a essere spedite ad un negozio di giocattoli, scomparso dal 1914. Nei magazzini vennero ritrovandosi fogli di teatri giocattolo danesi e spagnoli, automi in ghisa di provenienza americana e bizzarre carpe di carta giapponesi. La visione cosmopolita di Marguerite la ispirò a produrre ristampe dai colori vivaci di vecchie commedie vittoriane e a riprogettare i cataloghi di Pollock con una grafica seducente e briosa, in linea con lo spirito degli anni Sessanta. Il penultimo atto vide l'ennesimo trasferimento dai locali adiacenti al Covent Garden, a quei tempi ormai mecca di tendenza della controcultura Beat, a quelli di Scala Street. Era il 1969.
Tutto questo lo ignoravo in quella mattina di novembre di qualche mese fa, quando, fradicia e affannata, entrai al Pollock facendo tintinnare il sonaglio della porta. Lo ignoravo volutamente perché di quelle stanze di meraviglia, dietro le cui vetrine e appesi ai muri venivano accumulate ogni genere di curiosità di quel microcosmo fantastico che è il regno dei giocattoli d'epoca, volevo godermi tutto con quell'inconsapevolezza infantile che si esercita unicamente nel curiosare alla cieca, nel saltellare da un oggetto all'altro per puro diletto.
Cavalli a dondolo edoardiani, set di treni Hornby, penny dreadfuls, soldatini di stagno francesi, Muffin il mulo, coni rotanti, giocattoli di latta russi, Teddy bear dallo sguardo vitreo, animali meccanici e bambole, moltissime bambole vestite di cenci o di merletto sgualcito. In un puzzle vittoriano manca un pezzo del volto di una fanciulletta dai riccioli biondi. Mi domando cosa accadrebbe se quel pezzo venisse scovato e lei tornasse in vita. Fortuna che, come narra Edith Nesbit nel suo racconto La città nella biblioteca, esistono i topolini a molla per salvarci dai labirinti dell'immaginazione. E poi il piacere di scendere e salire di continuo le ripide scale di legno cigolanti, di quegli infiniti tre piani, è talmente forte che supera quella per i giocattoli. L'ammasso inestricabile di fattezze bizzarre e variopinte acquisiva forza, ai miei occhi, proprio dal suo essere collocato in quelle anguste stanze di legno e muffa.
Sento il telefono che vibra nello zaino, mi giunge come un suono insopportabile: i treni hanno ripreso a circolare, mi aspettano alla Tate per la mostra su Cézanne. Dove sei? Dove sono? Forse la domanda migliore è "in che tempo ti trovi?".
Me ne andai a malincuore, ma con la certezza che sarei tornata. Ero convinta fosse lì da sempre e qualcosa che è lì da sempre non può improvvisamente sparire, dissolversi.
Al rientro in Italia iniziò una ben consueta fase di ricerca e lettura che io definisco À rebours. Accade, difatti, al ritorno da un viaggio che io inizi a consultare le mappe dei luoghi che ho visitato: un percorso di conoscenza che procede in senso inverso, a ritroso. È lì che trovo l'incantevole saggio scritto da R.L Stevenson "Penny plain, twopence coloured" e la frase "Se amate l’arte, la follia o gli occhi lucidi dei bambini correte da Pollock”. Stevenson andava al Pollock, dunque, che all'epoca era nella sua sede di Hoxton Street, e conosceva bene la magia evocata dai teatrini di carta che da piccolo acquistava a sua volta in un negozio sulla Leith Walk, a Edimburgo: un penny per quelli in bianco e nero e due penny per quelli a colori. Chissà che fascinazione per quel bambino malaticcio, spesso costretto a letto, per il quale quelle figure accuratamente ritagliate e incollate assieme costituivano una finestra, per dirla con Keats “la stessa che molte volte incantò, aprendo magiche finestre sopra la spuma di mari pericolosi, nelle fantastiche terre delle Fate".
Riprendo, allora, in mano la preziosa raccolta di versi Felice come un Re: a child's garden of verses di Stevenson e rileggo Il mio letto è una nave e Il paese del copriletto in cui scrive «Quando ero piccolo e malato dovevo stare a letto sdraiato / con due cuscini sulla testa e i giochi sul letto per fare un pò festa». In Viaggio il suo anelito è potente come le immagini che sorgono sul limitare del passaggio tra veglia e sonno «Vorrei alzarmi dal letto e andare verso un lontano fantastico mare dove c'è l'isola del tesoro / dove crescono le mele d'oro" e ancora "Io tornerò in quella terra lontana coi miei cammelli in carovana, accenderò un fuoco nella nottata in una stanza un pò impolverata / alle pareti tanti dipinti / scene di eroi e di combattimenti / e troverò in un angolino i giochi di un egiziano bambino». Da bambino bighellonava per ore davanti alla vetrina di Mr Smith, quella bottega "così oscura e che odorava di Bibbie" e, quando finalmente si decideva a entrare, il proprietario lo accoglieva burbero apostrofandolo così: «Non credo ragazzo che tu sia qui per acquistare davvero qualcosa!». Ora sapevo che anche da adulto la fascinazione era rimasta così forte da condurlo abitualmente al negozio di Pollock, con il quale parlava amabilmente per ore di teatrini. Di lui Pollock dichiarò che «Le sue mani erano così sottili che potevi quasi vederci attraverso e quando entrava sbatteva sempre la testa sul soffitto». Stevenson non fu l'unico affezionato cliente, tra i molti si citano nientemeno che Chesterton, Winston Churchill e Charlie Chaplin.
Quando ho saputo che il Pollock Toy Museum avrebbe chiuso ho ripreso subito a leggere quel breve saggio, poi le poesie e la splendida raccolta edita da Einaudi Toys: storie di bambole, soldatini & Co. Tuttavia, è stato infine in un brano scritto da J. M Barrie che ho trovato consolazione: si tratta di L'uccellino bianco, il romanzo in cui compare per la prima volta la figura di Peter Pan. Qui, in un andirivieni per le strade di Londra di inizio Novecento, la voce di W. ricorda con nostalgia i tempi in cui i giocattoli si acquistavano alla Lowther Arcade.
«Cara vecchia Galleria! Quante volte abbiamo vagato a bocca aperta per le tue corti incantate, Porthos e io, David e io, David Porthos e io tutti insieme. Qualcuno dice che sei troppo popolare ma non saprei dire in che senso, a meno che non sia per quei piccoli cenciosi che bazzicano di fronte alle entrate, conturbanti ma ridenti accessi verso una gioia così grande. Ci sono due ingressi alla Galleria, e malgrado le decantate lodi per quello sullo Strand, io tutto sommato preferisco l'altro, di gran lunga più romantico perché è lì che si ritrovano gli straccioncelli, in attesa di vedere i piccoli David che escono fuori con la lampada magica. Abbiamo sempre una monetina per loro (…) E ora, mia povera Galleria, tanto più bella del tuo fratello nel West End, dicono che stai per chiudere, sarai trasformata a breve in una trattoria o un covo di usurai, comunque qualcosa di volgarmente utile. Tutti i tuoi divertimenti sono ormai sotto sfratto. Le arche di Noè sono imballate una dentro l'altra, con i cavallini meccanici imbrigliati a fianco; i soldatini, zaino in spalla, mandano baci con la mano alle loro sciocche ragazze, che comunque non resteranno indietro. Tutte le cose a quattro zampe sono riunite intorno all'elefante, sommerso dai mobiletti da salotto; gli uccellini sbattono le ali, l'uomo con la falce si fa strada nella folla; i palloncini attaccati al filo; le navi rollano con le vele gonfie, tutto è pronto per il gigantesco esodo sullo Strand.
Saranno versate tante lacrime.»
Oggi al suo posto c'è una banca di vetro e cemento.
Quando tornerò a Londra forse il Pollock non avrà ancora trovato una nuova sede o forse sì. In ogni caso so cosa voglio fare: traccerò su una mappa il percorso che da Oxton Street va a Little Russel Street poi fino a Monmouth Street per terminare a Scala Street: quasi 4 miglia che percorrerò in un passeggio lento, tra i luoghi di un'invisibile storia.
Io so che l'ultimo atto è tutto da scrivere.
Sipario.