A proposito di teatro di figura

[di Massimo Schuster*]

Ho fatto il marionettista per quasi cinquant'anni. In tutto quel periodo ho avuto la fortuna di portare i miei spettacoli in una sessantina di paesi del mondo. La cosa mi ha permesso di rendermi conto che quello che viene oggi chiamato “teatro di figura” è figlio di tradizioni millenarie. Siccome, almeno in Occidente, quel nostro tipo di teatro è meno conosciuto di quello di attori, vorrei provare a scalzare tre credenze comuni:

  1. il teatro di figura è destinato all'infanzia;
  2. nel teatro di figura la parte visiva prevale sul testo;
  3. il bello del teatro di figura è l'illusione che crea.

Foto di scena del mio Re di Girgenti, dall'omonimo romanzo di Andrea Camilleri, 2014.

MARIONETTE, BURATTINI E INFANZIA

In realtà il teatro di figura ha incominciato a diventare uno spettacolo per l'infanzia solo ai primi del '900 (e molto di più nel dopoguerra), una volta che l'Occidente aveva “inventato” l'idea stessa di infanzia. È la stessa cosa che è successa con le fiabe e che J.R. Tolkien ha spiegato magistralmente in una conferenza all'Università di St. Andrews, in Scozia, nel 1939. Se in questo estratto di testo la parola “fiaba” venisse sostituita da “teatro di figura”, ciò che dice Tolkien sarebbe altrettanto vero.

«Tra coloro che sono ancora abbastanza saggi da non considerare le fiabe come qualcosa di pernicioso sembra che domini l'opinione che esista un rapporto naturale tra lo spirito infantile e le fiabe, un rapporto simile a quello che c'è tra il corpo dei bambini e il latte. Penso sia un errore; nel migliore dei casi un errore dovuto a una finta credenza e commesso di solito da chi, per qualche ragione personale (come la puerilità) ha tendenza a considerare i bambini come degli esseri speciali, quasi come una razza diversa, invece che come membri normali, anche se immaturi, di una famiglia particolare e della famiglia umana in generale.

L'associazione dei bambini alle fiabe è, a dire il vero, un incidente della nostra storia domestica. Nel mondo della letteratura moderna le fiabe sono state relegate alla stanza dei bambini come si relega alla stanza dei giochi un mobile mediocre o non più di moda, principalmente perché gli adulti non lo vogliono più e che non importa se sarà trattato male. Non è una scelta dei bambini. I bambini visti come classe (che non sono, al di fuori della mancanza di esperienza che li accomuna) non amano le fiabe, né le capiscono meglio degli adulti; e non più di quanto amino molte altre cose. Sono giovani, stanno crescendo, hanno un appetito vorace ed è quindi naturale che apprezzino le fiabe. Ma di fatto solo alcuni bambini, come alcuni adulti, hanno un gusto particolare per queste. E quando ce l'hanno, questo gusto non è né esclusivo, né dominante. Credo che questo gusto non apparirebbe nemmeno nella prima infanzia senza uno stimolo artificiale; e quando è innato, lungi dall'estinguersi, cresce con l'età.

È vero che in tempi recenti le fiabe sono state generalmente scritte o 'adattate' per bambini. Ma la stessa cosa sarebbe potuta succedere con la musica, la poesia, i romanzi o i manuali scientifici. È un procedimento pericoloso anche quando è necessario. A dire il vero è un procedimento che evita il disastro solo grazie al fatto che arti e scienze non sono relegate in totalità alla stanza dei bambini; gli adulti non accordano alla stanza dei bambini altro che i gusti e le parti del mondo adulto che secondo loro (che spesso si sbagliano pesantemente) vanno bene per i bambini. Ognuna di queste cose, interamente abbandonata alla stanza dei bambini, si troverebbe ad essere gravemente compromessa. È ciò che succederebbe con un bel tavolo, un bel quadro, o uno strumento utile (come un microscopio), che rischierebbe di essere danneggiato o rotto se lo si lasciasse troppo a lungo incustodito in una classe. Le fiabe, bandite e separate dall'arte adulta, sarebbero sprecate; e di fatto lo sono state, nella misura in cui sono state bandite.»

Re Erode, dalla Manifattura dell'esultanza del Bread and Puppet Theater (2013).

Rappresentazione del Ramakien, Thailandia.

MARIONETTE, BURATTINI E TESTO

Per oltre due millenni marionette e burattini occidentali hanno raccontato storie: miti, leggende, epopee, storie tratte dalla tradizione cristiana, drammi e commedie. Quando i testi erano scritti avevano la forma di semplici canovacci sui quali il marionettista improvvisava, per questo non sono giunti fino a noi. In altri casi i personaggi si facevano portavoce del popolo oppresso e affamato. È stato vero in Italia con il Pulcinella napoletano, il Gioppino bergamasco e molti altri; in Francia con Guignol, in Germania con Kasperl, in Russia con Petruschka, in Ungheria con Vitéz Lázló; lo è stato anche in Turchia con Karagöz e in Iran con Mobarak; continua a essere vero in molti paesi africani.

In Asia il teatro di figura ha raccontato soprattutto grandi epopee. È stato vero in India e in Indonesia con il Ramayana e il Mahabharata, in Thailandia, Cambogia, e Birmania con variazioni locali, spesso di ispirazione buddista, del Ramayana. Un caso a parte è quello del Giappone, dove il più grande drammaturgo della storia del paese, Chikamatsu Monzaemon, talvolta chiamato “lo Shakespeare giapponese” ha scritto molti testi per il teatro bunraku di Osaka. Doppio suicidio a Sonezaki o Il castigo del cielo ad Amijima sono paragonabili per importanza e popolarità a Romeo e Giulietta o Amleto. Raccontando grandi storie il teatro di figura ha giocato a lungo un ruolo catartico non dissimile da quello del teatro della Grecia antica. E non è certo un caso se gli attori greci, muniti di maschera e coturni, assomigliavano molto più a grandi pupazzi declamanti che ad attori.

Scultura greca di maschera teatrale, 200 a.C.

Il burattinaio napoletano Bruno Leone con un suo Pulcinella.

Petruschka, eroe del teatro di burattini russo, probabilmente derivato da Pulcinella.

Marionetta inuit della Columbia Britannica, XX secolo.

Spettacolo di wayang kulit giavanese.

Come mi spiegò anni fa il sociologo bolognese Pietro Bellasi, che intervistavo per una rivista di teatro di figura francese, «Le marionette che interpretano un testo teatrale costituiscono un'oggettivazione di esseri umani. Noi in questi oggetti soffiamo la vita, li spingiamo a vivere la nostra condizione umana, esorcizzandola. In fondo diciamo alle marionette: Per favore non lasciateci soli. Non ce la facciamo a sopportare questa solitudine davanti alla nostra condizione e al mondo che ci circonda. Questo chiediamo, perché questo mondo, quello del progresso, non fa altro che spingerci verso l'entropia, la perdita e la morte».

Se in quasi cinquant'anni non ho mai creato un solo spettacolo per l'infanzia non è soltanto perché non me ne sono mai sentito capace, ma anche perché ho scelto fin dall'inizio di far parte di una tradizione che amo profondamente e che credo continui – e continuerà – a poter giocare un ruolo importante nelle nostre società.

Marionette bambara di Yaya Coulibaly, Bamako, Mali.

Enrico Baj, marionette per il mio Mahabharata (2003).

Enrico Baj, marionette per il mio Le bleu blanc rouge et le noir, opera di Lorenzo Ferrero, libretto originale di Antony Burgess, co-prodotto dal Teatro alla Scala (1989).

MARIONETTE E ILLUSIONE

Non so quanto tutto questo sia chiaro. Per spiegarmi meglio vorrei dire qualcosa su uno dei testi più conosciuti e amati da molti marionettisti europei, Über das Marionettentheater (Sul teatro di marionette), di Heinrich von Kleist. Si tratta di un libretto pubblicato a Berlino nel 1810, che molti miei colleghi amano perché sembra offrire una visione nobile del nostro teatro, oltre ad essere stato scritto da un grande scrittore e drammaturgo appartenente a una delle principali scuole di pensiero europee, il romanticismo tedesco.

In realtà il testo di Kleist non parla di marionette: si serve delle marionette (a fili) per abbordare una  delle tematiche care al suo autore, quella del dramma che ha costituito per l'uomo il fatto di avere mangiato il frutto dell'albero della conoscenza, con la conseguente perdita di spontaneità. Se è vero, come è vero, che Kleist compone il suo testo a partire da uno spettacolo di strada a cui ha assistito, il linguaggio che usa è perlomeno sospetto. Il teatro di marionette è per lui «un genere artistico inventato per il volgo», nel quale il marionettista non è un puppenspieler, ma un semplice machinist, ovvero una sorta di operaio della manipolazione. L'intellettuale Kleist vede in quel genere che definisce volgare (in quanto inventato per il volgo) una specie di poetica, allegorica, ma soprattutto involontaria magia, che solo il suo stato superiore di intellettuale gli permette di scoprire nei gesti del machinist. Non è sorprendente che Kleist suscitasse in Goethe, che scrisse il suo Faust ispirandosi alle numerose versioni che di quel mito offriva allora il teatro di burattini tedesco, un fremito d'orrore.

Pagine dell'Über das Marionettentheater di Heinrich von Kleist (ed. Tiessen, 1979).

Credo di poter dire che in tutti i miei spettacoli ho sempre cercato di fare esattamente l'opposto di ciò che scrive Kleist: provando una naturale repulsione verso l'incanto dello spettatore, mi sono sempre sforzato di farne il mio complice, il mio partner e il mio amico mostrandogli senza pudore tutti i meccanismi del mio lavoro e invitandolo a giocare con me. Da bambini dicevamo «giochiamo ai pirati», o ai cow-boy, o ai banditi. E giocavamo sapendo benissimo che non eravamo né pirati, né cow-boy, né banditi: semplicemente, accettavamo di sospendere per un tempo determinato, quello del gioco, la nostra incredulità, agendo come se quei mondi provvisori nei quali decidevamo di vivere fossero veri, per davvero. Non c'era illusione in quei giochi, c'era solo quella che Tolkien chiama per l'appunto la sospensione momentanea dell'incredulità.

Marionette e scenografie disegnate da Paolo D'Altan per il mio Western (2011).

Questa per me è l'essenza del teatro di figura: giocare a qualcosa; sospendere momentaneamente la nostra incredulità per rendere vero ciò che vero non è; ritrovare, da adulti coscienti, quel senso di libertà di cui godevamo anni addietro per il semplice fatto di essere bambini, quando, giocando, facevamo come se ciò che non era vero lo fosse. Mi dirai che l'attore fa la stessa cosa. Ma io credo che marionette, burattini e pupazzi abbiano qualcosa in più, perché laddove l'attore si limita a giocare a essere chi non è, agli occhi dello spettatore le figure sono qualcuno, per davvero. Lo sono all'interno di quello che Tolkien – ancora lui – chiamava un sotto-universo coerente, che non cerca di imitare il nostro, ma del nostro è un'immagine parallela, dentro alla quale possiamo proiettarci più facilmente. Il che è esattamente il contrario dell'illusione di Kleist.

L'autentica libertà non risiede mai nel credere in false verità, ma nel fingere di crederci per un periodo limitato, con la speranza di renderle così possibili nella vita di ogni giorno.

Tadeusz Kantor, personaggi della Macchina dell'amore e della morte, 1979.

Paul Klee, burattini, collezione Zentrum Paul Klee, Berna.


[*Massimo Schuster è un pensionato felice, ancorché calvo. Qualche decennio fa ha frequentato la scuola del Piccolo Teatro, poi ha lavorato qualche anno con il Bread and Puppet Theater. Dopo avere conosciuto una giovane francese è andato a vivere in Provenza e ha incominciato a montare spettacoli tutti suoi, con i quali ha girato il mondo. Se proprio vuoi saperne di più puoi cliccare qui.]