Quando il bambino era un bambino piccolissimo

Ogni tanto incontriamo dei lettori particolari. Sono persone a cui capita di scrivere qualcosa sui libri che leggono, pensieri liberi, ma attenti, per fermare il senso delle parole. Non sono destinati ad altri che a se stessi, questi scritti, ma ogni tanto capita che arrivino, in segno di gratitudine, agli autori dei libri in questione o a coloro che li hanno editati. Insomma, a volte capita a noi, di riceverli. E allora ci piace condividerli. Mirella Valentini oggi riflette su Doppio blu, di Bruno Tognolini, della collana di autobiografie di infanzia e adolescenza Gli anni in tasca. Alle sue parole segue il capitolo Le arie, tratto dal libro. Buona lettura.

[di Mirella Valentini]

Doppio Blu di Bruno Tognolini è un librino apparso qualche anno fa nella collana di Topipittori che raccoglie narrazioni autobiografiche Gli anni in tasca.

Brevissimo, se ne sta zitto con la sua copertina azzurra a fare quello uscito già da un po’ e, come le stelle quando è nuvoloso, non si vede.

L’ho letto lentamente per non guastare la voce dell’autore che sembra avere un certo ritegno a parlare di sé. Correre sarebbe stato come mettergli fretta e io non volevo disturbarlo mentre, in riva al mare col suo cane, decide di imbarcarsi in un’impresa tra le più farraginose che l’uomo conosca: ritrovare lo sguardo che aveva da bambino.

A fargli da contraltare, dietro una terza persona tra le più liriche che abbia mai incontrato, c’è “il bambino” che entra in scena da piccolissimo. Osserva il mondo, non strepita, vagheggia, mitizza, mangia cose sarde buone e salate, divora storie di animali, non disdegna di darle (poco) né di prenderle (tanto) dagli amichetti di strada.

Ma se si limitasse a ricordare, Tognolini non sarebbe il pioniere che è. Conscio dei rischi che corre, prova a tendere un filo tra l’uomo che è diventato e il bimbo che è stato. Una pagina dopo l’altra scopre di essere rimasto fedele a quel piccolino: il filo è teso. La consapevolezza non ha ucciso l’incanto, gli si è solo seduta vicino.

Grazie a questo librino azzurro metterò da parte per un po’ il repertorio “studia-mangia la verdura-lavati-metti l’apparecchio-basta Musically” che tanto annoia mia figlia.

In te ci sono lucciole preziose, le dirò, e se le tratti bene possono farti luce tutta la vita.

 

Quando il bambino era un bambino piccolissimo, forse tre anni, nei mattini qualche volta era già sveglio alle prime luci.

Il lettino era accosto all’angolo, coi piedi rivolti alla porta. La parete correva alla sua destra; a sinistra, laggiù nel buio, il lettone con papà e mamma ancora nel sonno; e lì di fronte, lontana, la porta aperta. Per quella porta, dal resto indistinto della casa che il giorno invadeva, giungeva la luce. Una luce che in quel riquadro cresceva pianissimo, riempiendolo, tracimandolo, espandendosi fino a farsi intero cielo.

Il tempo passava. E chi lo sa come passava, e quanto tempo. Chi mai potrà conoscerle le veglie meditabonde dei bambini: queste vigilie che generano il mondo.

Il bambino era un bambino pensieroso: se si svegliava non strillava per fare e avere e dire e dare e cominciare il giorno. Stava lì quieto e guardava la luce.

“Le Arie”. Fra sé la chiamava così.

Fra sé? C’era già un sé dove chiamare fra sé le cose? In quel remoto passato leggendario, di forma di vita, di scimmia, di stupido topo?

“Le Arie”…

Questo è il primissimo ricordo che il bambino ha di quando era bambino. Della sua vita che cominciava, o che lui cominciava a sentire. Si potrebbe pensare infatti che fossero solo sentori, e nel ricordarli in seguito ricordi di sentori, di pure percezioni: luce, suoni, odori, mutamenti del mondo e del corpo. Ma così non è. Erano sì forme nuovissime e sorprendenti, ma lui… le chiamava.

Dava loro dei nomi. “Le Arie”. Ogni bambino che nasce è Adamo il Nomenclatore.

“Chiama le cose – avrebbe scritto decadi dopo il suo maestro Celati – perché restino con te fino all’ultimo”.

Il bambino chiamava così la luce del giorno. Ed è quel nome che avrebbe ricordato, negli anni a venire. Solo dopo, evocate dal nome, le immagini vaghe.

Queste
Arie erano infatti, il bambino lo ricorda a nominarle, masse di luce chiara in movimento, che lui guardava assorto, indifferente, fiducioso. Come una specie di opalescente nuvolaglia, sfocata e abbagliante. E si muovevano le Arie, lente, di qua, di là, in volute sonnolente e luminose. Per questo forse, per il loro muoversi piano in masse e matasse, il bambino le nominava fra sé al plurale.

Si muovevano? O si muovevano i suoi occhi? O il sangue nelle palpebre degli occhi? Chi lo sa.

Il bambino guardava nell’alba abbagliato e sereno, senza attesa di nulla e senza paura.

Venire al mondo è venire all’alba e venire all’aria, farla venire con dolore nei polmoni e poi, a ferita rimarginata, venire a lei, incamminarsi in lei. Venire dalle Acque nelle Arie.

E mirarle calmo e assorto nell’alba era albedo, alfabeto, presagio e progetto del mondo.

Le Arie. Ecco il mondo.

Lì, lo vede baluginare.

Lì andrà.

Fra poco si sveglieranno i genitori, verrà il giorno affollato di cose da fare, e di nessuna di queste cose, mangiare, giocare, sporcarsi ed esser lavato, essere baciato e accarezzato, piangere, ridere, andare, di nessuna di tutte queste cose di quel tempo nessun ricordo resterà.

Solo Le Arie, solo quelle vigilie e imminenze di luce.

Bianco, azzurro, blu, celeste.

La notte è l’Urna e il mattino è l’Arca.

Azzurro, celeste.

(Le arie, brano tratto da Doppio blu, di Bruno Tognolini, Topipittori 2011).