Quattro punti sul talento

[di Matteo Pelliti]


L’articolo recente di Giulia Coniglio qui pubblicato metteva a questione alcune idee interessanti intorno al concetto di talento, in relazione allo studio, alla perseveranza, al duro lavoro che sta dietro qualsiasi creazione artistica la cui riuscita saremmo disposti, invece, ad attribuire al semplice talento dell’artista. Provo ad aggiungere qualche nota alla bella riflessione di Giulia, che mi ha sollecitato alcuni ricordi.

Se penso alla parola talento la prima cosa che mi viene in mente è un passaggio dei Pensieri diversi di Wittgenstein:

«Il genio ebreo è solo un santo. Il più grande pensatore ebreo non è che un talento. (io, per esempio). Vi è del vero, credo, se ritengo che nel mio pensiero io sia propriamente solo riproduttivo. Io credo di non aver mai inventato un corso di pensiero; al contrario, mi è sempre stato dato da qualcun altro. Io l’ho afferrato subito con passione per la mia opera di chiarificazione. […] L’essenziale, credo, è che l’attività del chiarire deve essere svolta con coraggio: se questo manca, essa diventa un puro gioco d’intelligenza.» (Pensieri diversi, Adelphi, 1980, p. 47)

Ludwig Wittgenstein.

Wittgenstein identifica qui il proprio talento filosofico come qualcosa di riproduttivo e non generativo: la capacità di chiarire meglio qualcosa che è già stato pensato da altri. E ci mostra, anche, come talento e consapevolezza del proprio talento siano elementi che stanno insieme. Quindi, punto primo: consapevolezza. Verrebbe da citare la battuta di Lec «L'uomo che è un genio e non lo sa – forse non lo è». Questo auto-riconoscimento del proprio talento ha sempre, per Wittgenstein, un legame con un piano etico, perché - ci dice - se tu eserciti il tuo talento senza coraggio, cioè senza rischiare di mettere in gioco la tua identità, esso diventa un puro gioco di intelligenza. Secondo punto: responsabilità. Il talento ti affida una responsabilità verso te stesso. E anche un impegno etico.

«La misura del genio è il carattere, - anche se il carattere, in sé, non decide del genio. Genio non è talento e carattere, ma carattere che si rivela nella forma di un talento particolare. 
[…]  Il genio non ha maggior luce di un altro onest’uomo- ma concentra questa luce, mediante una lente di un certo tipo, su un punto focale.»  (Ivi, p. 74)

Illustrazione di Guido Scarabottolo.

Terzo punto: concentrazione. Anche in questa citazione osserviamo la forte dimensione etica, volitiva, dell’esercizio del talento che è, appunto, esercizio, prassi, tecnica: concentrare la luce su un punto focale. Questa ricerca del punto focale mi ha fatto ripensare a una cosa che mi ha detto Guido Scarabottolo, in un’intervista che gli ho fatto qualche anno fa. Gli avevo sottoposto un suo disegno d’infanzia 
(quello che vedete sopra) come già precocemente sintetico del suo stile, chiedendogli come si rispecchiasse allora in quel suo antico disegno. Questa la sua risposta: «Uno dei miei tentativi, siccome ammiro moltissimo la libertà che hanno i bambini quando affrontano il foglio banco, è quello di tornare a quel livello lì. E devo dire che il computer mi ha dato molto una mano da questo puto di vista perché, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, il computer, o meglio l’acquisizione digitale di disegni fatti a mano, ti consente di trascurare gli errori possibili o che capitano anche effettivamente, perché a quelli puoi rimediare conservando la parte che è venuta bene. Mentre prima, quando dovevi fare la bella copia del disegno, diventava tutto più rigido. Più che riconoscermi vorrei tornare a questa libertà che avevo

Qui l’intervista completa.

Wittgenstein sostiene che la propria originalità è una «originalità del terreno, non del seme». Anche nella risposta di Scarabottolo trovo questa identica umiltà terrena, nella volontà di non allontanarsi dalla libertà di tratto e di pensiero che si avevano da bambini. Il che significa, anche, rimanere in contatto con qualcosa di molto primordiale, di selvaggio, per citare ancora Wittgenstein in un passaggio in cui accenna alla casa che aveva progettato e realizzato per la sorella Gretl: «Nello stesso senso: la mia casa per Gretl è il prodotto di un orecchio certamente molto fine, di buone maniere, l’espressione di una grande comprensione (per una civiltà, ecc). Manca tuttavia la vita primordiale, la vita selvaggia che vorrebbe trovare uno sfogo.» (Pensieri diversi, p.79)



Ludwig Wittgenstein & Paul Englemann, Kundmanngasse House, Vienna 1928.

Ma c’è una definizione molto precisa, sempre nei Pensieri diversi di Wittgenstein, che ci può aiutare a questo punto nella mia breve esplorazione sul concetto di talento: «Si potrebbe dire: il genio è coraggio nel talento.» (Ivi, p. 80)

Per riusare l’espressione di Giulia Coniglio, quelli bravi sono quelli che, per dirla con Wittgenstein, hanno coraggio nel talento, cioè che tengono unita la loro abilità a una dimensione etica e che ci fanno dimenticare, con le loro opere, l’abilità. «Genio è ciò che ci fa dimenticare l’abilità», dice sempre Wittgenstein. Su questa funzione di nascondimento dell’abilità esercitata dal talento vorrei citare un piccolo episodio personale. Durante gli anni da studente universitario, a Pisa, al corso di laurea in filosofia, ho avuto la fortuna di incontrare grandi professori, alcuni dei quali ascriverei sicuramente alla categoria di Giulia: quelli bravi. Tra questi c’era Remo Bodei, tra i maggiori filosofi italiani, che noi giovani studenti seguaci dei suoi corsi sintetizzavamo nella formula Bodei sa tutto. Eravamo nella prima metà degli anni Novanta, avevo superato brillantemente l’esame del suo corso annuale di Storia della Filosofia, ed esposto durante l’anno una tesina, tenendo io in classe lezione sul De Musica di Sant’Agostino, insomma mi sentivo abbastanza titolato per azzardare l’azzardo di sottoporre al grande filosofo un mio scritto extra curriculare, quegli esercizi di megalomania che i ventenni che scrivono si sentono in dovere di tentare.

Remo Bodei.

Insomma, portai a leggere a Bodei un’accozzaglia molto pretenziosa - un prosimetro! - dal titolo pretenziosissimo di Controdiario, pastiche di poesie post-adolescenziali e riflessioni filosofiche contro la famiglia e la società tutta. Bodei ebbe davvero molto, molto buon cuore nel leggermi e nell’accogliermi (Bodei sa tutto) e quando tornai da lui per avere un responso su quel mio testo mi diede un grande insegnamento. Mi disse che era apprezzabile il mio «sforzo di pensiero», ma che quello sforzo era anche molto visibile nella mia scrittura, ancora troppo visibile. Mi disse: «Hai presente quando ascolti un pianista in un concerto? Ecco, lo sforzo che lui ha fatto per arrivare a suonare quel pezzo tu non lo vedi più, non lo senti più, senti solo il brano che lui sta suonando ma senza vedere il suo sforzo. Così è anche per la scrittura: la fatica che hai fatto per arrivare a quel risultato non deve vedersi più nella tua scrittura. Dimenticare l’abilità, dimenticare lo sforzo, rendere invisibile la fatica. Il talento fa anche questo, fa dimenticare l’abilità. Io ancora sto cercando di riuscire a rispondere a quel consiglio, nelle cose che faccio scrivendo, nei tentativi di scrittura che pratico. A volte mi riesce, a volte non mi riesce. Quarto punto: naturalezza. Esercitare un talento per riuscire a rendere naturale quello che è frutto di esercizio.

Guido Scarabottolo mentre disegna.

Forse questa prospettiva etico-estetica (consapevolezza-responsabilità-concentrazione-naturalezza) può apparire originale, oggi, poiché siamo immersi in fenomeni sociali e culturali contrari a questo ethos del talento. Mostrare talento, dimostrare talento, magari nei talent, è diventato l’obiettivo del talento stesso. Oggi pensare un talento non visibile, non auto-evidente, non sovraesposto risulta paradossale. La visibilità, o il successo, è divenuta la controprova del talento, e non viceversa. Così, avere talento è forse anche avere il coraggio di coltivarlo senza inseguire un risultato, un successo, un’acclamazione. Avere il coraggio di rischiare la propria identità nel proprio talento, indipendentemente da ogni riconoscimento. Qualcosa verrà, qualcuno si accorgerà di qualcosa, a qualcuno dirà qualcosa quello che hai scritto, che hai pensato, che hai disegnato, che hai musicato. Basta non allontanarsi troppo da quel percorso che è sempre un percorso etico, identitario. Avere talento è avere il coraggio di avere talento.