Quel momento in cui uno inizia a andare in giro da solo

Riprendiamo con i martedì di festeggiamento dei 10 anni della collana Gli anni in tasca, uscita nella primavera del 2009. Oggi pubblichiamo un capitolo da Autobiografia della mia infanzia di Ugo Cornia. Buona lettura.

Che c’è quel momento in cui uno inizia a andare in giro da solo, anche se in zone ristrette, e a Guzzano, essendo questa piccola frazione sull’Appennino bolognese, la prima zona di mia indipendenza è stata l’aia davanti a casa, mentre a Modena secondo me la mia prima zona di indipendenza devono essere state le scale interne del mio palazzone, e anche con Ghetti i primi incontri erano sulle scale, anche se poi sulle scale mi ricordo molto anche di mia sorella, che avendo quattro anni e mezzo esatti meno di me, se per esempio mia sorella avesse avuto anche soltanto tre anni, e me l’avessero affibbiata per le scale da portarmela un po’ dietro, io quindi dovevo avere già più di sette anni, e devo anche dire che situare esattamente certi ricordi in relazione alla mia età è abbastanza difficile se non ci sono delle circostanze esterne precise con una loro scadenza. Infatti i ricordi legati a mio nonno, col fatto che il nonno è morto che io avevo esattamente sei anni meno una settimana, sono ricordi che io posso sistemare in modo preciso; anche i ricordi legati alla prima elementare, avendo fatto soltanto un anno in quella scuola, e poi avendo cambiato, sono tutti ricordi precisi di quel momento lì; invece ci sono anche dei ricordi che non so proprio se sono di quell’anno lì preciso, oppure di due anni dopo e per esempio, ma soltanto per fare un esempio, una giornata ricchissima di cose che erano successe è stata un giorno che ero già a scuola alla Madonnina, quindi dalla seconda alla quinta elementare, ma secondo me non ero già in quinta, e comunque era andata così: mio padre era venuto a prendermi a scuola in anticipo, saranno state le undici di mattina, e secondo me era venuto a prendermi per qualche problema dei miei, non mio, e comunque appena all’inizio del cavalcavia del Bowling (mio padre ha sempre guidato un po’ come si guidava una volta, con grandi accelerate e poi grandi frenate, in modo un po’ nervoso, anche perché era lui che era uno nervoso) e insomma secondo me eravamo al semaforo e era venuto verde, e le macchine davanti a noi sono partite, e mio padre è partito e dopo dieci metri quello davanti a noi ha frenato e sbam, mio padre l’ha tamponato, e io ho dato una zuccata al vetro anteriore della macchina che si era tutto crepato, allora via, mio padre mi portava subito a fare i raggi al policlinico (quello dove mi avevano ricucito il braccio) e dopo gli avevano detto che a guardare le lastre sembrava tutto a posto, però di stare bene attenti perché se mi venivano dei giramenti di testa oppure da vomitare bisognava che i miei telefonassero o mi riportassero subito all’ospedale e i medici si erano molto raccomandati, poi avevano detto di riportarmi a casa e magari farmi stare un po’ a letto (che quella cosa del dover stare un po’ a letto l’ho sempre trovata così odiosa che basta dover stare a letto per non riuscire a stare a letto che ti viene il nervoso muscolare con tutto che non vuole più stare fermo) e comunque dopo mio padre mi aveva riportato a casa, che mi immagino che tirasse le solite bestemmie per il fatto che mi ero stampato con la testa sul vetro della macchina, e però, visto che in via Della Cella, trenta metri prima di casa mia c’era il minimarket di Giuliano, che era il posto dove andavamo a fare la spesa, mi ricordo che mio padre mi aveva chiesto se avevo fame, e mio padre era ancora di quella generazione che se uno aveva fame voleva dire che stava bene, e quindi alla fine mi aveva preso delle patatine Pai, e poi mi aveva consegnato alla zia Maria, che mi avevano messo a letto nel lettone, dalla parte di mia madre, e prima di andar via mio padre si era raccomandato con mia zia Maria e le aveva detto che quelli dell’ospedale avevano detto che andava tutto bene, ma che se mi fosse girata insistentemente la testa o mi fosse venuto un po’ su da vomitare dovevo dirglielo subito, e così io ero rimasto lì a letto con ’ste patatine da mangiare e sicuramente con qualche fumetto da leggere, e mia zia probabilmente andava e veniva facendo qualche fatto di casa, e mentre mangiavo queste patatine io dentro a un certo punto ho trovato un tagliando che vincevo un paio di jeans Wrangler, e però anche a un certo punto mi è proprio venuto su per un attimo come da vomitare, due o tre volte, e dopo cinque minuti, che stavo già bene, ho detto subito a mia zia che avevo vinto i jeans, mentre che mi erano venuti due o tre conati di vomito non l’ho detto, e dopo non l’ho detto neanche a mia madre, quando è tornata da lavorare, e sono poi stato due o tre giorni con una gran paura di morire, ma poi dopo due o tre giorni me la sono dimenticata la paura di morire perché a) non ero morto; e b) ci sono quelle volte che a uno gli vengono quelle paure tremende, come anche le vergogne, che funzionano un po’ uguale, e allora uno ha questa paura tremenda di qualcosa, poi dopo di colpo, succede qualcosa d’altro e tu quella paura te la sei già scordata. E invece i Wrangler che avevo vinto nelle patatine, mi ricordo che la zia o la mamma avevano portato il tagliandino a Giuliano, il droghiere, e dopo un po’ sono arrivati veramente, erano di velluto e di un colore marroncino. Mi piacevano da matti perché li avevo vinti e li ho portanti tantissimo.
E però una giornata così, se uno ha un rapporto stretto con gli dei e con la fortuna, è una di quelle giornate che non si sa mai come interpretare, perché all’inizio ti vengono a prendere a scuola prima della fine (cosa bella), poi fai l’incidente (cosa brutta, anche se le cose strane, anche quelle brutte, sono sempre un po’ belle perché sono strane), poi vai all’ospedale (cosa brutta) ma ti dicono che non c’è niente da preoccuparsi (cosa bella), poi compri delle patatine e vinci i Wrangler (cosa bella) ma ti vengono i conati del vomito (cosa brutta, che secondo i medici potevo morire. Questa cosa dei Wrangler vinti e dei conati di vomito ipoteticamente mortali era tutta intrecciata e contemporanea, essendo avvenuta nel giro di due minuti, quindi bella e brutta insieme). Poi non sono morto e ho ammirato i miei Wrangler a lungo, soltanto perché li avevo vinti nelle patatine perché a me dei vestiti non me ne è mai fregato niente (cosa bella) ma magari adesso succede che io fra tre giorni morivo e dopo mi fanno un’autopsia e vedono che nel cervello c’ho un grumo antichissimo e dicono: questo magari un giorno ha preso una botta in testa, e sembrava a posto, ma dopo, quando era tornato a casa sua, gli era venuto da vomitare e lui non l’ha detto a nessuno, e trentacinque anni dopo è morto, mentre se avesse detto a sua zia che gli era venuto da vomitare noi gli avremmo fatto una nuova lastra, avremmo capito che era da operare e l’avremmo salvato; e anch’io, magari, fra tre giorni, mentre stavo morendo, pensavo così: se trentacinque anni fa avessi detto alla mamma che mi era venuto un po’ da vomitare forse adesso non starei morendo.
E comunque, queste giornate in cui succede sempre un po’ di tutto sono sempre belle, e io secondo me ho questo mio rapporto con gli dei, la fortuna e le giornate perché quando ero piccolo, mi raccontavano sempre le storie dei romani, ma anche le avventure di Ercole e di Ulisse, e Ercole mi piaceva perché alla fine riusciva sempre a picchiare tutti e a stritolare qualsiasi tipo di mostro, e l’altro giorno ci stavo proprio pensando e pensavo che avventure aveva avuto Ercole che non me le ricordavo più mentre la zia Maria me le ha raccontate trecentomila volte e io mi ricordo solo che c’era l’idra di Lerna e ci dovevano essere dei cinghiali e dei leoni e delle stalle e non mi ricordo più niente, e invece le storie di Ulisse me le ricordo ancora tutte e anche l’anno scorso mi sono riletto l’Odissea, e la zia Maria era l’unica in casa ancora cristiana, ma in modo pacato, e una delle ultime volte che ci siamo visti, io ero andato a trovarla in camera sua, e non ero più un bambino perché dovevo avere almeno ventisette anni, e mia zia si stava tirando su, sul suo letto, e mi aveva detto ma secondo te, che hai studiato, perché nostro signore ci ha messo dentro tanta roba che quando cerco di alzarmi c’è tutto che mi fa un po’ male, e io non avevo saputo che cosa risponderle, ma mi è sempre rimasta impressa quella domanda, e comunque quello che volevo dire è che mia zia aveva una bibbia illustrata per bambini e però le parti che le piacevano di più, e che piacevano moltissimo anche a me, infatti me le facevo sempre riraccontare erano quelle del sogno di Giuseppe, con la storie delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre, e la storia delle sette vacche grasse e delle sette vacche magre mi piaceva moltissimo, e poi mia zia Maria mi leggeva sempre anche un po’ di miracoli, pani e pesci, resurrezioni e così via, ma mia zia me li ha sempre letti e raccontati più come grandi magie o forse anche come giochi di prestigio da grandi professionisti, più che come cose cristiane, e venivano sempre mischiate alle avventure di Ercole. Mentre Ulisse, tra cavallo di Troia, Polifemo, che sembra che vada a finire che si mangi tutti, invece zac, gli cavano l’occhio con un bel palo rovente dopo averlo ubriacato e lo fregano legandosi sotto alle pecore, e poi tutte queste belle storie d’amore con delle ninfe e delle maghe bellissime, e così via, e poi avevo spesso questa fantasia, di essere intorno a Guzzano e di incontrare una ninfa, fino a quando avevo sedici, diciassette anni e mi era venuto un periodo di grandi tristezze e non ce la cavavo più a star fermo e andavo in giro in tutti i boschi intorno a Guzzano fino a notte, e varie volte speravo di vedere di colpo saltarmi di fianco una bellissima ragazza tutta nuda, ricoperta di un po’ di edera e di qualche mora e altre bacche, cioè una vera ninfa dei boschi che mi portasse via con sé, al riparo dalle mie tristezze.