Raccontare fiabe in musica

[di Gian-Luca Baldi]
A un certo punto della mia vita di docente di conservatorio e di compositore ‘serio e accademico’, autore di quartetti, sinfonie eccetera, la mia attività  professionale ha cominciato imprevedibilmente ad avventurarsi su strade diverse. Come se dalla fitta chioma di un austero e dignitoso cipresso fossero spuntati all’improvviso strani rami ricoperti di delicati fiori di pesco: ho cominciato a scrivere musica molto semplice (canzoni o piccoli brani strumentali) per accompagnare delle fiabe.
Devo ammettere che la cosa mi ha procurato da subito un certo imbarazzo, e ancora oggi, a distanza di una quindicina d’anni, dopo aver composto sette fiabe in musica, un romanzo per ragazzi e diverse raccolte di fiabe e racconti, faccio fatica a dire che scrivo per bambini o per adolescenti. Preferisco dire che il mio lavoro è dedicato ai mondi fiabeschi. O, per dirla alla francese, è pensato per tout le public.

Sergej Prokof’ev da bambino.

Questo, a essere sinceri, è vero solo in parte. Anzi, se devo pensare a come tutto è iniziato, non è vero per niente. Perché io ho scritto all’inizio solo per bambini, anzi, per una bambina: mia figlia. O forse eravamo in due. Perché anch’io ero uno dei due ascoltatori che mi seguivano attentamente. Cioè il mio io bambino ascoltava e interagiva col mio io adulto, esattamente come faceva mia figlia.
Il seme di questa trasformazione, a mia totale insaputa, era stato piantato molti anni prima, quando ancora ventenne avevo letto e riletto le Lezioni americane di Italo Calvino, in cui si disvelano i segreti e la potenza della narrazione fantastica. Ma questo seme ha cominciato a germogliare solo quando mi sono trovato a seguire un corso di scrittura creativa assolutamente speciale, durato per ben sei anni. Era un corso serissimo ed estremamente impegnativo: tutti i giorni, a pranzo e a cena (almeno in quei giorni che non ero a Bari a insegnare in conservatorio), raccontavo delle storie a mia figlia. Ma non erano favole già conosciute. Dovevo invece improvvisare e – tenendo a mente decine e decine di personaggi, nomi e situazioni - svolgere gradualmente il filo di storie complesse e avvincenti, trovando ogni volta idee nuove sulle quali costruire l’episodio del giorno e poi concludere il tutto in tempo per la frutta.

Sergej Prokof’ev da bambino.

In realtà questa abitudine era nata con mia moglie, bravissima a inventare favole all’impronta, ma poi, a causa della sua assenza di una sera, il testimone era passato a me, e io, con grande meraviglia, mi scoprii narratore.
Questi momenti, diventarono una parte importante del rapporto con mia figlia. Attraverso questi mondi di fantasia confluivano le mie esperienze di adulto, i miei dolori, le mie preoccupazioni e le mie gioie, anche se sublimate e trasfigurate dalla favola. In questo modo, oltre al piacere di mangiare insieme e di parlarci, offrivo a mia figlia strumenti utili per capirmi e seguire la mia vita interiore che altrimenti rischiava di rimanere per lei un mistero.
Traducevo in un linguaggio a lei accessibile il mio mondo, e lei interagiva inserendo i suoi personaggi, i suoi sogni, i suoi desideri. Ho poi scoperto che Rodari descrive qualcosa di molto simile nella sua Grammatica della fantasia: «La voce della madre non gli parla solo di Cappuccetto rosso o di Pollicino, gli parla di se stessa.» (Rodari 1973, p. 149).
Ho cominciato che mia figlia aveva poco più di tre anni e smesso che ne aveva ormai nove e quest’esperienza mi ha fatto toccare con mano quello che Calvino mi aveva confidato: il potere della narrazione fantastica e la sua capacità di esprimere il reale in una forma mascherata, ma ben più forte e vera di qualsiasi altra.

L’immagine fantastica riesce a pescare in profondità nel nostro mondo interiore, perché la nostra mente è piena di simboli, di immagini allegoriche, di sogni e di linguaggi cifrati. La nostra interiorità non sa che farsene di ‘mucchi’ di realtà. Ne è incuriosita, certo, ma l’eccesso di dati, di informazioni oggettive e reali, prima di tutto le crea un profondo malessere, e in secondo luogo non l’appagherà mai, perché diverse, molteplici e misteriose sono le lingue con le quali si esprime.
Il primo passo fu lo scrivere quasi per gioco una piccola fiaba dedicata alle avventure di Sergej Prokof’ev adolescente, arricchendola di una serie di canzoni: Sergej e la Luna Regina (Anicia, Roma 2002). Avevo comprato un libro musicale per mia figlia e l’avevo trovato piuttosto povero: mi dissi quindi che forse potevo fare per lei io stesso qualcosa di meglio.
Ma era come se avessi fretta di tornare alle cose serie. Non disconosco quella musica, e penso ancora che ci siano delle cose belle tra quelle canzoni, anche se magari non rendono a sufficienza, a causa dei ristrettissimi mezzi che ebbi per produrre la parte musicale. Ma forse non tutte le canzoni sono dello stesso livello, e comunque non ci misi tutto quell’impegno, quella fatica e quella costanza che di solito impiego nel mio lavoro ‘serio e accademico’.

C’è voluto tempo perché quel lavoro mi prendesse quanto e forse più di quello ‘serio’. Determinante è stata soprattutto la lunga esperienza con Il brutto anatroccolo (2004-2006), durata quasi due anni. Vivere con Andersen e col suo mondo fantastico così a lungo (per comporre dapprima un’opera vera e propria, poi un melologo e infine una versione teatrale ridotta), mi ha cambiato profondamente. E lavorare a una nuova traduzione de Il brutto anatroccolo dal danese (con l’aiuto di una professionista come Jytte Lollesgaard), è stato per me il primo vero passo sulla strada del mestiere di scrivere.
Da allora ho imparato a esprimere e trasformare i miei pensieri più nascosti, consapevoli e inconsapevoli, in immagini fantastiche e questo aspetto del mio lavoro e della mia mente è diventato così importante che è andato ad occupare un posto di rilievo tanto nella mia attività principale di compositore che in quella di scrittore (un lavoro che mi sta assorbendo sempre di più). Mi dedico, ad esempio, da circa tre anni, a delle miniature fantastiche: nascono regolarmente, ogni due o tre mesi, o forse più, e in alcuni casi le associo a delle miniature musicali, come nel ciclo dei 21 mondi fantastici e delle ventuno miniature per pianoforte (allegato a Grammatica dell’armonia fantastica, Quaderni di lavoro, Roma 2014). Oppure restano totalmente indipendenti come La casa dagli specchi neri (si veda il mio blog), oppure sono i miei amici compositori che mi chiedono di utilizzarle per la loro musica.

Ormai, devo confessare a me stesso, prendo terribilmente sul serio questa parte del mio lavoro di compositore che agli inizi sembrava così marginale e insignificante.
Ma non solo. Questa attività parallela, nel costringere il mio linguaggio sia verbale sia musicale all’essenzialità, alla chiarezza, alla semplicità, nel rieducare la mia mano di musicista al pensiero melodico, totalmente assente nel mio percorso di studi in conservatorio negli anni ottanta e  novanta, ha rappresentato un vero e proprio percorso di rinascita musicale, di riscoperta, di riformattazione del mio sapere musicale. Attraverso una scuola di umiltà e di ascolto ho reimparato la musica. E tutta la mia scrittura è cambiata profondamente.
Nel prossimo articolo parlerò de Il brutto anatroccolo e di un’altra fiaba in musica scritta con la cantante irlandese Kay McCarthy, Oiche Shamna. La notte di Samhain, ovvero la vera storia di Hallowe’en.