[di Giulia Balzano]
Un Bosco da Fiaba, nel Parco della Pietra Nera. È questo il nome del progetto che seguo da alcuni anni, nel Parco dell’ossidiana, all’interno del territorio del piccolo, piccolissimo paese di Pau, in Sardegna. Poche centinaia di abitanti, lontani dal mare e dalle vie trafficate del turismo vacanziero.
Dare nome ai luoghi, così come alle cose, e manco a dirlo, alle persone, è l’inizio della loro esistenza. Credo sia vero. Ciò che si nomina comincia ad assumere consistenza ai nostri occhi, si fanno riconoscibile, emerge dalla materia indistinta di cui siamo fatti e di cui sono fatte le cose.
E insieme ai nomi, come per incanto, affiorano le storie. Subito dietro, come animaletti rapidi che si affacciano dall’ombra di una tana. Vengono alla luce: per ogni nome una storia. La Roccia, il Torrente, la Grande Quercia. La Grotta, la Pancia, il Ponte. Il bosco si anima e si fa attraversare da fili la cui consistenza è quella di sentieri, di tracciati che zigzagano tra i tronchi, segnati dalla pressione dei passi. Il Lupo, il Cervo, il Grande Toro, battezzato Su Boi - in limba sarda.
Col Cuore in Gola, di Devid Strussiat (Aeson Festival - Fiumicello-Udine)
I nomi, dunque, a partire dal mio: Giulia Balzano. Sono un’archeologa, per formazione e per mestiere. Quello delle mani nella terra, e quello di uno sguardo sulle cose che vira irresistibilmente ai processi di affioramento (appunto) e di messa in luce. Nel gennaio del 2012, dopo anni di attività sul campo (così ancora si definisce la vita di chi si occupa di scavi archeologici), la mia esperienza professionale approda, senza troppa previsione di ciò che sarebbe seguito, nella piccola comunità di Pau, radicata sul versante orientale di un grande massiccio vulcanico, il Monte Arci. Lì dove allora aveva appena aperto le sue porte al pubblico una realtà espositiva e di ricerca, unica nel suo genere: il Museo dell’ossidiana. Un intero museo dedicato in via esclusiva alla conoscenza e alla narrazione di una risorsa geologica straordinaria per rarità e caratteristiche. L’ossidiana è un vetro vulcanico dal colore prevalentemente nero, di eccezionale lucentezza e brillantezza e caratterizzato da una quasi ineguagliabile capacità di taglio.
Inizia da quel momento una relazione tra i miei giorni e una pietra nera. Una relazione che avrebbe cambiato la mia vita, non potevo allora immaginare quanto profondamente. Ma con gli approdi funziona in questo modo, immagino: non semplici ancoraggi, ma luoghi di arrivo.
In Bocca al Lupo, da un'illustrazione di Fiabol (Cagliari), con un lavoro di tessitura a quattro mani e il coinvolgimento diretto dell'artista
Ed è cominciata così, la mia relazione con l’ossidiana: dandole un nome. Qualcuno direbbe: lo aveva già. Forse è vero. Ma in limba locale l’ossidiana è detta Sa Perda Crobina - la Pietra Corvina, letteralmente nera come le ali di un corvo. Una suggestione anche visiva così potente, perduta dentro la parola ossidiana. I nomi, ecco, sempre loro. Credo di essere partita da lì. L’ossidiana è diventata per me la Pietra Nera. E per estensione e dilatazione, è diventato il Bosco della Pietra Nera l’ampia area del Parco dell’ossidiana. Si tratta di un luogo di potentissime memorie collettive, per l’isola di Sardegna. E lì che in preistoria, a partire dalla fase neolitica, mani artigiane hanno lavorato il vetro vulcanico con una intensità e una sapienza tecnologia oggi difficile da immaginare - oggi che con le mani digitiamo superfici e non manipoliamo quasi più materie. Il Parco dell’ossidiana è un grande e fragilissimo museo a cielo aperto. Una quantità incalcolabile di residui di scheggiatura sono disseminati nel sottobosco, all’ombra di querce e lecci e roverelle, all’interno delle officine preistoriche di lavorazione più estese dell’intero bacino centro-occidentale del Mediterraneo. Lungo quelli che sono stati ribattezzati i Sentieri Neri, sopravvive la testimonianza di un lavoro protrattosi per oltre tremila anni, custodito nella sua forma forse più difficile da valorizzare e da raccontare con la giusta efficacia: lo scarto. La più umile e spesso dimenticata traccia del fare, e dell’imparare a fare, e anche dell’errare mentre si impara.
Nella Pancia del Lupo - lavoro collettivo a più mani: cinque quindicenni e il personale dell'Agenzia Regionale Forestas - presidio Monte Arci
Come farsi narratrice di un luogo così delicato e difficile da convertire in parole? Come accompagnare le persone, e tra loro le bambine e i bambini con particolare attenzione, nelle maglie di un territorio così denso di testimonianze archeologiche difficili da riconoscere e da decodificare con immediatezza? Come rispettare il valore profondo di una storia millenaria, e come non banalizzarne la complessità? Infine: come coinvolgere la nostra capacità immaginativa, così fondamentale in ciascuna sensibilità umana, e così determinante nel contribuire a dare forma e movimento a ciò che è stato e cui non abbiamo potuto direttamente assistere, inghiottito, ma non irreparabilmente, dal tempo?
Pau-Riccio, ovvero il Ricio delle Paure, da un'esperienza di costruzione colletiva con bambini, bambine e famiglie.
Inizia da qui, da questa scossa tellurica di domande affatto semplici, l’inedita e forse anomala mia relazione con il territorio in cui lavoro. E nasce da questo impasto materico di riflessioni, e dall’elaborazione di una sorta di alfabeto dei luoghi, l’esperienza di Un Bosco da Fiaba, a partire dalla primavera del 2022. Un progetto di installazioni di Arte in Natura, nel Parco dell’Ossidiana, che curo personalmente all’interno delle attività di valorizzazione territoriale promosse dall’Associazione culturale Menabò, di cui faccio parte e che gestisce contestualmente il Museo dell’ossidiana. Nasce come sperimentazione di un dialogo possibile tra le memorie antichissime del territorio e la creatività di artisti e artiste invitati a realizzare le loro opere servendosi quasi esclusivamente delle materie che il bosco offre, e con l’idea della loro costitutiva impermanenza. Ogni intervento nasce dal bosco e verrà dal bosco ripreso a sé, col tempo, per naturale deperimento dei legni e delle fibre impiegate. L’Amministrazione del piccolo Comune di Pau crede nella possibilità, le dà fiducia e quel minimo di gambe di cui ogni visione necessita per iniziare a prendere forma. Si crea il ponte, stretto e dondolante, che da un’idea conduce all’azione.
Assiolo-Nella sua Mente, opera degli artisti friulani Simone Paulin e Giacomo Baradel (Aeson Festival-Fiumicello-Udine)
E l’idea è oggettivamente funambolica, priva di reti di protezione e di precedenti cui appigliarsi. L’intenzione è stata - e ancora è - quella di trasformare un luogo fisico, un bosco precisamente situato e connotato, in un grande foglio di narrazione. Trasformare le righe in sentieri, le trame in rami che si intrecciano, i personaggi in rocce e alberi e ciottoli di fiumiciattolo. Si è trattato di un lavoro di traduzione, l’ho compreso mentre il processo era in corso, mentre le cose accadevano e prendevano forma. Si è trattato di convertire una storia da una lingua a un’altra, non servendosi dunque della freddezza di un codice - che traspone con notevole automatismo - ma compiendo letterariamente una traduzione. Era necessario imparare ad abitare lo spazio della narrazione con la geometria propria dei sentieri di un bosco, e con la loro sintassi. Asprezze rocciose che delimitano e circoscrivono spazi, confini segnati da un torrente o da una parete di rovi. Limiti che disegnano, ma non separano, sempre permeabili, attraversabili allungando una gamba oltre l’acqua del rio o oltre le spine della salsapariglia. E in mezzo a tutto, i parapiglia delle foglie che il vento gira e rigira in mulinelli, e i fischi che non sono di un treno, ma dell’aria che si infila tra le fessure delle pareti di basalto e lì suona e stride. E la morte dei rami di sughera, che il tempo consuma e i funghi trasformano in casa.
Cernunnos-Oltre il Palco di Rudy Liprandi (Friuli)
Gli artisti e le artiste coinvolte nel progetto hanno ascoltato il bosco, prima di ogni intervento. Lo hanno incontrato, in molti casi per la prima volta. Perché ci si è detti preliminarmente ciò che non è scontato dirsi: le storie che si raccontano tradotte nella lingua del bosco, devono tenere conto del fatto che esiste un alfabeto dedicato e una sintassi connotata, non tutto può dirsi e non tutto può nemmeno essere immaginato, in questa lingua. Le storie non possono andare dove esattamente vorrebbero, hanno da confrontarsi con la resistenza della materia di cui il bosco è fatto, una resistenza sacrosanta che non cede e che proclama - a ogni messa in dubbio - la sua esistenza. Resiste il legno, quello del corbezzolo e quello dell’erica, duri come metallo e che si torcono come decidono e non come decide la mano che li sceglie.
Ponte Ponente e Ponte Pau esperienza-costruzione collettiva tra adulti, con la speciale partecipazione degli ospiti della Casa Famiglia di Santa Giusta (OR)
Resiste la roccia vulcanica che ha conservato dentro di sé il vuoto del gas intrappolato al momento dell’eruzione - e ne ha fatto ventre che nasconde o che accoglie, dipende dal caso. La pietra si fa tana o culla, a seconda che l’anima di cui si narra sia quella di un Riccio pieno di Paure, che pure ha scelto di abbandonare il suo rifugio e di esporsi al mondo, o quella di una Bambina in Rosso, che dorme placida nella Bocca del Lupo. La materia del bosco non concede possibilità illimitate, ma permette di giocare illimitatamente con ciò di cui si dispone. E permette di ribaltare trame, capovolgere prospettive, sperimentare incontri mai vissuti, e riabilitare cuori - quelli che saltano in gola per lo spavento dello scoprirsi improvvisamente nudi davanti all’amore.
Su Boi, la prima installazione di Arte in Natura nel Parco dell'ossidiana, realizzata nell'estate del 2021 a cura degli artisti dell'Aeson Festival Devid Strussiat e Stefano Rusin all'interno del progetto Monte Arci Land Art Festival