[di Matteo Maculotti]
È un pomeriggio di agosto del 2019, poco dopo l’ora di pranzo, quando una passeggiata nel parco di Ueno sotto il sole cocente mi porta all’ingresso della International Library of Children’s Literature di Tokyo, in un’area dall’impressionante densità di verde, templi buddhisti e musei di ogni genere (si va dall’arte antica del Tokyo National Museum a quella contemporanea del Tokyo Metropolitan Art Museum, dalle opere occidentali del National Museum of Western Art alla scienza del National Museum of Nature and Science). Non mi è mai capitato di visitare una biblioteca interamente dedicata alla letteratura per bambini, e a dire il vero non so bene cosa aspettarmi, ma mi accorgo subito che il grande edificio che ho davanti non sfigura affatto neppure in mezzo a musei tanto maestosi. Inaugurata nel 2000, la biblioteca si trova infatti nella storica sede dell’Imperial Library (1906), erede della più antica biblioteca nazionale giapponese fondata dal Ministero dell’Educazione nel 1872, all’alba del periodo Meiji (1868-1912). In quello stesso anno veniva istituito in Giappone il sistema scolastico moderno, e l’obbligo di istruzione elementare prefigurava lo sviluppo di una nuova generazione di lettori che sui banchi di scuola sarebbero stati formati anche attraverso letture occidentali.
Il cortile è deserto, come la strada da cui provengo. Non ci sono le file di persone che ho visto accalcate intorno ai musei, e nella quiete degli alberi e del primo pomeriggio mi accompagna l’impressione di un tempo sospeso, che associo al ricordo di certi castelli fiabeschi o arturiani, dove il cavaliere di turno è attratto da un secolare incantesimo che ignora. Un gruppetto di bambini di pietra, nella scultura di fronte al palazzo (opera di Ogura Uichiro), commemora Koizumi Yakumo, alias Lafcadio Hearn (1850-1904), scrittore di origini greche e irlandesi a cui dobbiamo numerosi studi ancora oggi fondamentali per la comprensione della cultura giapponese, e che proprio in Giappone, dopo una vita in giro per il mondo, trovò la sua casa.
Penso alla strana storia di Urashima Tarō, condotto da una tartaruga nel Palazzo del Drago in fondo all’oceano e poi tornato invano a trovare i suoi genitori al paese natale, perché i pochi anni che ha trascorso nell’oltremondo corrispondono a secoli nel mondo ordinario. Una delle prose più suggestive di Lafcadio Hearn, The Dream of a Summer Day (1895), scorge nella nostalgia dell’infanzia il segreto del fascino universale di questa antica leggenda, diventata a cavallo tra Ottocento e Novecento una delle fiabe giapponesi più popolari tra i bambini, ma della quale anche in altri paesi si tramandano versioni locali. In Irlanda è Oisín nel Tír na nÓg, ovvero “nella Terra dell’Eterna Giovinezza”, e in Romania una magnifica storia intitolata Giovinezza senza vecchiaia e vita senza morte; nelle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino è la variante veronese Il paese dove non si muore mai, mentre in America ha ispirato l’enigmatico racconto Rip Van Winkle (1819) di Washington Irving. Lafcadio Hearn trascorse l’infanzia a Dublino, abbandonato da entrambi i genitori, e dopo aver vissuto in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti e nella Martinica approdò infine in Giappone: difficile pensare a una figura altrettanto rappresentativa del cuore giapponese e dell’anima cosmopolita di questa biblioteca.
Passeggiando nel corridoio principale, con le sue ampie vetrate che si affacciano sul retro e il pavimento in parquet, mi sembra di essere in un altro palazzo ben più moderno di quello visto in cortile, che dietro la sua facciata di chiara ispirazione europea mi aveva fatto immaginare un ambiente molto più austero. Fuori si intravedono le vetrate di un edificio secondario a forma di arco, che dal 2015, come mi suggerisce l’opuscolo informativo, ospita sale di lettura e aule per seminari. Sull’altro lato, però, il corridoio costeggia un gigantesco muro di mattoni e finestroni a volta che appartiene alla costruzione originaria. Una commistione tanto eterogenea di materiali e stili architettonici può lasciare perplessi, ma dà ragione a quanto diceva Lafcadio Hearn nell’osservare che in Giappone sono poche le cose create con lo scopo di durare: «Noi [occidentali] costruiamo per la durata, i giapponesi per l’impermanenza». Qui nessuno ha pensato di nascondere i segni e le naturali contraddizioni del tempo, laddove fosse possibile conservarne una traccia, e così l’aspetto della biblioteca custodisce i vari strati della sua storia come elementi di una bellezza composita e in continua evoluzione.
Decido di esplorare le varie sale a partire dalla sala-museo del terzo e ultimo piano. Due spazi circolari che da lontano appaiono vuoti ospitano una doppia esposizione temporanea intitolata Children’s Books Link the World, con duecento volumi segnalati agli Hans Christian Andersen Awards e nella IBBY Honour List del 2018. Ci sono libri di ogni nazionalità e le rispettive edizioni giapponesi, a conferma di una spiccata attenzione per le novità provenienti dall’estero, e non mancano alcuni albi familiari, tra cui Professione coccodrillo di Giovanna Zoboli e Mariachiara Di Giorgio.
Le informazioni disponibili solo in lingua giapponese mi spingono a orientarmi guardando le figure in copertina, esattamente come farebbe un bambino. Uno degli albi che più mi colpiscono è Domu gatari (“La storia della cupola”), scritto da un poeta americano (Arthur Binard) e illustrato da un artista giapponese (Koji Suzuki). È la stessa cupola protagonista, in cima al Memoriale della pace di Hiroshima, a raccontare con le sue parole la storia delle trasformazioni dell’edificio, sopravvissuto in mezzo a un deserto di macerie e da allora continuamente restaurato per mantenere l’aspetto che aveva appena dopo l’esplosione della bomba. Questo incantesimo che sospende lo scorrere del tempo, e da cui deriva la forza del suo messaggio di pace, necessita di un infinito lavoro di conservazione da parte dell’uomo, ed è forse l’esempio più estremo del senso solenne di custodia della memoria e della coscienza collettiva che di lì a pochi mesi avrei percepito al massimo grado tra i monumenti e i musei di Hiroshima, ma di cui ho fatto esperienza in molte istituzioni giapponesi, come in questa biblioteca che per la sua quiete e l’accurata disposizione di ogni cosa mi ricorda un tempio.
Se la memoria non mi inganna, è nella sala-galleria al secondo piano che incrocio i primi visitatori, grazie ai quali mi rendo conto che tutti i libri presenti sugli scaffali possono essere consultati liberamente – cosa che all’inizio, suggestionato forse dall’impeccabile esposizione da museo, mi sembra troppo bella per essere vera. Si tratta di un patrimonio davvero inestimabile, che comprende migliaia di volumi selezionati per rappresentare le varie tappe della storia della letteratura per l’infanzia giapponese, dalla sua nascita sul finire dell’Ottocento alla contemporaneità: un universo a portata di mano, senza alcuna teca o barriera, capace di attrarre al contempo il me-turista, il me-ricercatore, il me-maestro, il me-studente e il me-bambino.
I primi scaffali danno conto sia dell’influsso della tradizione popolare nelle riscritture di storie per bambini (come sulla locandina all’ingresso la figura di Momotarō, l’eroe fanciullo nato da una pesca protagonista della celeberrima fiaba), sia delle ispirazioni occidentali, che includono le fiabe d’autore ma anche l’umorismo grottesco del Max und Moritz di Wilhelm Busch, il primo albo illustrato straniero tradotto in Giappone (1887). Gli esiti di queste influenze si possono ammirare sugli splendidi numeri delle riviste Akai tori (“Uccello rosso”, 1918-1936) e Kodomo no kuni (“Il paese dei bambini”, 1922-1944), fondamentali per la diffusione di una letteratura infantile di qualità, o nelle raffinate illustrazioni di Takei Takeo (1894-1983), che tra le altre cose reinterpretò le fiabe di Andersen e creò la serie di strisce umoristiche Akanoppo Aonoppo (“Orco rosso e Orco verde”, 1934), storia di un bambino discendente di Momotarō che invece di combattere i demoni li invita nella sua scuola, dando origine a una successione di scherzi e pasticci non troppo dissimili dalle monellerie di Max e Moritz.
Più in là, il settore degli albi illustrati pubblicati negli anni ’70 e ’80 è un’autentica miniera di tesori quasi del tutto inesplorata al di fuori del Giappone, se si pensa che nemmeno un classico come Yappari ōkami (“Dopotutto sono un lupo”, 1973) di Sasaki Maki – felicemente ispirato dagli albi di Maurice Sendak, e adorato da Murakami Haruki – è mai stato tradotto in alcuna lingua europea. Ho il meglio di un’intera letteratura a disposizione, e il fatto stesso di non comprendere il giapponese rende questa esperienza ancora più insolita e immersiva: più che una collezione di libri, a tratti, mi sembra di maneggiare una serie di reperti archeologici o artefatti alieni che mi piacerebbe studiare il più a lungo possibile. Sul mio smartphone annoto i codici ISBN dei volumi più interessanti, intuendo già che alcuni di essi, come la scoperta in assoluto più sorprendente, Tora no yume (“Il sogno della tigre”, 1984) di Tiger Tateishi, mi avrebbero richiesto lunghe ricerche sul mercato dell’usato, a partire dal centinaio di librerie che fiancheggiano le strade del quartiere di Jinbōchō.
È quasi sera quando finisco il giro della sala e scendo di nuovo al primo piano (che in Giappone corrisponde al nostro pianoterra) per dare un’occhiata alla sala-biblioteca. Ecco un gruppetto di bambini seduti attorno al tavolo centrale, circondati da librerie che invece di seguire la conformazione quadrata della sala disegnano attorno a loro un’altra grande circonferenza. Non ci sono i tappeti e gli arredi dai colori sgargianti che di solito identificano e demarcano i confini degli spazi dedicati ai più piccoli, ma un tenue equilibrio cromatico fondato sulle tonalità del legno e sull’accordo di elementi già incontrati nelle altre sale. In una saletta adiacente, attorno a un tavolo ovale, degli scaffali ad altezza di bambino conservano centinaia di libri provenienti dai vari paesi del mondo, preziosi viatici di un’educazione interculturale che in questo contesto può avere inizio fin dalla più tenera età attraverso l’esperienza di una libera scoperta.
L’impressione di una biblioteca grande come il mondo dev’essere comune a molti bambini che visitano queste sale, ma non soltanto a loro, e non solo per via della presenza di questi libri. Certo, la quantità di volumi consultabili materialmente o in formato digitale su apposite postazioni computer, o ancora da casa sul catalogo online della National Diet Library, oltre alla qualità delle risorse disponibili anche in lingua inglese sul sito della biblioteca (come una ricchissima esposizione virtuale), testimoniano un lavoro di ricerca e curatela che lascia sinceramente sbalorditi. Ma più ammirevole ancora è l’idea che sostiene questo progetto ormai ventennale, incentrato sì sulla letteratura per l’infanzia, eppure caratterizzato da un respiro molto più ampio, che nemmeno la formula “per e sull’infanzia” può definire in modo soddisfacente.
Le esposizioni temporanee, le collezioni storiche per ricercatori, così come le stanze per seminari e una sala di lettura specificamente dedicata alle ricerche scolastiche di ragazzi e adolescenti si dispongono idealmente attorno a questo tavolo circolare, ispirando il pensiero di un’intera comunità che nell’attenzione e nella cura nei confronti delle nuove generazioni trova il proprio baricentro. Si tratta forse di una circostanza eccezionale o di una realtà particolarmente fortunata? Sebbene conosca la tendenza a idealizzare certi luoghi tipica dello sguardo del turista, questo pensiero mi ha accompagnato anche sulle strade, nelle scuole e nei musei del Giappone, e mi sembra indicativo di una peculiare sintonia con l’infanzia che può essere colta da più punti di vista. Il ricordo individuale che permette a ogni adulto di ritrovare il sé-bambino, rielaborato in senso collettivo, diviene memoria sociale, si riflette a livello istituzionale nella custodia del passato e di una cultura condivisa, e si traduce infine nella responsabilità generazionale legata alla consapevolezza che i bambini di oggi saranno gli adulti di domani (una considerazione lapalissiana, ma troppo spesso trascurata).
Pochi mesi fa è stata diffusa la notizia dell’imminente apertura di una nuova biblioteca per bambini a Osaka, la Nakanoshima Children’s Book Forest, ideata e donata alla sua città natale dall’architetto Andō Tadao «per avere domani degli adulti più curiosi» e «far conoscere ai nativi digitali l’odore della carta». Un progetto voluto e studiato da anni, notevole sia dal punto di vista estetico, sia a livello simbolico (ad esempio per la scelta di non dividere i volumi per genere o età, in modo da sollecitare i lettori a un’esplorazione quanto più libera possibile). «Fra qualche anno, quando le piante cresceranno,» osserva Fabiola Palmeri, la biblioteca «assumerà la forma di un’enorme scatola ricoperta totalmente dall’edera», e allora «si trasformerà anche esternamente in un magnifico bosco».
Note:
Maggiori informazioni sulla International Library of Children’s Literature di Tokyo si possono trovare sul sito ufficiale della biblioteca e sul sito Taito Culture, dal quale sono tratte alcune delle fotografie precedenti (la terza, la nona, la decima e l’undicesima). La citazione di Lafcadio Hearn è tratta dalla sua raccolta Kokoro (1896, a p. 18 nell’edizione Luni del 2019). Kokoro, come nota lo stesso autore, significa «cuore» ma anche «“mente”, in senso emotivo; “spirito, coraggio, proposito, sentimento, affetto”; e “significato interiore”, così come nella nostra lingua si dice “il cuore delle cose”». Kokoro è anche il titolo di un romanzo (1914) di Natsume Sōseki (1867-1916), romanziere di spicco della letteratura giapponese, che nell’edizione italiana SE è tradotto come Anima.