Nel numero 0 di Quarantotto, uscito nel febbraio 2021, Bernard Friot in questo brillante articolo ha affrontato l'annosa questione dei libri a tema. Lo proponiamo a coloro che non l'avessero letto (il numero è esaurito), ma anche a coloro che lo hanno letto, considerato che si tratta di un tema intramontabile. Vi ricordiamo che la rivista biannuale Quarantotto, arrivata al suo quarto numero, si trova nelle Case dei Topi, librerie fiduciarie della nostra casa editrice.
[di Bernard Friot]
Qualche tempo fa, Valérie Cussaguet, fondatrice della casa editrice Les fourmis rouges, criticava su Facebook la letteratura per ragazzi «che cerca di trasmettere un messaggio a tutti i costi». Il suo post era una reazione alla valanga di testi che riceve su questioni di attualità (omosessualità, stereotipi di genere, immigrazione ecc.) e si chiudeva così: «Sbarazziamoci degli stereotipi, sì, mille volte sì, ma senza sfociare nel ridicolo… E cerchiamo di essere liberi. Di pensare. E di credere. SU TUTTI I FRONTI».
Siccome provo lo stesso sentimento di incomprensione e sconforto davanti a certi albi illustrati o romanzi scritti con l’intento di illustrare un tema, ho lasciato un breve commento: «Ci dimentichiamo che i bambini hanno bisogno di storie “aperte” per potersi creare un immaginario, di storie che parlino alle loro emozioni e che, al contempo, li introducano al mondo della narrazione. Un libro per bambini non dovrebbe dare risposte, ma aiutare il bambino a porsi delle domande e dotarlo di strumenti per trovare le risposte. Io credo alla funzione pedagogica della letteratura per ragazzi, che forma lettori in quanto insegna loro a leggere e a capire le storie, non alla sua funzione moralizzatrice. Cosa rimane in noi della Contessa de Ségur? I suoi discorsi benpensanti? No! Il lato perverso di alcuni suoi personaggi e le emozioni che ci suscitano certi suoi passaggi».
Qui vorrei approfondire l’argomento. Per cominciare, v’invito a rileggere The Storyteller (Il narratore, Orecchio Acerbo 2007 [n.d.r.]) dello scrittore inglese Saki (1870-1916). Com’è noto, in questo racconto una zia accompagna tre nipoti in un viaggio in treno. Nel loro scompartimento, uno scapolo particolarmente irritabile manifesta segni d’impazienza verso i bambini, un po’ troppo agitati. Allora la zia, per calmarli, racconta loro la storia edificante di una ragazzina dalla condotta esemplare che, inseguita da un toro, è salvata da tutti i compaesani corsi in soccorso di quel modello di virtù. La storia non ha alcun successo con i nipoti, che la trovano di una noia mortale. Lo scapolo allora si lancia in un racconto molto più appassionante: la storia di una ragazzina «orribilmente gentile», che per questo riceve tre medaglie e il permesso di passeggiare nel giardino del castello. Appena vi mette piede, però, arriva un lupo. La malcapitata si nasconde dietro un cespuglio, ma trema così forte che le medaglie sbattono tra loro. Il lupo la scova e ne fa un solo boccone.
I due racconti di questa storia illustrano perfettamente la nostra problematica. Il primo, quello della zia, non è guidato da una logica narrativa, ma dal desiderio di trasmettere una morale. Il secondo rende evidente l’inutilità del primo. Ma non si tratta di un semplice capovolgimento. Non trasmette il messaggio contrario (che sarebbe: «non bisogna essere virtuosi»); non trasmette nessun messaggio, almeno non direttamente. Stupisce, fa tremare il lettore, forse lo fa dubitare e, soprattutto, lo libera.
Stupisce: soddisfa la regola formulata da Jerome Bruner in La fabbrica delle storie: «La dinamica del racconto s’innesca solo quando avviene una rottura della banalità: a quel punto bisogna affrontarla, dominarla, riportare le cose al loro percorso abituale.» La storia raccontata dallo scapolo denuncia la banalità di quella della zia e anche della rappresentazione sociale del bambino modello (e di un modello di bambino).
Fa tremare e turba il lettore: se leggiamo attentamente il testo, la reazione dei bambini, incuriositi dall’avverbio «orribilmente» associato a gentile, rivela un certo turbamento, l’attesa di un evento tragico che essi auspicano e temono allo stesso tempo. Interrompono continuamente il narratore per chiedere precisazioni, lo incitano ad aggiungere dettagli più spaventosi che li facciano rabbrividire, come si aspettano, e sfidare i propri limiti. È il gioco del «fammi paura», ma è anche un interrogativo segreto: «cosa succede, se si ribaltano le regole? Fino a dove può spingersi la storia? Accadrà quello che penso (e spero e temo)?». Sì, «c’è qualcosa di inquietante nel racconto, difficile da definire. Forse raccontare storie non è innocuo, non così innocuo come imparare la geometria, e il racconto può portarci in una sorta di penombra nefasta o immorale. Allo stesso modo, bisognerebbe diffidare da una storia troppo bella: troppa retorica odora di impostura» (Bruner, p. 9).
Illustrazioni di Madeleine-Amélie Franc-Nohain per Un bon petit diable, Comtesse de Ségur, Maison Alfred Mame et Fils, 1932.
Il racconto libera: il modello del bravo bambino al quale si riferisce la storia della zia (conforme ai principi educativi di inizio Novecento) è una camicia di forza per un bambino «normale», consapevole che non potrà mai incarnarlo veramente. In realtà, è proprio un modello di bambino «orribilmente gentile», perché ai bambini in carne e ossa restituisce un’immagine degradante di sé. Per cui, sì, il lettore gioisce nel vedere «punita» e letteralmente distrutta la ragazzina perfetta, perché ciò gli consente di accettare le proprie imperfezioni. Imperfezioni che tutte le «piccole pesti» della letteratura per ragazzi, Max e Moritz, Gian Burrasca o Charles, il Bon petit diable della Contessa de Segur, lo aiuteranno a ridimensionare.
La forza del racconto non risiede nella lezione che vorrebbe insegnare, ma nel trambusto profondo che provoca nel lettore, invitandolo a riflettere su ciò che lo ha toccato e disturbato. «La finzione letteraria (…) non ha la vocazione di dare lezioni: invita a riconsiderare ciò che sembra evidente. È sovversiva per il suo spirito, non per la sua pedagogia » (Bruner, p. 13).
Illustrazioni di Madeleine-Amélie Franc-Nohain per Un bon petit diable, Comtesse de Ségur, Maison Alfred Mame et Fils, 1932.
Inoltre, non possiamo mai prevedere ciò che un bambino comprenderà o percepirà di una storia. «C’è in qualche modo una vita clandestina nelle opere che, inaspettatamente, interpellano i lettori empirici nella loro soggettività più segreta». È un’illusione di molti autori (ed editori) credere che il lettore, bambino o adulto, sia sensibile ai messaggi espliciti. Egli reagisce, in modo del tutto imprevedibile, a certe parole, immagini, situazioni che riecheggiano ricordi, esperienze, emozioni personali. A catturarlo sono spesso i dettagli che condiscono il racconto. Lungi dal distogliere la sua attenzione dall’essenziale, i dettagli permettono di creare associazioni, reti di significati e di attivare l’immaginazione. Uno scrittore, d’altronde, dovrebbe stare attento agli elementi apparentemente secondari tanto quanto alla trama generale della storia. Sono loro che illustrano il quadro generale della storia e forniscono immagini in grado di ribaltare gli stereotipi più radicati. Ricordo che una volta, mentre traducevo un libro tedesco, mi colpì un episodio secondario, a proposito di una coppia di adolescenti omosessuali. Non erano gli eroi della storia, la loro storia d’amore non aveva sviluppi, ma appunto: era un fatto, non un problema, e raccontata così, en passant, aveva molte più chance di modificare l’immaginario tradizionale di tanti libri “a tema” sull’omosessualità. Come scrive Jerome Bruner, «le storie ci parlano di piccole cose. Non procedono per grandi luoghi comuni, non intavolano discorsi morali. No, lasciano intendere» (Bruner, p. 80).
Peraltro, dimentichiamo che la finalità principale dei libri per bambini non è imporre una determinata visione del mondo, un’ideologia, ma di formare dei lettori, che contemporaneamente affinano la loro capacità di interpretazione, acquisiscono una maggiore fluidità di lettura e apprendono i codici della letteratura, attraverso la scoperta e l’assimilazione di un vasto repertorio di strutture narrative che utilizzeranno nelle storie che loro stessi inventeranno. In fin dei conti, la migliore palestra per uno scrittore per ragazzi è leggere storie scritte dai bambini oppure ascoltarli raccontare. È la prima lezione che ho imparato da La grammatica della fantasia, libro in cui Gianni Rodari cita e analizza una gran quantità di storie di bambini, mettendo in risalto la libertà della loro fantasia, la loro capacità di utilizzare e ribaltare i codici narrativi e sociali, l’energia sovversiva che li porta a sfidare i propri limiti, le regole, i divieti.
Riporto, come esempio, la storia scritta da Maé, otto anni, e pubblicata sul sito La fabrique à histoires:
Un giorno, un bignè al cioccolato ricoperto di zuccherini decise di andare a fare il bagno al mare. Aveva preparato tutto: il costume, la crema solare, la tavola da surf ecc. Ma, quando arrivò in spiaggia, un gruppo di gabbiani maleducati gli rubò la crema solare e la tavola da surf e divorò il bignè, crudo com’era, senza lasciare una briciola. Che peccato, avremmo tanto voluto vedere un bignè fare il bagno.
Quello che colpisce all’inizio è il piacere dell’affabulazione e la disinvoltura della sua fantasia. Raccontare è creare un mondo, una realtà, con le parole e la lingua come unici strumenti. Poi, notiamo la logica del racconto, costruito sul binomio fantastico «bignè» e «gabbiani». Nella sua brevità, ogni dettaglio trasmette un’informazione e un’immagine (gli zuccherini sul bignè, l’occorrente da spiaggia, l’espressione «senza lasciare briciole»). L’ultima frase è puro metadiscorso, un commento ironico sull’interruzione del racconto e una strizzata d’occhio al lettore, evocato dal soggetto plurale “avremmo voluto” che lo accomuna all’autore. Infine, dietro la sua apparente semplicità, il racconto attiva una complessa rete di associazioni mentali. Mette in contrapposizione due mondi: quello civilizzato, diremmo sofisticato, della società del consumo, in cui ogni intrattenimento richiede uno specifico corredo (la crema solare, la tavola da surf), con quello “selvaggio” degli animali, che appagano senza scrupoli i propri bisogni primari. Ironia sulla fragilità del nostro mondo artificiale rispetto alla natura? Poco importa cosa abbia voluto (e soprattutto non voluto) dire l’autore: «Un grande racconto ci invita a porci dei problemi; non ci dice come risolverli (Bruner, p. 22)».
Diamo, dunque, ai giovani lettori dei testi complessi, ambigui, aperti a letture imprevedibili, dei testi che interroghino invece di predicare. E diamo fiducia ai lettori, per piccoli che essi siano.