Venticinque anni fa, quando cominciavo conoscerla, di Giovanna Zoboli mi colpì la capacità di riconoscere e nominare le piante (non che non mi avessero colpito anche altre cose, ma quelle son cose private). Io credevo di essere un padreterno, nel campo: avevo imparato i nomi delle piante sull'onda della mia passione per l'illustrazione botanica e la mia frequentazione di erbari di diverse epoche. La sua conoscenza veniva, invece, da una madre curiosa e dalla passione per il giardinaggio, che l'aveva portata a frequentare i giardini botanici e a compulsare con grande attenzione i cataloghi dei vivai.
Nessuno di noi aveva studiato sui libri la morfologia e l'anatomia delle piante e ancora adesso, come allora, non sapremmo dire che cosa distingue una briofita da una tracheofita. Per lei - e per me in misura minore - si tratta di una conoscenza pratica, apparentemente di scarsa utilità: non saremmo in grado di ottenere la sufficienza in un esame di botanica elementare e, forse, neppure in un'interrogazione di biologia liceale.
Ma, in qualche modo, questa conoscenza nomenclatoria, questa capacità di riconoscimento, questa conoscenza appresa giocando (anche se i nostri erano giochi da grandi) è patrimonio non da poco. Non tanto perché ce ne si può pavoneggiare alle feste (io so anche imitare i versi degli animali e questo ha sempre risultati sorprendenti), quanto perché è una chiave di lettura del mondo. Una chiave, come già detto, pratica, ludica, che permette di interpretare il mondo e la sua bellezza con grande libertà. Giovanna mi ha detto recentemente che conoscere il nome di una pianta le permette di vederla, di distinguerla. Certo, i grandi sistemi di classificazione sono più esatti e profondi. Ma richiedono un'applicazione, uno studio e, alla lunga, risultano noiosi, faticosi, inutilmente farraginosi. Sono repulsivi per l'adulto e, ancor più, per il bambino e per il ragazzo.
D'altra parte, ne L'idioma analitico di John Wilkins, (Altre inquisizioni; Feltrinelli, 1963; poi Adelphi, 2000), Jorge Luis Borges immagina un'enciclopedia cinese «che s'intitola Emporio celeste di conoscimenti benevoli. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.» Questa classificazione, nella sua assoluta, impensabile arbitrarietà, ci mette di fronte da una parte alla futilità di qualsiasi metodo con cui l'uomo ha pensato di poter ordinare il mondo; e dall'altra all'intrinseca necessità dell'uomo di dare sistematicità alla materia del mondo per sottolinearne ed evidenziarne la meraviglia. Una necessità di conoscere la natura che trova nella capacità ludica e creativa del linguaggio uno strumento d'elezione.
Infatti, per quanto futile sia lo sforzo, resta in ciascuno di noi la necessità di osservare e il piacere di conoscere. Conoscere con gli occhi e con la bocca. E a questo compito si dedica Ti faccio a fettine di Chiara Armellini.
La struttura è quella resa nota da Ti faccio a pezzetti, della stessa Chiara Armellini, pubblicato nel 2012 e vincitore del Premio Soligatto 2013, dove la lettura procede a coppie di doppie pagine: nella prima coppia di pagine, il testo descrive, annuncia l'identità di una pianta senza svelare il nome, a destra il medesimo soggetto è mostrato a pezzi; nella seconda coppia di pagine, il testo nomina la pianta a caratteri molto grandi e, accanto, mostra la figura intera.
Ricordo che, a Roma, a Più Libri Più Liberi, una signora che aveva sfogliato il libro insieme a un'amica per pochi minuti si è domandata, a voce abbastanza alta da lasciarsi intendere anche da noi: «E poi, una volta che hanno risolto gli indovinelli, che cosa se ne fanno del libro?».
Ricordo anche che, alla premiazione del Soligatto, i cinquecento e più bambini-giurati che affollavano un grande auditorium, e che il libro lo conoscevano a memoria, gridavano i nomi degli animali, si sbracciavano e ridevano divertiti allo scorrere delle immagini sul grande schermo. Mi sono interrogato spesso su questa capacità di godere del riconoscimento, della scoperta del conosciuto, che sembra essere diventato oscuro a noi adulti. E forse dipende dal fatto che per noi adulti le storie sono, per l'appunto, solo storie; e i libri solo libri.
Ma per un bambino le storie e i libri sono anche pezzi, pezzetti, fettine: tasselli che permettono di costruire continuamente mondi nuovi e riconoscere un mondo che non è mai generico, ma sempre molto specifico. Un mondo nel quale non esiste "il cane", ma esistono Ombra e Chico e il cane dei vicini che abbaia quando passi e quelli abbandonati lungo la strada e quelli che una volta... Dove un fiore di tarassaco, un dente di leone, non è un concetto astratto, ma qualcosa di molto materiale, che si strappa e si soffia, scomponendolo in mille e mille frammenti per poi, magari, ricomporlo nella pagina di questo libro.
Da qui comincia la scienza, da qui la classificazione illuministica, da qui la catalogazione del mondo. Comincia per gioco.