Il grande potere dell'arte

[di Elena Iodice*]

Ci sono cose che accadono all'improvviso, senza che tu le abbia programmate, che ti tolgono il fiato, ti fanno tremare, sorridere, che riempiono quell’istante di gioia e di stupore. Ecco, di stupore soprattutto.

Perché se dovessi isolare tra tutte le emozioni quella che maggiormente permea questa mia “seconda vita” sceglierei proprio lui, lo stupore. Ma andiamo con ordine. Sappiatelo: questa è davvero una storia piccola.

Storia piccola, di Cristina Bellemo e Alicia Baladan.

Io sono un architetto. Non uno di quelli stanchi e insoddisfatti di una professione che spesso imbriglia la creatività nel rigore di leggi e vincoli. Amo il mio lavoro, mi ci sono sempre dedicata con grande passione pensando che questa, sola, fosse la mia strada. L’unica possibile. Non ero in cerca di nulla, le mie giornate mi bastavano. Ma la vita, si sa, è dispettosa, e si diverte a tendere fili per farti inciampare e farti cambiare direzione.

Nella scuola primaria a cui ho iscritto mio figlio, esattamente 3 anni fa, ho incontrato una maestra. Per mesi ha continuato a ronzarmi attorno come una mosca vagamente fastidiosa, chiedendomi di portare nella sua classe un laboratorio d’arte. Perché lo stava chiedendo proprio a me? Quale era il mio posto in quella richiesta? Ovvio, amo l’Arte ma raccontarla a bambini di 7 anni richiedeva strumenti che io ero certa di non avere.

A posteriori posso dire che non sapevo ancora di avere. Lei, la maestra Paola, invece aveva visto. Aveva capito ancora prima di me.

Ho nicchiato per un po’ fino a quando, dopo una visita alla Fondacion Mirò a Barcellona, ho ceduto e ho deciso di accontentarla. Più per togliermela di dosso che per reale convinzione.

Fondacion Mirò, Barcellona.

Ho preparato la “lezione” con grande cura, con la logica e il rigore che da sempre accompagnano il mio lavoro di progettista. Pensavo di essere pronta, sentivo di poter controllare ogni passaggio.

Cartina, linea del tempo e cartoline preparate per il racconto in classe su Mirò.

Quello che non avevo messo in conto, però erano loro: i bambini. Non avevo considerato la loro curiosità, la visione intrinsecamente divergente, l’impertinenza delle loro osservazioni, quello sguardo feroce e bellissimo che si posa sulle cose. Pensavo di avere il pieno controllo, pensavo di essere al sicuro dentro la mia corazza. Non sapevo, ancora, quello che ora, invece, so. Che i bambini la corazza te la strappano via, che spesso ti lasciano nuda, senza pelle, che ti costringono a scendere dal piedistallo, a sporcarti le mani ed esporre il fianco.

Quel giorno, in quella classe, mi sono vista agire da fuori e ho intuito che quello era il mio posto. Era tutto così assurdo, stavo contravvenendo ad una delle poche regole che mi ero data, quel “non insegnerò mai”. Eppure, allo stesso tempo, vedevo convergere lì le esperienze passate, gli studi, gli incontri importanti, quelli che segnano indelebilmente la vita, le passioni, tutto.

Ero in caduta libera ma per la prima volta mi sentivo viva.

Di quel laboratorio ricordo Pietro. Mi era stato presentato come un bambino non troppo abile nel disegno, bloccato. Avevo chiesto di rappresentare i loro sogni usando  il vocabolario di Mirò. Pietro era tornato con un racconto profondo e terribile in cui entravano pezzi di un dolore sordo e intraducibile a parole. Cominciò a disegnare: era concentrato su quel fondo nero da cui faceva uscire figure e simboli. Una stella, una scala, una linea fluida e figure dai grandi piedi.

La valigia dei sogni, acrilico su cartone.

Possibile che quelle poche parole dette sulla vita di Mirò avessero già fatto presa in modo così tenace? Possibile che Pietro avesse già capito il senso di quella pittura che traduce in forme l’essenza incorporea dei sogni? Mi avvicinai e gli dissi che non capivo perché si ostinasse a dire di non saper disegnare. Pietro si interruppe: si voltò, mi fissò e mi rispose, serissimo: “Fino ad oggi non sapevo di poter disegnare. Poi Mirò mi ha insegnato che posso farlo come so”.

In quel momento ho capito. Ho compreso la forza dirompente dell’Arte, la sua capacità di liberare, di svelare. Ho intuito, come in una breve epifania, di avere un potere enorme nelle mani. Io, proprio io, che non sono brava a disegnare, che non ho studi specifici, che tanta fatica faccio a lasciare libera la mano senza la guida rassicurante di righelli e strumenti, io potevo accompagnare quei bambini, e me stessa con loro, sul bordo di un precipizio. Certo, si può decidere di fermarsi lì, di tornare indietro. Ma dove noi vediamo l’incerto, i bambini intravedono una possibilità. E spiccano il volo.

Sono stata trascinata in quel volo, mi hanno presa per mano e costretta a lasciarmi alle spalle strade note e certezze consolidate.

Per quegli strani casi della vita in quei giorni stavo leggendo un piccolo libro su Matisse, Henry Matisse. Una seconda vita di Alaister Sooke. Parlando della malattia che lo costrinse a letto, immobile, incapace di potersi reggere davanti al cavalletto, Matisse scrive: «Quel che ho fatto prima della malattia, prima dell’operazione, sa sempre troppo di sforzo; prima avevo vissuto con la cintura allacciata. Quel che ho creato dopo rappresenta il mio vero io, libero e distaccato.» Ecco, era proprio quella la sensazione che provavo.

Matisse al lavoro ai cut-outs.

Ho 40 anni, una vita, felice, appagata, tranquilla. Ma Pietro, Margherita, Clara e gli altri mi hanno slacciato la cintura, tolto ogni certezza e costretto a rimettermi in viaggio. Ho imparato che questo viaggio non ha una meta precisa: cammino, seguendo più la pancia che la testa, infondo dicono che sia lì il centro dell’equilibrio, e ogni tanto mi fermo per incontrare nuove facce, altri occhi curiosi.

Molti mi chiedono se non mi dispiace dover accantonare o ridimensionare la professione per la quale tanto ho studiato e anche io, nei momenti di dubbio, me lo domando. Ma so che il rigore, la ricerca, il senso innato del progetto ancora mi accompagnano. Un laboratorio non si improvvisa, non si può arrivare davanti ai bambini armati solo di idee vaghe. Io, soprattutto, non lo posso fare, per il grande rispetto che nutro nei loro confronti. Loro sanno. Ti riconoscono, ti scovano se menti, se costruisci emozioni posticce. E allora devi studiare, documentarti, confrontarti con il testo con lo stesso stupore che loro nutrono, con grande e profondissima umiltà. Forse è il mio animo mai sopito di architetto che mi porta a parlare ma per me il senso del progetto è fondamentale. Non importa quanto complesso sia il laboratorio, se breve o diluito in un tempo più lungo. Ci deve essere una direzione, un senso.

Io sono un cielo rosso nevicato, L., anni 7.

Oggetti animati e sagome.

Leggo, leggo tanto. E poi lo trovo, quel senso, quel bianconiglio e decido di seguirlo. Quasi sempre mi porta lungo percorsi non battuti, verso mete lontane di cui intuisco solo potenzialmente la direzione. Ma so di doverlo seguire. Cerco tracce, pensieri, sassolini bianchi fino a quando le cose iniziano a tornare fino a quando la ragione fa pace con il cuore. E allora sono pronta ad aprire la porta del laboratorio: da lì ogni cosa può accadere.

Ho imparato che i miei piani possono essere brutalmente stravolti, che il controllo può venire meno, che quella direzione trovata può subire innumerevoli aggiustamenti. Ma anche che posso ricevere molto più di quello che mi sarei immaginata, che le prospettive possono diventare più lunghe, che nulla è scontato. L’Arte, per me, è la chiave che apre porte serrate. È lo strumento che permette a quei bambini di raccontarsi, di liberarsi.

Opera al Nero, laboratorio negli spazi della mostra “Mirò: Soli di Notte”, Villa Manin, Passariano, Udine, classe III.

Potessi disegnare come un bambino, laboratorio su Paul Klee. Fondo a gessetto, autoritratti realizzati con disegno automatico a occhi chiusi, classe II.

Partiamo sempre, loro e io, parlando delle vite degli artisti di cui andremo a seguire il percorso: per me resta fondamentale raccontare La Ruche per capire Modigliani o parlare della Guerra Civile per comprendere davvero Guernica. Non taccio nulla. L’arte implica un’adesione profonda alla Verità. E loro, i bambini, sono capaci di capire, di afferrare il senso dei legami e delle storie. Poi, però, le esperienze di Picasso, Matisse, Gauguin e degli altri ci servono per intraprendere un viaggio dentro noi stessi. Per parlare di paura, di coraggio, di libertà. Ho assistito incredula allo scioglimento di certi nodi, ho visto bambini afferrare al volo questa opportunità concessa dall’Arte e aprirsi completamente e senza ritegno.

Dovrei parlare di Alice che disegna il suo Guernica per esorcizzare il dolore della morte del nonno. O di Marcelo, bambino adottato, che vede in Gauguin la possibilità di saldare il suo passato e il suo presente. O di Nico che scopre con Klee la possibilità di lavorare ad occhi chiusi libero dall’ansia di dover rimanere “dentro le righe”.

Wired Portraits. Il giorno in cui Mr. Calder incontrò Herr Klee. Autoritratti a fil di ferro,

Dovrei parlare di loro, dei bambini che ogni giorno incontro, per raccontare davvero il grande potere dell’Arte. E per spiegare anche la paura che, inevitabilmente, mi accompagna.

Io apro solo una porta, non faccio molto di più. Ma nel modo in cui compio quel gesto c’è tutto. Posso liberare o, al contrario, imprigionare. Non si maneggia un potere come questo con leggerezza, non si può. Ogni volta, prima di un laboratorio, mi assalgono i dubbi, le incertezze, la voglia di fermare questo treno e tornare indietro alla mia solita vita. Poi incontro loro e so di non poterlo fare.

“Ho imparato a dimorare nell’inaspettato, non è che mi aspetto di tutto, è che sto in una zona precaria e marginale dove so di non poter controllare quasi niente. E comincio a starci bene. Proprio vivissima. Fa tremare essere vivi, vivissimi fa tremarissimare... (cit. da Chandra Livia Candiani, Ma dove sono le parole, Effigie Edizioni, 2016)

Ed eccoci arrivati al presente: quando ho ricevuto la mail di Giovanna ero in treno, di ritorno da un week end che aveva nuovamente sovvertito i miei piani per il futuro. Per poco non mi è preso un colpo. La ricerca, il progetto, ancora una volta, sottesi nelle linea editoriale di Topipittori va spesso nella stessa direzione del mio. A confronto con la loro grande storia la mia è, appunto, piccola. A Giovanna che mi chiedeva di raccontarmi la mia prima risposta è stata: “Ma cosa posso dire io?”. Ma, forse, come Paola, anche Giovanna non s’è fatta incantare dalle mie reticenze, dalle mie paure e così eccomi qui a scrivere, a raccontare quella storia.

Ho capito che attraverso di essa potevo dare voce a loro, ai bambini. Che potevo raccontare di come si può alzare l’asticella della complessità con la ferma convinzione che i bambini ti seguiranno, in quel salto. Che potevo semplicemente mostrare quella rivoluzione che, prima fra tutti, ha coinvolto me. E lo dovevo fare con la stessa Verità che muove loro, senza pudori, parlando di quella gioia pazza che ti prende quando le tue idee trovano finalmente la loro forma ma anche della paura che tende a bloccare a terra i tuoi piedi.

Ogni giorno chiudo nella mia valigia tutto quello che sono stata e quella che sono, i miei riferimenti assoluti, Munari, Rodari e Lionni ma anche le facce nuove che questa mia seconda vita mi ha portato ad incontrare e parto.

Leo Lionni.

Bruno Munari.

Gianni Rodari.

L’unica certezza è quella regola, l’unica, che i miei bambini imparano da subito a memoria: l’errore non esiste. E se ci sarà, lo trasformeremo in capolavoro.

Picasso, che paura!, Laboratorio su Pablo Picasso, nudo di donna.

Picasso, che paura!, Laboratorio su Pablo Picasso, nudo di donna, particolare del volto.

La passeggiata di Monsieur Matisse, laboratorio sui cut-outs, classi I e III.

La grande galleria degli esseri umani. “Lui ci vedeva attraverso il suo cuore”, Jean Cocteau parlando di Modigliani, classe IV.

Attorno a Guernica, Picasso, classe III.

Tra i molti “grazie” che dovrei dire ce n’è uno speciale: a Francesca di Alchemillalab per essersi presa cura di me e di questo testo.

*Mi chiamo Elena Iodice. Sono nata a Bologna esattamente 40 anni fa ed ora che mi guardo indietro sembra che tutte le esperienze del mio passato, sommate le une alle altre, mi abbiano portato fino a qui. Nell’ottobre del 2001 mi sono laureata presso la Facoltà di Architettura di Ferrara con una tesi in Restauro Archeologico. Dopo anni di esperienze come volontaria con bambini e ragazzi, quasi per caso, quella che era una passione relegata nei ritagli del mio tempo, è diventata un lavoro. Da 3 anni conduco laboratori coi bambini in cui l’Arte diventa pre-testo per parlare di sé, per raccontarsi, per uscire dai percorsi noti e rassicuranti e trovare la magia dell’inatteso. Presto, prestissimo il frutto di questi lunghi e bellissimi anni troverà una casa nel sito a cui lavoro nel tempo sincopato compreso tra il rigoroso progetto di case e le piccole passeggiate tra le righe storte dell’Arte. Per informazioni, qui.

“Lasciare che il mio lavoro desse forma alla mia vita, non era cosa nuova: l’avevo fatto prima - con leggerezza, in maniera quasi impercettibile, seguendo i sentieri difficili dell’adattamento e del compromesso. Ma questa volta era diverso. La scelta non riguardava tanto l’adottare un nuovo stile di vita, ma il vivere un nuovo stile di emozione. La scoperta...non s’era verificata perchè avevo incontrato e scoperto un nuovo mezzo espressivo, un nuovo soggetto, una nuova tecnologia. Giunse a seguito di un mutamento totale di visione. Fu come se i miei sogni vaporosi si fossero solidificati di colpo e il centro del mio essere, il nucleo delle energie creative, si fosse spostato altrove, lontano dalle comodità delle tradizioni ricevute.” cit. da Leo Lionni,
Tra i miei mondi, Donzelli editore.



Picasso, periodo Rosso. Lavori per il progetto Pippo Bianco, Pippo Rosso, classe IV.