Da alcuni anni, Maria Giaramidaro, fondatrice di Oliverlab, associazione che si occupa di promozione della lettura per bambini e ragazzi, organizza a Palermo Autori in città, un programma che supporta le scuole e gli insegnanti nella scelta di libri da proporre ai ragazzi. I libri vengono poi adottati dalle classi e dopo la lettura dei testi e la discussione in classe, gli studenti incontrano gli autori, per conoscerli e conversare con loro. Maria ha lavorato molto con la nostra collana Gli Anni in Tasca. In sei edizioni di Autori in città, ha adottato sei nostri autori, con i rispettivi titoli: Giusi Quarenghi con Io sono il cielo che nevica azzurro, Bernard Friot con Un altro me, Alicia Baladan con Piccolo grande Uruguay, Anna Pavignano con Una cosa che mi scoppia nel cuore, Luisa Mattia con W la libbertà, Cesare Finzi con Il giorno che cambiò la mia vita, Cecilia Bartoli con Gli amici nascosti. È stata invitata anche Silvia Vecchini per le raccolte di poesia Poesie della notte del giorno di ogni cosa intorno e In mezzo alla fiaba. La cosa per noi importante è che in tutte queste occasioni, i libri si sono rivelati graditi ai ragazzi e interessanti come innesco per il lavoro e il dialogo in classe, ricchi di spunti per scoperte e riflessioni individuali e collettive, capaci di coinvolgere e promuovere esperienze di pensiero. In questo post, Arianna Squilloni, autrice dell'ultimo libro della collana, L'estate e tutto il resto, adottato da Autori in città e letto da nuemerose classi di tre scuole palermitane, racconta come sono andati gli incontri che ha avuto con i ragazzi, l'atmosfera che ha trovato, le domande che le sono state rivolte, le letture che sono state fatte dai ragazzi delle sue parole. Per questo la ringraziamo, e con lei Maria per il lavoro che fa con successo, pur con libri come gli Anni in tasca, diversi per temi e scrittura dai trend dominanti della narrativa per ragazzi.
[di Arianna Squilloni]
All’inizio di questa avventura, c’è una casa editrice, Topipittori, con un’editrice convinta che la narrazione autobiografica costituisca un modo di raccontare a portata dei bambini, un modo di raccontare che diventa ponte perché, leggendo l’esperienza personale di un adulto che fu bambino in un passato non troppo lontano eppure così distante, i ragazzi comprendano il mondo in cui si muovono.
E c’è anche Maria Giaramidaro (OliverLab) che, a Palermo, ha dato vita al progetto Autori in Città, attraverso cui prima un libro è adottato da una scuola e poi anche il suo autore per un incontro diretto.
Io ho avuto la fortuna di andare a parare proprio in mezzo a loro. E così, dopo la pubblicazione del mio anno in tasca, L’estate e tutto il resto, un giorno mi ha scritto Maria per invitarmi a Palermo a parlare con ragazzi fra gli 11 e i 13 anni che avevano letto il mio libro.
Sono entrata in panico, perché – come riassume Mariangela, insegnante di un gruppo di ragazzi della scuola media di Palermo Leonardo da Vinci – gli adulti sono abituati a mentire socialmente, i ragazzi no. Appunto. E nella mia autobiografia mi sono messa proprio a nudo; non vi accadono cose eccezionali, degne di ripercussione mediatica, eppure queste piccole cose appartenenti alla mia infanzia per me hanno avuto una forza esplosiva così grande da determinare il mio modo di essere al giorno d’oggi, le mie paure e anche le mie (poche) sicurezze. Insomma per me questi piccoli avvenimenti sono stati i pilastri dell’universo.
A Palermo, avrei scoperto se il racconto della mia infanzia fosse un delirio solipsista o se davvero poteva significar qualcosa per un giovane lettore. Non è poco.
L’esperienza è stata travolgente.
In due giorni con Maria abbiamo visitato tre scuole medie (Alberico Gentili, Antonino Pecoraro e Leonardo da Vinci) e risposto alle domande di un’infinità di bambini, 200 forse? Due giorni, tre incontri, tre esperienze completamente diverse, tre esperienze entusiasmanti.
Le domande si sono succedute a raffica, le mani si alzavano qui e là, alcune ripetutamente, per stabilire innanzitutto la veridicità della scrittrice, io. In genere, quando mi chiedono dove vivo, per farla breve, dico che vivo a Barcellona. L’ho detto anche lì:
«Ma non è vero», ha interloquito un ragazzo. «Non vivi a Barcellona vivi a Mataró.»
Aveva ragione, era vero, nessuna scorciatoia, bisogna essere precisi. E, a quanto pare, i ragazzi di me sapevano tutto.
«Sì, nel racconto sono stata precisissima, è tutto vero.»
«Tutto vero?»
«Tutto.»
«Ma non sentivi vergogna? Se è tutto vero… Ci sono cose che io non racconterei.»
«Non raccontarle, allora, se non vuoi. Io dovevo farlo, perché avevo voglia di capirmi, di ricordare come fossi arrivata fino a qui. Avevo bisogno di guardare indietro e mettere insieme i pezzi, metterli in ordine.»
«Sì, però quando parli della stanza al mare in cui non potevi entrare… Ma alla fine, ci sei entrata, vero?»
«E no, non ci sono mai entrata. Tu cosa avresti fatto?»
«Avrei trovato il modo di entrare.»
«Lo so, anch’io sono molto curiosa, eppure a volte è bello che certe cose restino inesplorate. Un mistero, certi misteri, è bello immaginarli, a volte se li sveli scopri che tutto sommato non erano un granché, mentre se li immagini allora posso essere qualunque cosa.»
Allora ha parlato una ragazza: «Io lo capisco, sai? E poi c’è la paura che a volte ti fa restar ferma.»
Le voci dei ragazzi e delle ragazze si sovrapponevano, si succedevano l’una all’altra. Abbiamo parlato della curiosità, della voglia di scoprire, del bisogno di ritrarsi a volte, del miracolo delle coincidenze. Certo tutti volevano sapere di Alessandro, il mio ragazzo nel libro, com’è andata a finire? Beh, non bene, ma non importa, quello che importa è stato il momento esatto in cui ci siamo detti che ci piacevamo…
«È vero! E quello è un miracolo! Un vero miracolo!» è intervenuto un ragazzo vicino a me.
«Ah sì? Qual è la tua esperienza?» gli ho chiesto.
«Oh, a me è quasi successo una volta, quasi!» ha risposto orgoglioso.
E poi qualcuno non capiva, c’erano cose del libro che gli sfuggivano: «Perché dici che cadere è un’arte?»
E quasi non dovevo rispondere, perché arrivava un suo compagno, uno che fa arti marziale, taekwondo. E glielo spiegava lui: «Oh, sì, io lo so perché la caduta è un’arte! Se ti vuoi rialzare e andare avanti, dev’essere un’arte.»
E poi altre domande su domande, e richieste di consigli per scrivere: una ragazza tiene un diario, come trasformarlo in una storia? Un altro finalmente ha trovato una storia da raccontare. Che fare? E beh, scrivila e poi rileggila perché, quando racconti, gli avvenimenti si mettono in ordine…
«È quello che hai fatto tu?»
«Proprio così.»
Ma a un certo punto tutte le domande sono finite, perché c’era un fatto a cui non avevo pensato: tanti bambini avevano voglia di parlare della loro esperienza, di quello che avevano riconosciuto di se stessi nelle mie avventure.
In particolare in una scuola, molti ragazzi si sono soffermati sul fatto che nella mia famiglia paterna tutti parlano con tutti, parenti vicini o lontani, presenti o assenti. Parlano nel sonno, riempiono il silenzio.
Anche i ragazzi sanno come certe assenze siano capaci di trasformarsi in presenze attraverso il racconto, attraverso le voci che sentono nel sonno, nei sogni. E si sono alzati, per raccontare dello zio morto giovane e di come la nonna continuasse a parlare con lui, per esempio. Uno dopo l’altro hanno raccontato la loro esperienza, attestando la mia sincerità: sì, anche loro nel mio racconto ritrovavano un’esperienza familiare.
Ci si sente soli a volte, in un mondo così grande, in un universo così vasto, sì, abbiamo parlato dell’universo e dei corpi gelati che si muovono a milioni di anni luce lontano da noi nell’oscurità più profonda. Ci si sente soli a volte, eppure in mezzo a questo silenzio, sai che altre persone sono passate di qui, che altre persone hanno avuto paura come te, che altre persone – anche se non sono più qui – ti parlano, le senti davvero, o puoi leggere le loro memorie, raccontarle a tua volta.
Il racconto autobiografico così è diventato una cartina di tornasole per far vibrare la propria esperienza del mondo, nel mondo.
Come ha detto Maria, è stato come se i ragazzi nella storia d’infanzia della persona adulta che avevano davanti, in mezzo alle tante differenze di tempi, luoghi e sensibilità (l’estate per una bambina di Milano è un tanticchio diversa dall’estate per un bambino in Sicilia, per esempio) avessero ritrovato i loro stessi desideri, le loro stesse preoccupazioni, le loro stesse soluzioni.
In questa linea si è svolto anche il lavoro creativo realizzato da alcune classi che, a partire dalla lettura del libro, hanno prodotto artefatti in cui spesso le parole si sono unite alle immagini. Alcuni ragazzi hanno raccontato con poesie e pagine di diario la loro estate, la loro relazione con il mare; altri hanno preparato un gioco dell’oca e altri ancora un libro che rappresenta il cassetto in cui si conservano tutti i segreti, riposti al sicuro, sotto forma d’immagine. Un cassetto della memoria. Ogni studente ha realizzato una pagina e, dato che di un libro antico si tratta, hanno fatto esperimenti per invecchiare la carta, ingiallirla con il caffè e il tè, appurando che in questo caso il tè garantisce un risultato migliore. In tutto questo ho riscontrato una ricerca manuale, una voglia di sperimentare, provare e fare davvero entusiasmante.
E c’è stato poi un gruppo che ha costruito una trama, letteralmente: una trama fatta di strisce di carta in cui ognuno ha ricreato l’essenza del libro, condensandola in un’immagine simbolica o scegliendo per esempio un percorso narrativo, riprodotto attraverso estratti di testo e immagini e ricomposto alla ricerca di una storia dentro la storia. E poi, nel percorso di appropriazione della storia letta, i ragazzi hanno cercato una parola, un aggettivo che la rappresentasse, o meglio, che rappresentasse me, scrittrice e protagonista del romanzo.
L’aggettivo è stato poi collocato nel profilo di una mano. Ogni scelta, tanto nella creazione della trama come nella decisione di usare il profilo della mano, è stata discussa e argomentata da ogni ragazzo in classe.
La mano. Si possono dire molte cose delle mani, a partire dall’identità, dalle impronte digitali, ma (e di questo non mi ero accorta, al momento) anche delle mani che fanno parte della mia storia, del bisogno di avvicinarmi alle cose e alle persone attraverso il tatto.
Ho visto la profondità di un abisso in ognuna di quelle mani, un abisso che non faceva paura… Oppure un poco, sì, come ogni abisso, ma una paura accompagnata da una voglia matta di partire a esplorare, conoscere.
Ogni mano contiene una parola ed è decorata con colori, immagini in grado di esprimere e rappresentare il senso dell’aggettivo scelto. Mani bellissime.
Come ha notato Mariangela, la loro insegnante, nel processo di appropriazione del romanzo, alla fine ognuno è arrivato a parlare di sé, a scegliere un aggettivo con cui identificarsi a propria volta, a trovare percorsi di lettura e storie capaci di parlare della sua stessa storia.
Insomma, questi incontri a Palermo sono stati una rivelazione e un grandissimo regalo per una persona solitaria come me che nella sua autobiografia afferma: «Sarà, tuttavia continuo a sentirmi sola e mi pesa il silenzio delle cose. Vorrei proprio capirle e capire le persone, sentire quello che provano, desiderano, sperano. Saperlo con sicurezza. E invece mi sono sempre sentita isolata in una bolla, incapace di toccare veramente le persone davanti a me, di sospettare cosa si agiti dentro di loro, a cosa pensino, come si sentano. Come si fa a mettersi nella pelle di un’altra persona? È una vita intera che ci provo.»
Ecco, così è successo a Palermo che, questo mese di gennaio, finalmente questi ragazzi hanno risposto alla mia domanda. Perché le storie che hanno creato e pensato mi hanno fatto sentire quanto siano vicine le persone, molto più vicine di quanto abbia mai immaginato. E parlare attraverso la narrazione autobiografica è un modo per raggiungere l’altro, riconoscersi ed essere riconosciuti nel racconto di un’altra persona. È come se tutti insieme ci fossimo messi a far esplodere bolle, ritrovandoci non più sospesi a mezz’aria, ma ben piantati nella realtà, in questo mondo.