Un nuova cronaca dall'infanzia di Rita Gamberini.
[di Rita Gamberini]
Avrei tanto voluto presuntuosamente intitolare questo scritto Frammenti di un percorso armonioso in omaggio alla mia fanciullezza ricca e avventurosa e alla mia passione per sovvertire l’ordine delle cose, rovesciare il senso, storpiare le parole e le frasi. Ma non sarà così, piuttosto omaggerò ancora una volta mia madre (l’ho già fatto, ma non è mai abbastanza) che per prendersi gioco di me mi definiva affettuosamente profana volendo dire maldestra. Nell’uso comune profano è colui che è inesperto, non competente, non preparato in un’arte, una disciplina, un determinato settore di attività. E io che mi sentivo sempre pronta ad accogliere e sperimentare tutto ciò che poteva soddisfare il mio desiderio di cimentarmi in nuove avventure, nel tempo ho dovuto accettare di riconoscere un certo impaccio, una mancanza di destrezza che imputo al fatto di essere stata incline a usare la mano sinistra per essere poi prontamente corretta. Mio padre era mancino e raccontava che la maestra gli dava le bacchettate sulle mani, quindi deduco che l’intento sia stato di sottrarmi all’eventualità di un simile sadismo. È forse a causa di questo “essere messa in regola” che un certo punto la maldestrezza ha fatto capolino nella mia vita? Penso di sì, anche se molte disavventure me le sono andate a cercare.
Mi sono arrampicata sugli alberi, sui pendii scoscesi delle mie montagne, sono salita su camioncini in corsa, sui fienili nelle campagne, ho camminato sulle fontane ghiacciate e sentito il ghiaccio cedere al mio peso, mi sono lanciata in discese senza freni con la bicicletta, sono caduta mille e mille volte e non era mai abbastanza. Ho combinato marachelle e sono stata scoperta.
Alcune esperienze mi hanno davvero convinto del mio destino di maldestra.
Un’estate i nostri genitori hanno spedito al mare me e mia sorella a fare le cameriere in una pensione gestita da certe conoscenti. Il nostro lavoro avrebbe pagato il soggiorno marino. Di positivo c’erano le mance che gli avventori della pensione elargivano in monete fino a cento lire. Quei soldini li mettevo al sicuro dentro le scarpe da ginnastica mentre servivo i vari tavoli, portando vassoi su cui i piatti delle cene serali, per lo più a base di minestrine in brodo, oscillavano paurosamente. Una piccola scala portava allo spazio esterno e quella scaletta e le mance nella scarpa mi sono state fatali, mentre precipitavo con vassoio, piatti, quadrettini in brodo e compagnia bella su una sbigottita e contrariata famigliola. Caviglia rotta, fine dell’esperienza, si torna a casa.
Da più grandicella mi sono iscritta a un corso di nuoto per migliorare la mia scarsa acquaticità, forse dovuta alle mie toste origini montanare. L’istruttore ci chiede di entrare in acqua suddividendo i gruppi a seconda dei livelli che ognuno deve auto dichiarare. Mi colloco nel gruppo di quelli con capacità media e cerco di non farmi notare, mostrando un’apparente disinvoltura. Vengo subito beccata per avere barato e finisco dritta a simulare il nuoto a secco, distesa vergognosamente su una panca a bordo piscina. Prima e ultima lezione di nuoto.
Da più grande ancora penso di racimolare qualche soldo, offrendo lezioni private di italiano scritto. So scrivere? Bene, mi metto sul mercato cercando di evitare i soliti avvisi che inflazionano negozi e bacheche varie, ed ecco uno slogan di sicuro successo: Scrivere un tema è un problema? Chiamate il numero... Soddisfatta della mia originalissina idea, faccio il giro del quartiere, attaccando bigliettini un po’ qua e un po’ là, certa di ottenere l’attenzione di qualche studente alle prese con la bestia nera dei temi di italiano. Ed ecco arriva la prima telefonata. Un signore che ha letto fra le righe del biglietto un messaggio equivoco e crede di avere a che fare con proposte indecenti. Chiudo e passo a ritirare tutti i bigliettini. Scrivere un tema è un problema? E io che volevo essere un genio del copyright, potevo intitolare questo scritto Frammenti di un percorso armonioso?
Francisque Poulbot, illustrazione per Poil de Carotte, di Jules Renard, Éditions Calmann-Levy, 1917.