[di Enrica Buccarella]
Abbiamo cominciato a parlare di fiabe prima di Natale, quando dai racconti realistici siamo passati a quelli fantastici. Ho portato a scuola tanti libri, credo più di quaranta e la nostra "bibliotechina 100 libri", cioè quello scaffaletto abusivo costruito dal papà di Leia, che ancora miracolosamente mi fanno tenere in classe, si è riempita fino a scoppiare.
Vittoria Nina e Riham si sono offerte di tenerla sempre in ordine e hanno messo a posto i libri per casa editrice e collana, senza che io avessi dato indicazioni. I libri grandi, gli illustrati più belli e preziosi occupano un posto d'onore. Sono quelli che tutti vorrebbero sfogliare subito subito, interrompendo qualsiasi attività, quelli che vorrebbero portarsi a casa, quelli che "Maestra questo ce lo leggi? Ora? Quando?"
Quelli che affascinano persino i non lettori.
Li ho tirati fuori dalle borse di tela al suono della campanella e hanno cominciato a leggerli subito in attesa delle "signore della mensa". Davide ha preso La voliera d'oro e dopo due minuti era immerso nella lettura e nelle immagini, le guance rosse, la frangettona scomposta che gli ricadeva sugli occhi. Quando ha dovuto interrompere per mangiare mi ha detto: “Ti prego maestra, questo non darlo a nessuno, devo finire di leggerlo.”
Matteo invece è rimasto affascinato da Messer Gatto, ovvero il gatto con gli stivali, illustrato da Gabriel Pacheco. Quando si è accorto che non c'erano parole gli si è aperto un sorriso larghissimo: “Ma è un libro di disegni!” Gli ho segnalato allora che la storia è scritta tutta alla fine e con un linguaggio un po' difficile, un po' lontano dal nostro modo di esprimerci. Mi sono molto meravigliata quando, dopo aver guardato attentamente le raffinatissime figure e aver riso molto con le lepri acchiappate dal gatto, l'ho scoperto intento a leggere la storia con un insolito impegno. “Sono arrivato già qui”, mi ha detto, alzando un attimo gli occhi.
Alcune bambine hanno letto in gruppo Le fiabe più belle, una raccolta della Nord Sud con le illustrazioni di Lisbeth Zwerger, che è tra le mie illustratrici preferite.
Dean e Alberto, complice la figura del re in mutande, non hanno più mollato I vestiti nuovi dell'imperatore, illustrato da Guarnaccia.
Ma il libro che ho scelto di leggere io a tutti, proiettandone al buio le immagini, è Hansel e Gretel di Lorenzo Mattotti, edito da Orecchio Acerbo, con grandi pagine illustrate tutte nere. Lo leggerò domani e dopo chiederò ai bambini di immaginare la tavola di una fiaba, una sequenza anche inventata, un momento topico tipico delle fiabe, da rappresentare dipingendo solo col nero. Un incantesimo, la comparsa di una strega, un drago, un animale fantastico, un combattimento, una fuga, il terribile lupo, un orco. Chissà che pitture nasceranno.
Pitture di Francesco, Junear, Misha, 8 anni
Anche sul nostro libro di testo ci sono alcune fiabe, cioè alcuni esempi striminziti di ciò che una fiaba dovrebbe essere, le più brutte che siano mai state scritte, tirate fuori da libri in partenza altrettanto brutti. Non una fiaba classica, nemmeno una piccina piccina dalle Fiabe italiane di Calvino. Mi rodo il fegato ogni giorno, pensando alla possibilità che avrei avuto, con l’adozione dei testi alternativi e della biblioteca di classe, di avere libri scelti, belli, tanti, di qualità, rispettosi, anziché una brutta antologia corredata di esercizietti. Invece i libri belli, di qualità, le fiabe classiche di Perrault, dei Grimm, di Andersen, nelle migliori traduzioni e nell'interpretazione di tanti illustratori straordinari nella loro ricerca di stile, li ho dovuti portare a scuola io. E agli altri bambini chi li porta?
pitture di Matteo, Alessandro, Giorgio, 8 anni
Leggiamo dunque Hansel e Gretel, proiettandone alla lavagna le illustrazioni.
Si sa che le fiabe servono a dire l’indicibile, a generare la paura dell’impossibile che per un attimo diventa verosimile. La madre e il padre accompagnano i bambini nel bosco e li abbandonano. I bambini restano soli, senza cibo, al freddo, nella foresta, ma soprattutto al buio.
Mentre il testo narra i fatti, le illustrazioni di Mattotti, grandi tavole attraversate da intricatissimi segni neri, raccontano ciò che accade dentro di noi mentre ascoltiamo. Così come succede anche in Buchettino, testo teatrale in forma di libro di Chiara Guidi, interpretazione fedele di Le petit poucet di Charles Perrault, nella cui prefazione Goffredo Fofi dice che nel buio “tutto è lasciato unicamente all’immaginazione”. L’esperienza straordinaria del buio, sia in Hansel e Gretel, che in Buchettino, entrambi dell’editore Orecchio Acerbo, viene resa con scelte ben precise: alternare pagine bianche e nere, separare le parole dalle immagini e, in queste ultime, “lavorare solo sul buio, sulla foresta, sulle suggestioni, lavorare in sintesi, sulla paura dell’immaginazione.”
Non si vedono volti, espressioni, non c’è nulla di descrittivo, ci sono segni, scie e graffi dai quali si intuiscono luoghi che diventano sempre più impenetrabili, ci sono sottili lame di luce che fendono il buio e ombre, sagome scure a cui ognuno può dare fattezze, espressioni, ghigni e sguardi, bocche che sgridano, sghignazzano, supplicano.
Quanto incide la scelta di un libro quando si legge ai bambini, a scuola? Quanto è importante che il testo non sia la sintesi dei fatti, ma la traduzione letterariamente curata del testo originale? Ogni volta che Hansel con i genitori si addentra nel bosco e si volta indietro a guardare la sua casa, era tangibile nei bambini lo struggimento dell’addio imminente mentre leggevo queste parole: «Hänsel!... Che hai da strascinarti e girarti continuamente? Piuttosto sta’ attento a dove metti i piedi!»
«Guardo il mio gattino bianco che è salito sul tetto per dirmi addio.»
«Stupido!» dice la madre a questo punto e questa parola, come uno schiaffo in pieno viso, colpiva i bambini. Li sentivo sobbalzare sempre più a disagio, sempre più immersi nel buio. Per due volte i genitori portano i bambini nel bosco e per due volte si ripete nel testo questo scambio di battute, con la parola: stupido! che risuona di violenza. Umberto mi dice: “Maestra, io la sapevo già la storia di Hansel e Gretel, ma non così.”
Non è la trama, peraltro già conosciuta, ad affascinare e sconvolgere i bambini, sono le parole precise di questa narrazione a portarli dentro la storia e a coinvolgerli emotivamente a tal punto che, nonostante il lieto fine, non mi sembrano del tutto consolati. L’idea di poter essere rifiutati, abbandonati da chi più d’ogni altro dovrebbe amarli, ha continuato ad aleggiare e allargarsi nei loro pensieri come una nuvola sempre più grande e scura. Nonostante le parole del finale tentino di cancellare la tristezza, di giustificare l’azione del padre, di riscattarlo agli occhi dei figli per aver ceduto… L’unica consolazione di questa fiaba è che i bambini, così come in moltissime fiabe, si salvano da soli e, così facendo, salvano anche gli adulti.
Far conoscere le fiabe ai bambini in questo modo, con questa intensità, significa introdurli al senso stesso della fiaba, avvicinarli alla sua grandezza che è quella di essere trasposizione fantastica del mondo e della verità, che si sfiora proprio quando si riesce a sganciarsi dal presente, dal concreto, dal reale.
Le fiabe come il teatro, che per sembrare vero deve essere finto. E allora più le fiabe sono inverosimili, meno i bambini chiederanno, ma come è possibile, ma come fa? Anche se oggi, nei bambini, si verifica sempre più spesso l’incapacità di prescindere dalla realtà, di sospendere il giudizio, il dubbio, l’incredulità, per la tendenza a riportare le cose su un piano concreto e pragmatico: perché ha fatto così, se era più semplice fare colà? Come ha fatto a sapere che… Come ha fatto Raperonzolo a resistere sola nel deserto con i suoi bambini appena nati? Come ha fatto il principe cieco a ritrovarla? Ma è impossibile…
pittura di Davide, 8 anni
Il senso delle fiabe non agisce più a livello simbolico e metaforico, assimilato in modo quasi naturale, senza bisogno di spiegazioni, e questo credo dipenda proprio dalla scarsa familiarità che i bambini hanno con il racconto orale, con tutte le sfumature che lo distinguono e che costruiscono nessi, significati, messaggi. Le fiabe, più di altri racconti, hanno una prosodia, cioè una forma di comunicazione sovrastrutturale che si attiva attraverso la voce, lo sguardo e il gesto, accanto al significato delle parole. Una esperienza narrativa sempre di più rara, che ai bambini viene a mancare privandoli di familiarità con l’inferenza, la metafora, il non detto, così presente e vivo nelle storie. Le fiabe attraverso le metafore dicono ciò che non si può dire a un bambino, ma che il bambino a livello inconscio sa, o almeno intuisce, verità a cui vorremmo fosse preparato. “Ma i lupi non sono cattivi” ha detto Nina quando ho letto Cappuccetto Rosso nella versione dei Grimm per confrontarla con quella di Perrault e quella di Calvino (La finta nonna) de Le Fiabe italiane. “Ma nelle fiabe sì”, ha replicato qualcuno. Hanno iniziato a discutere. “Perché le fiabe non sono vere.”, “Sono una metafora”, ha aggiunto Francesco. “Il lupo non è il lupo, ma è qualcuno che può farti del male, e allora bisognava dire ai bambini di stare attenti.”
“Ma Cappuccetto Rosso è una bambina. Perché solo alle bambine, maestra?”, chiede Umberto. Alla fine della fiaba di Perrault, dove non arriva il cacciatore, la morale recita…
Qui si vede che i bimbi, ed ancor più le care
Bimbe, così ben fatte, belline ed aggraziate,
Han torto di ascoltare persone non fidate,
Perché c’è sempre il Lupo che se le può mangiare.
…
Mi sto convincendo che riguardo alle questioni di genere siamo in un momento in cui c’è una tale attenzione che persino i bambini ne sono coscienti e attraversati spesso da dubbi e sospetti.
pitture di Nina e Alberto, 8 anni
Ma a proposito di cose indicibili, di allusioni a temi sensibili e scabrosi, di cui le fiabe sono ricchissime, proprio la storia di Cappuccetto Rosso, la prima fiaba che viene raccontata ai piccolissimi (e il cui racconto si basa proprio su questo principio: raccontare senza far caso alla drammaticità degli eventi), proprio questa eterna, intramontabile storia ha dato luogo a uno scambio di riflessioni tra i bambini, ma ciò è potuto avvenire solo perché ho lette diverse versioni della storia in rispettose traduzioni dagli originali.
In più versioni, il lupo chiede alla bambina di spogliarsi e entrare nel letto, e la bambina, nel buio della stanza, si accorge finalmente che qualcosa non quadra, ma invece di riconoscere il lupo pensa: “Non sapevo che la mia nonna da spogliata fosse così”. Anche qui il buio è tra i protagonisti della storia. E un’altra protagonista è l’ingenuità. Ci soffermiamo a parlarne. Lascio che i bambini parlino tra loro e scrivo velocemente ciò che dicono.
Umberto - Ingenuità significa che non hai esperienza, quindi non sai se quella cosa è un pericolo oppure no. L’esperienza è conoscere i pericoli e imparare a evitarli.
Francesco – Cappuccetto Rosso in una delle storie non ha nessun sospetto, nella storia di Perrault sospetta e dice che la nonna spogliata le sembra strana, ma non scappa.
Matteo – Quando è vestita la vede normale, umana, quando è nuda le sembra naturale che sia diversa, era abituata a vederla vestita…
Junear – Solo gli esseri umani usano i vestiti.
Amelia – È come che quando è vestita è umana, quando è nuda si trasforma in orca o lupo, quando gli uomini non hanno i vestiti sono simili agli animali.
Umberto – Ma infatti gli uomini sono animali.
Ale – Sono degli animali con più cervello.
pitture di Amelia, Elda, Dean, 8 anni
Mi sembra superfluo commentare questo ricco dialogo. Piuttosto la questione su cui ritorno è ancora questa: quanto è importante che i libri di fiabe che portiamo ai bambini siano coerenti rispetto a questo tipo di narrazione? Quanto è importante che la scuola comunichi questa coerenza e questa qualità? È anche una questione di correttezza. E infine mi viene da dire che, se non abbiamo più familiarità con il racconto orale da cui queste storie hanno avuto origine, mi pare giusto compensare proponendole con le parole con cui sono nate, parole strettamente collegate all’oralità e che rappresentano una vera lingua, tanto scarna quanto precisa, che con i suoi ritmi, con un motto, una formula, con “quel misto di sadismo e mitezza che è stato delle nonne “favolose” (Goffredo Fofi, postfazione del già citato Buchettino) apre mondi e nutre immaginari, crea connessioni, sorprende gli animi, riporta alle origini, diventa lingua madre. Ecco, se proprio devo, riguardo alle fiabe, aprire una nota riferita al genere, mi piacerebbe soffermarmi su questa, e cioè sul fatto che la lingua delle fiabe è madre, che l’oralità è donna. Se penso alle fiabe della mia infanzia penso a mia madre e a mia nonna materna. Nelle note introduttive delle fiabe dei Grimm (edizione Donzelli) si dice chiaramente che la raccolta avvenne soprattutto dalla voce diretta di narratrici, di cui i due fratelli a un certo punto cominciano ad annotare i nomi. E sebbene sia una cosa risaputa, mi sono ritrovata a rifletterci proprio in questi giorni in cui ho chiesto ai miei alunni di ricostruire la storia dei propri nonni partendo dalle fonti orali, cioè da un’intervista.
Su 20 nonni intervistati, 15 sono nonne. È un dato che ci è saltato all’occhio subito. Perché? Ci siamo chiesti? Perché i nonni sono più occupati? Perché sono meno propensi a lasciarsi andare ai ricordi? Perché è normale per loro delegare la cura dei bambini e di tutto ciò che li concerne alle figure femminili della famiglia, come d’altra parte è sempre stato. Quindi se la maestra chiede, va da sé che se ne occuperà la nonna. Perché le donne sono più disponibili al racconto? Perché a loro piace essere coinvolte nella giostra dei ricordi e indugiarvi con piccoli aneddoti? Perché il racconto è cura e la cura è femmina?
Non so, forse immaginare anche le nonne “moderne” come custodi della memoria e del racconto è solo una mia supposizione, forse il fatto di aver lavorato nello stesso periodo sulle fiabe e sui ricordi dei nonni mi ha condizionata. Nei prossimi giorni, continuando in questo progetto avrò forse modo di capire di più. Intanto vi lascio queste mie domande. Potrei persino concludere: larga la foglia, stretta la via, dite la vostra…
pittura di Emanuela, 8 anni