[di Chiara Condò (con Alessandro Montagner)]
È successo di nuovo l’altra sera, poco prima della chiusura: un bambino è entrato nella mia libreria di corsa e si è guardato attorno spaesato, afferrando libri distrattamente. Mi sono avvicinata per salutarlo, ma non sono riuscita ad aprire bocca che un braccio materno è spuntato dalla porta, arpionando il bambino e portandolo via altrettanto in fretta.
Avevo dimenticato queste scene, che pure sono comuni durante la nostra lunga estate. A Tropea “la stagione” inizia presto, e i suoi confini non sono precisi: incontriamo tante persone da tanti paesi, con vari stili di vita; ma tra giugno e agosto il turismo italiano ha una sua costante, ed è l’atteggiamento che riserva ai piccoli lettori.
«Evita», «Se entri non ti seguo», ma anche «Ti aspetto fuori, io qui non vengo», oppure «Cosa devi fare là dentro?». Nei lunghi turni serali ho sentito genitori pronunciare queste frasi a pochi metri da me, a volte nascosti dalle vetrine, altre direttamente sull’uscio. Le giustificazioni date sono molte: un genitore non accompagna il figlio in libreria perché, magari, di libri ne ha già tanti. E poi ci sono quelli da leggere per scuola (che sono sempre lì, «neanche una pagina ha aperto») e non si può comprare un altro libro se non si finisce quello in corso. Ci sono, giustamente, le ragioni economiche, e anche quelle personali. Io ho sempre avuto a che fare con queste ultime, e nel corso di quest’indagine ho ripensato spesso alla mia straordinaria famiglia di non lettori: mia madre non ama leggere e i libri la fanno addormentare; mio padre non ne ha il tempo — e se l’avesse leggerebbe solo «cose vere, non quelle finte».
In vacanza con loro sapevo di non poter entrare in libreria, perché si sarebbero annoiati. Potevo fare, certamente, un giro molto rapido (che facevo sempre con un po’ di panico) ma spesso mi aspettavano fuori, o sull’uscio. Per scegliere davvero un libro sono sempre andata da sola, con borse grandi in cui nascondere gli acquisti. E provavo una grande pena di fronte alla consapevolezza di non poter condividere con loro nulla della mia esperienza di lettrice. Sapevo di doverla portare avanti in solitaria, senza pretendere altro.
Quasi due anni fa, quando ho aperto una libreria nel mio paese, ero sicura di trovare altri ragazzi come me. Non solo figli di famiglie lettrici, piene di libri ereditati, magari, da nonne insegnanti. Sapevo che prima o poi si sarebbe fatto avanti, come un pioniere del Far West, un ragazzo in cui mi sarei rispecchiata. Zaino, solitudine, una banconota tutta piegata in un palmo, una spietata necessità di condividere.
Mi è stato detto e ripetuto che la lettura è classista, che solo chi ha una famiglia di lettori alle spalle diventa lettore a sua volta. Ancor più in un territorio come il mio, sprovvisto di librerie, biblioteche, teatri, negozi di musica, cinema. Un ragazzo dove potrebbe trovare un libro, se mancano luoghi e occasioni? E perché dovrebbe cercarlo, se non ne ha mai sentito la mancanza? Non potrebbero bastargli il calcio, la palestra, il cellulare?
I gruppi di lettura sono nati dopo la prima estate, per quei ragazzi a cui queste cose non potevano bastare. Tenevo davvero a trovarli, perché sapessero di non essere “gli unici alieni sulla Terra”. Per aiutarli a capire che attorno al libro si potevano costruire nuove amicizie, serate in comune, e un nuovo linguaggio con cui esprimersi. Per dimostrare che non avevano più bisogno di passare ore al computer per poter parlare delle loro passioni con amici lontani. Tutto questo avrebbero potuto trovarlo anche qui, nella piccola e isolata Tropea.
L’evolversi dei gruppi ha poi confermato la mia supposizione iniziale: pochi ragazzi avevano alle spalle una famiglia di lettori. Come nel mio caso, gli unici libri in casa appartenevano a loro, e la grande fame di storie li aveva resi forti e decisi.
Oggi penso che è grazie a chi, in tanti anni, ci ha detto «ti aspetto fuori» se siamo diventati lettori. Crescere immersi nei libri non porta necessariamente al risultato più ovvio. A volte è meglio quando la strada è più difficile, e piena di ostacoli: vivere in un così piccolo paese del Sud porta a non dare nulla per scontato. Ogni passione diventa consapevole, perché conquistata e difesa a fatica.
Anche per questo sono tornata: la salita è bella se fatta in compagnia. E voglio che i ragazzi sappiano che in cima troveranno una libreria, e qualcuno sempre pronto a rispondere “ti aspetto dentro”.
Postilla per librai incerti
Il primo passo nella costruzione dei gruppi di lettura è stato ascoltare i ragazzi che venivano in libreria, magari all’uscita da scuola: capire i loro gusti, le loro passioni, gli autori che preferivano. Quando i tempi sembravano maturi ho proposto d’incontrarci mensilmente, e dopo le prime adesioni ho pubblicizzato l’iniziativa facendo il giro delle scuole, classe per classe. Ricordo ancora che al primo incontro eravamo in sei, e la timidezza dei ragazzi mi spaventava: c’era tanto silenzio e mi sembrava di non riuscire a coinvolgerli. A forza di parlare di libri per lavoro ci si dimentica che non tutti sono abituati a farlo. Alla fine tuttavia sono stati loro stessi a spiazzarmi: i colleghi mi avevano suggerito di scegliere libri avvincenti e di fare attenzione alla lunghezza del testo, ma i ragazzi hanno scelto proprio il libro meno ovvio tra quelli proposti, il più duro e lungo. Da episodi come questo ho imparato ad essere aperta e flessibile ad ogni richiesta.
In seguito i gruppi si sono allargati e moltiplicati, soprattutto grazie al passaparola. Ora sono rodati e organizzarli è più semplice. Al momento sono tre: uno per la fascia d’età della scuola media, uno per le superiori e uno per gli adulti. A breve partirà anche il gruppo per i bambini di 8-10 anni. Gli incontri sono mensili, e ogni volta scelgo tre libri da proporre: li presento e ciascuno è libero di scegliere quello che preferisce, e che verrà discusso all’incontro successivo. Il compito più bello è anche questo: garantire sempre a ogni lettore la libertà di scegliere, anche all’interno del gruppo.