Colorario ovvero vibrare insieme al colore

[di Elena Iodice e Catia Castagna]

Quel che pensiamo di aver capito del Festival Tuttestorie è che ogni edizione si lega in modo indissolubile all’altra, come anelli di una stessa, lunghissima catena. Del tema di quello che sarà se ne comincia a parlare, sommessamente, a tavola, gli ultimi giorni di quello in corso, sotto quell’effetto di leggera ubriacatura che le giornate del Festival ti lasciano addosso. È un parlottare silenzioso, fatto di cenni ed allusioni. Ma è lì che i due anelli si intrecciano e la catena si allunga. Quello appena passato è stato il 20° Festival Tuttestorie. Un compleanno del genere inevitabilmente porta a fare un bilancio di ciò che è stato e ti obbliga a capire dove si vuole andare per evitare che si inneschi il pilota automatico della consuetudine. È un compleanno, insomma, che carica i pensieri di una ancora maggiore responsabilità. L’abbiamo avvertita subito durante le prime call del post festival 2024, quella responsabilità. Da una parte c’era il peso del confronto con la Maratona per un Disegno Infinito del Mondo che aveva accompagnato l’edizione passata: dall’altra, quella per questo compleanno bellissimo (ma impegnativo) da celebrare. E poi c’era il tema: inVENTario. Inventario dei Festival. Ma anche inventario del mondo. 

Durante quei primi incontri ci pareva di avere tra le mani una matassa di fili ingarbugliati: sapevamo che ci avrebbero portato da qualche parte, ma prima di tutto bisognava trovare il bandolo e cominciare a dipanare quel gomitolo di possibilità. Sapevamo, però, cosa volevamo. Volevamo che la sala Puà continuasse a essere un unico, grande spazio capace di accogliere tutti. Volevamo che le installazioni al suo interno potessero in qualche modo essere agite. Volevamo parlare del Festival senza essere autoreferenziali. Volevamo, fortissimamente, che proprio nella Sala Puà potessero incontrarsi i nostri due mondi diversi, ma anche vicinissimi, con uno stesso sguardo sulle cose: quello danzato e suonato da Catia, e quello agito dalle mani e dai segni e colori di Elena. Fin qui non avevamo mai avuto modo di intrecciare i nostri percorsi, ma erano anni che pensavamo a quanto sarebbe stato bello incontrarsi davvero. Sì, ma come? Ancora una volta, è stata una foto a innescare i pensieri, guidandoci verso una risposta. Durante la Maratona per un Disegno Infinito del Mondo avevamo notato una mamma e una bambina intente a disegnare sul pavimento un pezzo del loro mondo. I loro corpi sembravano entrare nel disegno. Quei due corpi, così fisicamente intrecciati al groviglio di pennarelli del fondo, ci hanno convinte che proprio il corpo avrebbe dovuto essere centrale.

Il corpo per intero. Non solo gli occhi o le mani. Quel guazzabuglio di segni i bambini e le bambine non lo hanno guardato stando in piedi, a debita distanza. Ci si sono tuffati, realmente, chiedendo spalle su cui poter essere sollevati per raggiungere le regioni più distanti dell’impero.

Era stata una vera e propria immersione, quella. E allora, eccola una certezza: il corpo doveva essere al centro di ogni azione. Infine, se il disegno con cui avevamo riempito la Sala Puà era stato un tracciato bianco e nero, quest’anno avremmo riportato sotto quelle volte il colore. I colori. Colorario. Inventario cromatico, quindi. Ma come si fa un inventario dei colori? Come uscire dalle esposizioni didattiche o dalle connessioni forzate che siamo soliti fare dei colori? Come trasformare questo inventario in un’azione performativa? Durante l’incredibile esperienza che fu il Bauhaus, Oskar Schlemmer, pittore e coreografo (per l'appunto) della scuola, portò sulla scena ballerini vestiti di pesantissimi costumi colorati fatti di carta, ferro, plastica, stoffa e legno. Non era un vero e proprio balletto, ma piuttosto una combinazione di danza, geometria, colori, pantomima e musica. Non gli interessava la danza fatta di perfetti movimenti e di linee aggraziate quanto piuttosto il corpo umano e il modo in cui esso, facendosi veicolo di colori e forme, si fondeva, muovendosi, con lo spazio intorno. Schlemmer riporta sul palcoscenico esattamente quello che fanno i pittori sulla tela capendo che il colore non è una formula statica, ma un’entità mutevole, capace di modificarsi con la luce e con il movimento.

Perché il colore, come scriveva Josef Albers, altro straordinario insegnante del Bauhaus, inganna di continuo. Non lo puoi fissare, non lo puoi, neppure, esattamente definire. Costruire un inventario dei colori può essere l’occasione per aprire le porte alle infinite combinazioni e le molteplici possibilità che ogni colore porta con sé. Lo spazio chiuso dalle volte della sala Puà stava diventando, in quelle prime chiacchierate ancora confuse, il luogo dove fare esperienza del colore. Ecco allora che le pareti metalliche recuperate da un vecchio allestimento (perché noi del Tuttestorie non buttiamo mai via nulla) diventano la tavola su cui scomporre e ricomporre giganteschi tangram magnetici. 

Poi cerchi enormi disegnati, a ruotare attorno al proprio centro fino a creare effetti cinetici in cui i colori si rincorrono velocissimi fino a svaporare l’uno nell’altro. Ancora: chi di noi, da bambino, non si è costruito un nastro a imitazione di quelli usati dalla ginnastica ritmica? Bastava un avanzo dei regali di natale, un bastone di legno e un po’ di spago. Non era quello un modo di fendere lo spazio, farlo vibrare proprio con il colore?

E allora, proprio accanto ai grandi cerchi sempre in movimento, per continuare questo dialogo tra colore e spazio, un fascio di nastri variopinti.

Neppure chi progetta un allestimento o un laboratorio sa fino in fondo l’effetto che questo avrà alla fine. Potrebbero accadere cose che non si erano preventivate e che aprono a nuove possibilità. Puoi pensare di appendere, ad esempio, una serie di gelatine colorate a una parete e anche immaginare un sistema che permetta ai bambini di prenderle e riattaccarle. Ma accade che, mentre le sistemi, la carica elettrostatica di ogni foglio sveli una magia: la gelatina resta attaccata da sola alle pareti. Posso sovrapporla, sottoporla, accostarla creando davvero infinite sfumature di colore.

Sui grandi tavoli disegnati con nastri di scotch colorato, Elena, assistita da un nutrito gruppo di insostituibili volontari, per tutta la durata del Festival, ha aiutato i bambini e le bambine a costruire maschere di carta capaci di catturare pennellate di luce e enfatizzare il movimento dei corpi. 

Anche se non esiste una barriera fisica, la sala Puà risulta idealmente divisa in due: a sinistra lo spazio più logico e razionale dove hanno trovato spazio i laboratori condotti da Elena; a destra il palcoscenico su cui Catia ha accompagnato chi entra in un’esplorazione davvero corporea, facendo agire mani, piedi, occhi e teste. 

Per passare da qui a lì un ponte-xilofono colorato da suonare -idealmente- con i piedi. Alle pareti una foresta di nastri colorati in cui entrare ed uscire, nascondersi e riemergere. E una palla strobo, a proiettare attorno scintille luminose. 

E luci colorate a cambiare, continuamente, la percezione dello spazio e i corpi dentro di esso. Perché abitare una stanza rossa non è la stessa cosa di vivere all’interno di un cubo azzurro. Le superfici si dilatano, si comprimono, respirano in questa successione cadenzata di passaggi luminosi. 

Infine, due lunghe pareti di lastre metalliche riflettenti: non veri e propri specchi ma superfici leggermente convesse in grado di riprendere e far rimbalzare i colori. I corpi spariscono nella giunzione tra le lastre e poi si riallargano a si allungano a seconda del movimento. Si creano effetti psichedelici, rimbalzi colorati con cui giocare in modo sempre diverso, sempre nuovo.

Ogni cosa invita a mettersi in movimento, a sperimentare. Impossibile stare fermi. VIDEO

“Sembra di essere dentro Alice nel paese delle meraviglie”, ci dice una bambina. 

È un viaggio sensoriale che invita a vivere il colore con tutto il corpo, trasformando lo spazio in una tela dinamica dove il gesto e il suono sono i veri protagonisti. L'avventura inizia nel momento in cui ogni partecipante indossa un paio di cuffie: è qui che la voce narrante di Catia e una colonna sonora avvolgente composta da Enrico Venturini danno il via a un viaggio nell’ altrove. Ognuno è immerso in una bolla sonora che scaccia via le distrazioni esterne e porta tutta l’attenzione su un’unica guida: la narrazione che si fa istruzione coreografica e sensoriale. 

La voce invita i partecipanti a utilizzare il linguaggio del corpo per incarnare le sfumature e le qualità del colore in un’esperienza di sinestesia tra movimento, musica e percezione cromatica. In cuffia, viene suggerito di trasformarsi in altro, muovendosi su una colonna sonora dinamica, giocata su cambi di intensità, aumento del volume e stratificazione degli strumenti. È un’esperienza immersiva da cui si esce conservando una vera e propria memoria muscolare del colore. 

Il corpo avanza in un movimento ovattato, immerso nel blu oltremare o si eleva, in punta di piedi, dentro l’azzurro leggero delle nuvole: si scuote, su e giù, come le ali di una farfalla candida o, al contrario, barcolla, dondolante, come un orso polare confuso nel bianco.  

Assume il portamento elegante di una mantide religiosa di un verde squillante, con movimenti a scatti e occhi fissi sulla preda, o mima il guizzo rosso di un piccolo pesce dai fianchi ondeggianti che si muove nel mare o, cambiando ancora, ciondolando avanti e indietro nelle rotondità calde di un’arancia matura. 

E ancora, il corpo si china, le gambe e le braccia si muovono in modo alternato come un ragno nero appeso alla sua ragnatela o si tende come i muscoli pronti allo scatto sotto la pelliccia nera di una pantera.

Nel movimento i due spazi, che abbiamo nominato “di Elena” e “di Catia”, entrano in osmosi, sperimentandosi a vicenda.

È qui che le gelatine appese “di là” diventano strumenti per colorare la luce “di qua”.

I nastri attaccati ai bastoncini si intrecciano, giocosi, nella foresta di quelli appesi alle pareti.

Le maschere realizzate nel velocissimo laboratorio con ritagli colorati, prendono vita diventando estensioni del corpo, indossate come cappellini o brandite come scudi.

Nell’azione che Catia e le volontarie coreografano, ciascuno ha il suo passo, il suo ritmo, la sua andatura. Chi corre, chi si muove quasi senza muoversi. Chi è timido e accenna un solo movimento e chi invece, spavaldo, si butta nel flusso. Tutti seguono le stesse indicazioni ma ognuno resta profondamente libero.

Qui potete vedere un video in time-lapse.

È una marea, una folata di vento, un’eco di un suono lontano che si propaga sotto le volte della sala Puà. È un movimento libero, guizzante, tintinnante nei colori dell’arcobaleno liberati dal racconto che il corpo raccoglie e fa suoi. Un movimento che diventa, piano piano, danza inconsapevole.

Ogni colore è una nota musicale, dice Catia nel suo racconto: lo sapeva bene Kandinsky che, per tutta la sua vita, tentò di tradurre in colore i suoni che sentiva attorno a sé. 

 

Credits: Colorario: inventario cromatico un progetto del Festival Tuttestorie 2025 a cura di Catia Castagna ed Elena Iodice Allestimenti: Next in collaborazione con Mattia Mulas (con Mirko, Antonio, Filippo e Bugo) Supporto tecnico: Simone e Valentino Perra Musiche: Enrico Venturini Fotografie: Laura Farneti, Massimo Gasole e Beatrice Puddu.

Un grazie speciale a tutte le volontarie e i volontari, guidati dagli insostituibili capisquadra Matteo, Sabrina, Anna e Martina, che ci hanno affiancato e sostenuto per tutti i giorni del Festival. Senza di loro non ce l’avremmo fatta.