[di Rita Gamberini]
Se è vero, come ho letto da qualche parte, che il passato rimane sempre al nostro fianco come una dama di compagnia, è pur vero che i genitori anche quando non ci sono più di compagnia ne fanno tanta. È una vicinanza mutevole che alterna ricordi concreti a presenze ineffabili, uno spessore che un giorno si insedia lì e ci resta per un po’.
Così ho una madre che è la più buona al mondo, ma così buona che non si può dire niente. Mi raccontava che da ragazzina, rimasta orfana di entrambi i genitori, per un periodo si è trovata sola, in una casa di campagna, con la sorella minore. La sera, al sopraggiungere del buio, per alllontanare la paura, guardava il cielo e contava le stelle. E io la immagino così, un po’distratta e un po’ assorta nel farsi coraggio, e le sorrido pensando che già allora doveva essere davvero una ragazzina buonissima.
Come è rimasta fino alla fine. Non c’è altro aggettivo che la possa descrivere, dovrei veramente scomodare tutto il vocabolario e torneremmo sempre lì, alla sua bontà.
Quando i servizi sociali di allora si sono occupati di lei e della sorella, è finita in un istituto religioso, dove le monache erano convinte che dovesse nascere in lei la vocazione a farsi suora. Lei però si sottrasse a quel destino sostenendo di non essere degna di diventare sposa del Signore e aderendo più mestamente all’ordine delle francescane laiche. Andavano a messa ogni santo giorno e in quel tragitto è iniziato il corteggiamento di mio padre. Mi raccontava che quando la vedeva passare per strada rigida e impettita lui scandiva i suoi passi a voce alta “un due…un due…” ed è così che l’ha conquistata.
Mio padre era un tipo, si chiamava Giovanni Battista, detto anche Gianni, Giannetto e Sereno. Sereno perché fischiettava sempre, un’allegria naturale che reagiva alla fatica di un lavoro pesante e alla guerra a cui era scampato. Io però l’ho temuto, non perché fosse cattivo, ma per una instabilità emotiva che alternava atteggiamenti bonari a un certo nervosismo. Per questo è stato difficile averci a che fare per tanto tempo e per questo quando è mancato ho messo per iscritto la nostra riconciliazione.
AL PADRE
Sai che non posso scriverti se non in una forma di paese
poche case la nostra l’hai fatta a più riprese
una volta era la neve un’altra il cane
la vespa il camioncino la seicento……
Quindi negli anni tra il ’50 e il ’60 mi nacque un padre
che era un operaio
per tutto il tempo lo lasciai fare quello che gli pareva
giocare la schedina fumare sigarette vestire sempre domenica compresa
la tuta blu
stare nella sua lingua
dalla strada a gridare dove doveva andare
e quando non eravamo d’accordo quasi su niente
lo lasciai fare quello che gli pareva
rinnovare le facciate della casa
mettere nel giardino piante da frutta
cambiare di mestiere
da magro essere grasso e poi normale
farmi la paternale
irritazione di varia intensità
gioco del lotto
vincere e ripartire tra noi la modesta fortuna
o ripuntare tutto fino all’ultima ricevitoria
qualche giorno prima di andarsene senza avvisare.
P.S. Mia madre si chiamava Anna.